Tra liberalismo e fascismo, il nazionalismo particolare di Gioacchino Volpe
La pubblicazione de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, curata da Eugenio Di Rienzo e Fabrizio Rudi, consente di approfondire un aspetto importante del pensiero politico del grande storico. Soprattutto, chiarisce il percorso che portò Volpe ad abbracciare il movimento mussoliniano
Il 6 giugno 1943 lo storico Gioacchino Volpe scrisse una lettera piccata a Giovanni Gentile per smentire le voci sulla sua scarsa produttività scientifica messe in circolazione da un gruppo di docenti della Facoltà di lettere e filosofia de La Sapienza di Roma, contrari al suo trasferimento dalla Scienze politiche, dove egli aveva insegnato Storia della politica moderna fin dal 1925. Nella lettera Volpe ricordava, fra l’altro, di aver pubblicato nel 1940 il primo volume «di una storia civile, interna del popolo italiano durante la guerra [Il popolo italiano fra la pace e la guerra]», cui sarebbe di lì a poco seguito il secondo volume, Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1914-1918.
Il mutato clima politico successivo al crollo del regime nonché la distruzione, nel 1944, dell’archivio dello studioso a causa dell’occupazione e della devastazione della sua casa di Spinalbeto, nelle vicinanze di Sant’Arcangelo di Romagna, impedirono tuttavia a Il popolo italiano nella Grande Guerra di prendere vita nella forma concepita dall’autore. Di esso lo storico riuscì a terminare unicamente la parte del manoscritto, relativa al primo anno della Grande Guerra, che fu pubblicata solo nel 1998.
Prima di abbandonare la capitale per Spinalbeto, Volpe si premurò comunque di mettere al sicuro, presso l’Istituto italiano di Storia Moderna e Contemporanea, una sorta di editio princeps di questo lavoro. Si trattava de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, un dattiloscritto di ottanta pagine limitato al periodo 23 maggio 1915 – 17 agosto 1916, che è stato recentemente pubblicato a cura Eugenio Di Rienzo e Fabrizio Rudi nell’ambito della collana Minima storiografica, piccola biblioteca della Nuova Rivista Storica.
Nell’amplissima introduzione, Di Rienzo esamina l’attività intellettuale di Volpe nel periodo che precedette e seguì l’entrata in guerra dell’Italia inserendola sullo sfondo di una vasta e accurata rassegna delle varie anime dell’interventismo e dello scontro fra interventisti e neutralisti. I dieci mesi di neutralità italiana rappresentarono infatti un tornante cruciale della storia del Paese, per l’esasperazione del contrasto politico tra i fautori della presa d’armi e il movimento neutralista e per la conseguente attivazione di motivi ideologici che avrebbero avuto largo seguito nel dopoguerra: «Dal mito di un’Italia ‘giovane’, destinata a nuova grandezza se solo fosse riuscita a comporsi in armonica e disciplinata unità, in modo da valorizzare le tradizioni e gli interessi del ‘Paese reale’ contro la demagogia democratica e parlamentare, alla subordinazione, seppure temperata, della politica interna alla politica estera, sino all’adozione del principio della forza, e quindi della guerra, quale motore della vita delle nazioni».
In verità, nota Di Rienzo, la posizione di Volpe si identificava con quella dei Nazionali Liberali, piccolo raggruppamento nato dalla scissione del partito nazionalista, del cui periodico L’Azione lo storico assunse la direzione di fatto negli anni immediatamente successivi al 1914. I Nazionali Liberali erano fautori di un liberalismo «energico e nazionale», ovvero di un «nazionalismo non dogmatico»: ciò permise allo stesso Volpe e agli altri intellettuali legati all’esperienza del liberalismo nazionale di resistere allo «spirito di crociata» e ai toni da «guerra santa» della civiltà contro la barbarie agitati dall’interventismo democratico e poi da quello di sinistra e rivoluzionario. I liberali nazionali, tuttavia, non dimostrarono altrettanta moderazione, precisa Di Rienzo, nell’adoperare con disinvoltura talune parole d’ordine, peraltro comuni a tutte le componenti del variegato fronte interventista: «Dalla virtù morale della guerra, sicura artefice di un nuovo ordine nazionale, solidale e gerarchico, alla rigenerazione morale del popolo italiano, alla necessità di una più energica politica di potenza». È la storia del cosiddetto «equivoco nazionalista» in seno al liberalismo, ossia del progressivo naufragio, nel dopoguerra, di tanta parte dell’intellettualità liberale verso una soluzione autoritaria degli antichi mali italiani, «verso quella ‘rivoluzione’ nella ‘conservazione’ che a Volpe sarebbe poi apparsa parzialmente realizzata nel fascismo, soprattutto per quello che avrebbe riguardato la politica estera del regime».
In questa prima fase, tuttavia, la piccola pattuglia dei Nazionali Liberali si pose in maniera critica nei confronti del nazionalismo ortodosso, prefiggendosi l’obiettivo di fare dell’intervento in guerra il mezzo per realizzare compiutamente l’integrazione nazionale delle aree periferiche del paese – particolarmente, com’è ovvio, delle terre irredente – e per consentire all’Italia lo sviluppo delle sue energie verso lo sbocco naturale della Penisola balcanica e dell’area danubiana. Anche la questione coloniale, nel pensiero di Volpe e dei suoi sodali, doveva essere aggiornata alla luce di una valutazione pragmatica e realistica delle esigenze commerciali e industriali italiane, spostando il flusso dell’emigrazione dalle mete tradizionali verso nuove zone d’influenza e di egemonia nel Mediterraneo, nell’Asia Minore e nel continente africano. Per questa strada il «nuovo nazionalismo» si avvicinava, così, alla galassia del «riformismo laico», da Salvemini a Prezzolini, non legato ai programmi dei partiti tradizionali, confluendo in quella «Giovane Italia» estranea o ostile alla vecchia classe dirigente, antisocialista ma soprattutto antigiolittiana, eppure ancora lontana dal ventilare l’ipotesi di una soluzione politica autoritaria, le cui variegate componenti, secondo Di Rienzo, avrebbero forse potuto costituire un comune patto d’azione.
Con queste forze Volpe condivideva la chiara consapevolezza dell’importanza del processo di «nazionalizzazione delle masse», del loro coinvolgimento nella vita dello Stato: egli, anzi, vedeva attuarsi la vera «democrazia» proprio nell’inserimento del proletariato nell’orbita della Nazione, imposto dalle esigenze dettate dalla prova delle armi. A tale scopo il popolo italiano, nelle trincee, nelle campagne, nelle città e in Parlamento avrebbe dovuto mutare mentalità, stringendosi in un maggiore affiatamento per conseguire l’obiettivo comune, superando i conflitti di parte e di fazione sorti perfino durante la guerra. Lo storico, perciò, accolse con accoramento e scetticismo, nel giugno del 1916, l’annuncio della crisi di governo che pose fine al gabinetto Salandra, cui subentrò l’esecutivo presieduto da Paolo Boselli.
Volpe auspicò che la nuova compagine ministeriale tenesse conto del fatto che la guerra italiana era «bicipite»: contro l’Austria e l’espansionismo germanico da combattere con le armi, ma anche contro «gli alleati nostri ma di noi non amici», da condurre tenacemente con l’arsenale della diplomazia per «ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci».
La coesione nazionale che il governo Boselli aspirava a raggiungere fu però frustrata dall’iniziativa pacifista levatasi dai banchi dei gruppi parlamentari socialista e cattolico, proprio in contemporanea con una fase decisiva del conflitto. La situazione in campo militare manifestò in quel periodo forti elementi di criticità, che dalle trincee non poterono non riflettersi sulla società, per poi ritornare a incidere sulle masse in grigioverde. A partire dal settembre del 1916, infatti, l’offensiva del generale Cadorna sull’Isonzo non riuscì a scardinare le difese austro-ungariche: gli avversari, anzi, rimasero attestati su un saliente nettamente favorevole a respingere un attacco delle forze italiane, e del tutto idoneo per passare alla controffensiva.
«Dopo quella battuta d’arresto», commenta Volpe nelle pagine conclusive de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, «le debolezze dell’Italia in guerra aumentarono d’intensità e si trasformarono, infine, nei veleni che debilitarono il corpo della Nazione fino alla vigilia dell’ottobre nero di Caporetto».
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