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Democrazia a rischio? Va in scena la bufala catalana

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Prevedibili scontri di piazza e polemiche feroci. Il referendum catalano è risultato un flop, visto che solo il 34% vuole davvero la secessione. Non è infondato il sospetto che si sia voluto creare un incidente col governo spagnolo per far precipitare la situazione. E resta legittimo un dubbio: a chi giovano le piccole patrie? Non ai loro popoli che, tranne rare eccezioni sono stati impoveriti dalle secessioni. Le quali, inoltre, hanno creato tensioni etniche, anche laddove non c’erano i presupposti

Sconcerta la faciloneria con cui le principali testate italiane online hanno titolato i risultati del referendum catalano del primo ottobre: Il 90% ha detto sì alla secessione.

Lo strillo c’è. Ma anche la bufala. Infatti, hanno poi riportato un po’ tutti, i votanti sono stati 2.600mila e rotti su 5.300mila e rotti aventi diritto. Il che vuol dire, tradotto in percentuali, che circa il 34% dei cittadini catalani vuole la secessione, dato che, tra i votanti, in 187mila hanno sfidato le cariche della Guardia Civil per votare no.

Serve altro per dire che, dal punto di vista politico e democratico il referendum voluto dagli indipendentisti è stato un fallimento solenne?

Certo, ci sarà chi argomenterà (o c’è già chi lo fa) che la presenza repressiva dello Stato centrale sia stata un deterrente per molti. Ma l’argomentazione non è troppo efficace: visto che la Guardia Civil non è la Jina (cioè l’esercito della vecchia Jugoslavia che nel ’91 presidiava la Slovenia armato per davvero e fino ai denti), che nazionalismo è quello di un popolo che ha paura di qualche manganello e di proiettili di gomma al punto di non sottoporsi a qualche rischio pur di avere una patria?

Semmai, il dubbio maligno viene dall’argomentazione opposta, che, a quanto risulta, nessun commentatore ha fatto: chi ci dice che, se non ci fosse stata la Guardia Civil nazionale, la polizia regionale, che si è rifiutata di caricare gli indipendentisti, non avrebbe esercitato pressioni in senso contrario? In fin dei conti, la prima dipende da un governo centrale, la seconda soprattutto da un governo regionale, un po’ come le nostre polizie municipali e provinciali, ma con più poteri. Ovviamente siamo nel campo delle pure ipotesi e formuliamo questa solo per completezza.

Dal web alla carta, la situazione non è migliorata di molto: i principali quotidiani (tranne Repubblica, che si è mantenuta piuttosto prudente) hanno provato a cavalcare il sensazionalismo e hanno titolato sugli scontri e sui feriti.

Stavolta la notizia c’è, anche se c’è stato chi, come Libero, ha calcato la mano, immaginando uno Stato spagnolo ultrarepressivo che avrebbe impedito una manifestazione democratica. Intendiamoci: il problema politico c’è ed è grave. Anche perché quello catalano è un precedente che, se passasse, potrebbe mandare la Spagna in pezzi. Ma, per fortuna, il Partito popolare spagnolo non è la Falange franchista e il debole Rajoy non somiglia neppure di striscio al Caudillo.

Ma due cose sono chiare non appena si provi ad approfondire: quella catalana è solo una questione politica. Non è una questione democratica, perché in uno Stato di diritto (e la Spagna lo è) non c’è democrazia senza regole e non c’è manifestazione democratica valida senza leggi.

Il problema principale è stato quindi di legalità: il referendum indetto dal governo catalano (cioè, più prosaicamente, da chi tiene i cordoni della borsa) è anticostituzionale e, quindi, illegale. Perciò la Guardia Civil non poteva non intervenire (e sarebbe dovuta intervenire anche la polizia regionale, che si è rifiutata) e il governo centrale non poteva non dare l’ordine di intervenire.

Qui sorge un altro dubbio maligno, meno ipotetico del precedente, ma non per questo illegittimo: il presidente catalano Puidgemont non poteva non sapere che il suo referendum fosse illegale e non poteva non mettere in conto che si sarebbero verificati, come puntualmente è avvenuto, degli incidenti. Se le cose stanno così, chi impedisce di pensare che si sia voluto cercare a tutti i costi il caso per forzare la situazione politica?

Ma anche in questo modo i numeri decretano il fallimento del referendum, che ha espresso ciò che già si sapeva: cioè che una minoranza agguerrita cerca la secessione per motivi economici, il consueto egoismo fiscale che ha ispirato da noi la Lega vecchia maniera. Molte decantate piccole patrie, al netto dei loro nazionalismi vernacolari, stringi stringi esprimono solo questo. E l’egoismo dei ricchi è peggiore e, spesso, più stupido e pericoloso di quello dei poveri.

Infatti, che senso ha, nell’attuale Europa che ha eroso tutte le frontiere, demolire gli Stati nazionali per creare staterelli che a livello globale avrebbero poco peso politico? Le regioni ricche non sono tali in senso assoluto ma in relazione al loro contesto. E la Catalogna, come da noi Veneto e Lombardia, si sono arricchite grazie a due fattori: il mercato nazionale di riferimento e il lavoro degli immigrati. Infatti, tutti gli staterelli nati da secessioni – tranne la Slovenia e la Slovacchia – si sono progressivamente impoveriti e nulla fa pensare che la Catalogna possa avere una sorte migliore. Questo per la stupidità.

Il pericolo riguarda l’aspetto democratico: fuori dalle identità nazionali, che sono identità complesse e composite perché somma e sintesi di identità locali, la democrazia rischia di regredire al livello etnico e di perdere, conseguentemente, quei valori liberali di tolleranza e apertura che hanno reso grandi i sistemi occidentali. Non è un caso che tutte le piccole patrie abbiano problemi con le loro minoranze interne. La Slovenia, per ripetere un esempio, espulse tutti i serbi e i croati residenti. La Slovacchia, per ripeterne un altro, ha tensioni continue con le sue corpose minoranze magiare e tedesche.

La democrazia deve davvero portare a tutto questo in un mondo in cui i rapporti di forza si basano ancora sulle dimensioni demografiche? Non evochiamo allora Francisco Franco, quando i rischi di derive fascistoidi si annidano proprio in questi nuovi nazionalismi. Né si facciano paragoni con i Risorgimenti ottocenteschi, perché da quelli sortirono i grandi Stati, da questi, invece, potranno derivare al più dei mini governi a base condominiale ancor più deboli nei confronti dei poteri finanziari degli Stati da cui vogliono emanciparsi.

Non è questa la via per costruire l’Europa dei popoli, tanto agognata. Rischia, semmai, di diventare la scorciatoia per potenziare quella, temuta e vituperata, delle banche.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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