L’Albania e il fascismo: l’aquila nera ha le ali spezzate
Passione e bella scrittura nel secondo libro di Anita Likmeta, dedicato all’occupazione italiana del Paese Balcanico. Ma anche molta faziosità, che ricorda – paradossalmente – la vecchia propaganda del regime di Enver Hoxa
A guardarla, si corre davvero (e volentieri) il rischio di fare i lumaconi. Ma sì, diciamolo pure: Anita Likmeta è davvero bella. Fatto il doveroso omaggio all’estetica, occorre aggiungere che questa splendida quarantenne, albanese (per la precisione durazzese) naturalizzata italiana, ha una scrittura pari al suo aspetto: forte, appassionata e torrenziale. Impressive, direbbe chi ne capisce.
E L’aquila nera. Una storia rimossa del fascismo in Albania (Marsilio, Venezia 2025), il secondo libro di Likmeta, ribadisce queste qualità, Lo fa grazie a un linguaggio potente, in cui la forza balcanica si mescola bene con l’eleganza dell’italiano.

Non potrebbe essere altrimenti per un libro che prende spunto da vicende autobiografiche per lanciare una riflessione sui rapporti complessi tra le due sponde dell’Adriatico, tra il Paese d’origine e quello adottivo dell’autrice.
Andiamo con ordine.
Quello scheletro tra gli ulivi
Il racconto di Likmeta è tortuoso (ma tutt’altro che sgradevole), in perfetto balkan style. E mescola, con un efficace dosaggio, emozioni e ricordi.
Tutto parte da un’immagine dell’infanzia: il ritrovamento di ossa umane nell’uliveto dei nonni materni a Rrubjekë, un sobborgo di Durazzo.
«Nonna, chi sono quei morti?»
«Soldati italiani, dei ragazzini. Povere anime. Una storia vecchia. Comunque a noi non ci riguarda».
Questo ritrovamento, spiega l’autrice risale al 1994, tre anni prima di imbarcarsi per ricongiungersi con la madre e i fratelli, arrivati in Italia l’8 agosto ’91 assieme agli altri 20mila albanesi che stipavano la nave Vlora, diventata un simbolo dell’immigrazione di massa.

Se L’aquila nera fosse un romanzo, il ritrovamento di quelle ossa sarebbe l’elemento principale del racconto. Lo spunto che spinge a chiedersi: come va a finire?
Per saperlo, occorre arrivare quasi alla fine del libro: quei resti appartenevano a militari sbandati che tentavano di sottrarsi alle truppe germaniche – che avevano preso il posto di quelle italiane in Albania dopo l’8 settembre ’43 – per rimpatriare spesso da clandestini e avevano trovato riparo nella proprietà dei nonni di Likmeta. Probabilmente, non erano riusciti a scampare a una micidiale retata tedesca.
Uno di questi, prima di spirare, disse il suo nome (Giuseppe) e la sua provenienza (Foggia). Fine della storia.
L’aquila nera dei ricordi
E nel mezzo? Un fiume torrenziale di riflessioni, ricordi, un racconto (piuttosto personale e opinabile) dell’occupazione italiana dell’Albania. Insomma, manca la trama. Invece, la narrazione c’è. Purtroppo.
Ed è una narrazione banale e vecchia (e, a rileggere bene Pascal Bruckner, un po’ squallida), che tuttavia continua a tener banco in parecchi ambienti, anche accademici: quella postcoloniale.
Quanto questa narrazione (già difficilmente applicabile all’Italia per le sue colonie vere in Africa Orientale e in Libia) sia fuorviante sui rapporti italo-albanesi diventa palese solo che si voglia approfondire un po’. E non necessariamente sulla letteratura revisionista, che a dire il vero non è tantissima.
Semmai, occorrerebbe, prima di sparare certi giudizi tranchant, spulciare la non poca letteratura specialistica prodotta dagli storici professionisti negli ultimi tre decenni. E – perché no? – dare uno sguardo a tanta editoria meridionale, che certi temi li ha approfonditi a lungo.

Il problema, a volerne cercare uno, non riguarda i rapporti tra il fascismo e la fragile monarchia di Zog (al quale va comunque riconosciuto il merito di essersi barcamenato tra jugoslavi, greci e italiani per puntellare, assieme al proprio potere, la gracile sovranità dell’Albania).
Il periodo fascista è solo un capitolo, nemmeno troppo corposo, dei rapporti tra Italia e Albania, iniziati ben prima che i due Paesi esistessero come entità politiche. Ci si riferisce alla prima, importante diaspora albanese, quella dei seguaci di Skanderberg, da cui sorsero le comunità arbëreshë nel Sud Italia. Un aspetto marginale nelle relazioni italo-albanesi? Proprio no: si pensi solo al peso del calabrese Girolamo De Rada nella genesi della lingua albanese moderna.
Di più: alcuni miti politici importanti nel nazionalismo albanese (dice nulla l’idea della Grande Albania, inclusiva del Kossovo e di porzioni generose di Macedonia, Montenegro e Grecia?) derivano proprio dalle opere di De Rada.

Lo stesso indipendentismo albanese ebbe molti stimoli dal Risorgimento italiano, che ispirò tutti i moti antiturchi e antiasburgici nei Balcani. E si potrebbe continuare.
Italia e Albania: la strana passione balcanica
Il riferimento all’Arbëria non è solo culturale ma politico: per dirne una, arbëreshë fu anche il siciliano Francesco Crispi.
Proprio sotto la sua premiership iniziarono i legami forti con l’altra sponda dell’Adriatico, quando l’Albania era ancora una turbolenta provincia dell’Impero Ottomano. E questa passione balcanica, senz’altro non disinteressata (ma tutto sommato non oppressiva né negativa), si ripete’ puntualmente nel 1912, quando l’Italia fu tra i garanti dell’indipendenza albanese.
L’occupazione italiana fu solo una svolta problematica di un legame politico strettissimo tra Italia e Albania. Quest’aspetto era piuttosto evidente alla diplomazia dell’epoca, che non si limitò a tacere, come invece afferma Likmeta. Al contrario – lo riporta il grande Montanelli – qualcuno paragonò l’occupazione italiana al gesto dell’uomo che rapisce la propria moglie. E giova ribadirlo: non erano tempi di neofemminismi e codici rossi.

L’aquila è nera ma non decolla
L’aquila nera ha essenzialmente un limite: ripete in maniera più o meno pedissequa non pochi luoghi comuni della vecchia propaganda del regime di Hoxa.
Dunque: l’Albania è tuttora un Paese arretrato e marginale, a dispetto di una posizione geografica invidiabile? Colpa dell’occupazione italiana, che, evidentemente, in circa quattro anni e qualcosa, ha fatto più danni del regime comunista venuto dopo.
Likmeta, inoltre, non distingue tra l’occupazione italiana in tempo di pace e quella in tempo di guerra. Evidentemente, basta l’etichetta nazifascismo per coprire ogni differenza.
Ancora: gli italiani, senza specificare se civili o militari, molestavano o violentavano ragazzine poco più che bimbe?

Il fatto indigna, eccome. Ma prova solo la tendenza all’abuso di chi detiene il potere. Perciò prova troppo a carico di tutti. Soprattutto, a carico delle varie forze di liberazione che, a partire dall’Armata Rossa, hanno imperversato sulle donne (e forse non solo) di mezza Europa.
A proposito di fascismo, giova ribadire che non tutti i protagonisti dell’occupazione dell’Albania erano fascisti in senso politico. Di sicuro non lo era Francesco Jacomoni, che proveniva da una carriera diplomatica di lungo corso, nella quale si era distinto per condotta prudente e intuizioni brillanti. Né lo era il generale Alfredo Guzzoni, comandante del corpo di spedizione nel Paese delle Aquile.
Di sicuro, la creazione del Partito fascista albanese fu anche un atto imperialista. Ma non solo: basterebbe scorrere le ricerche di un grande storico come Hugh Seton-Watson per rendersi conto che tutta l’Europa dell’Est pullulava di movimenti cripto o filofascisti, più o meno fedeli ai modelli italiano e tedesco. Detto altrimenti, il fascismo, prima della Seconda Guerra Mondiale, era un’ideologia di moda, più o meno come tutte le ideologie di massa.

L’Albania poteva fare eccezione? L’avesse fatta, si sarebbe dimostrata non un Paese amante della democrazia e delle libertà (che ha conosciute entrambe tardi) ma un Paese ancora più arretrato. Dice qualcosa la letteratura piuttosto vasta che, a partire da James A. Gregor, considera il fascismo un movimento di modernizzazione?
Giù le mani dalla storia
Tiriamo un po’ di somme: secondo Likmeta, l’Albania è un Paese arretrato (sebbene in espansione) per colpa del fascismo, non perché ha subito per oltre quarant’anni un regime che ha letteralmente chiuso a chiave la popolazione.
Al comunismo albanese l’autrice dedica giusto qualche riflessione verso la fine del libro, in relazione alla storia della sua famiglia paterna, altolocata prima e durante l’occupazione italiana e decaduta sotto il regime di Hoxa.
Nessuno, va da sé, vuole comparare due sistemi comunque liberticidi. Ma un dettaglio della storia familiare di Likmeta parla sin troppo chiaro: la scrittrice, infatti, è pronipote del grande artista Ibrahim Kodra, che si formò nell’Italia del ventennio grazie anche ai sussidi del regime. Ma per l’autrice le borse di studio italiane erano solo parte di un «grande piano di ammutolimento che l’Italia fascista attuava sull’Albania».
Siamo davvero sicuri che la cooptazione culturale, attuata da tutti i sistemi imperiali, abbia come unico scopo l’annullamento altrui? Siamo sicuri che l’assimilazione intellettuale sia davvero peggio dei bavagli imposti da regimi più duraturi e pesanti del fascismo italiano?

Purtroppo le perle non finiscono qui. Val la pena di citarne altre due. La prima riguarda i presunti sensi di colpa d’Oltralpe: «La Francia, con Macron, ha riconosciuto le ferite aperte in Algeria, ha ammesso gli orrori della guerra, ha pronunciato parole che per decenni sono state inghiottite dal silenzio».
Di sicuro Likmeta si riferisce al Macron del 2022, che tentava di riaprire il dialogo con l’Algeria, non a quello del 2025, che ha ripreso a polemizzare alla grande con le autorità del Paese nordafricano.
Né risulta che Macron abbia fatto qualcosa per abrogare la legge 158 del 2005, che obbliga all’elogio del colonialismo francese (articolo 4: «I programmi scolastici riconoscono in particolare il ruolo positivo della presenza francese oltremare, soprattutto in Africa del Nord»). E si parla di un Paese che ha mollato tardi e male il proprio impero coloniale, gestito con un pugno molto più duro rispetto a quello che la scrittrice italo-albanese attribuisce all’Italia nei confronti del suo Paese d’origine.
La seconda perla riguarda il paragone tra la strage del Venerdì Santo (cioè la collisione tra la nave militare italiana Sibilla e la Katër i Radës, una carretta del mare albanese piena zeppa di migranti, avvenuta il 20 marzo ’97) con la vicenda, più recente di Open Arms. Su questi due casi la magistratura si è pronunciata con una certa serietà, che lascia poco spazio a moralismi. In entrambe le vicende, emerge la difficoltà di un Paese che non riusce a gestire i flussi migratori, allora per impreparazione oggi per la loro quantità comunque eccessiva. Tolto questo, ogni confronto tra una grande tragedia del mare e una controversia marittima finita (male) in Tribunale è solo retorica.

Ma tant’è: è quello che avviene quando si tenta di romanzare la storia e ridurne le complessità al minimo per far passare a tutti i costi un solo messaggio: il proprio. C’è sempre una certa prepotenza dietro il moralismo.
L’aquila senza piume
L’aquila nera ha, essenzialmente, un problema: è un libro scritto per cogliere l’ottantesimo anniversario dalla sconfitta militare dei fascismi e, visto che ci siamo, per compiacere il trend antifa tornato di gran voga in certa editoria pop grazie a certi editor, allergici alle complessità del reale e sensibili solo alle mode (più stupide sono e meglio è).
È un meccanismo che denuncia l’ulteriore declino culturale italiano ed è capace di stritolare chiunque. Anche persone piene di talento come Anita Likmeta. Le tragedie e le ferite della storia richiedono molto più che un racconto fazioso.
Lo richiedono soprattutto le vicende albanesi, perché, come recita un vecchio proverbio, i Balcani non sono uno scherzo.
22,959 total views, 120 views today
Comments