Alcune considerazioni su “E allora le foibe”?
Lo storico Eric Gobetti torna a occuparsi dell’ex confine orientale italiano giusto in tempo per sollevare polemiche in occasione del Giorno del ricordo. Ma lo fa con un pamphlet fazioso, che non aggiunge nulla di nuovo alla vecchia propaganda filo titina, formalmente antifascista ma sostanzialmente antitaliana…
Nota del direttore: A scanso di equivoci, riteniamo doverosa la solidarietà allo storico Eric Gobetti per le minacce e gli insulti che ha ricevuto di recente attraverso i social media. Sappiamo benissimo che gli storici contemporaneisti come Gobetti sono esposti ad attacchi di ogni genere perché, col loro lavoro, toccano comunque memorie vive e, spesso, gettano sale su ferite di cui invece si vorrebbe agevolare la cicatrizzazione.
Tuttavia, ciò non ci esime dal prendere una posizione forte nei confronti di “E allora le foibe?”, l’ultimo libro dedicato da Gobetti alla tragedia del confine orientale.
Riteniamo, infatti, che tra l’aggressione e la critica, tra le offese alla persona e la disapprovazione delle idee, tra l’insulto e la polemica ci sia una differenza abissale.
Criticare un libro, disapprovarne impostazione e contenuti e polemizzare è un diritto che esercitiamo in qualità di lettori, cioè di persone che hanno speso soldi e dedicato tempo alla lettura di un testo.
Nei confronti di Gobetti, ci impegniamo alla maggiore imparzialità possibile: la meritano i lettori, soprattutto quelli che la pensano diversamente da noi.
Tanto dovevamo a Gobetti, molto di più dobbiamo a voi che ci dedicate il vostro tempo, poco o molto non importa: lo apprezziamo comunque.
***
Diciamolo subito: Eric Gobetti ha tentato una provocazione, neppure tanto originale, e in parte gli è riuscita.
Già, se non fosse stato per la tempistica, cioè l’uscita in concomitanza col Giorno del ricordo, il suo recente E allora le foibe? (Laterza, Bari 2021) sarebbe passato tranquillamente inosservato, perché è un libro di basso profilo, piuttosto fazioso nell’impostazione e insufficiente a livello divulgativo.
Si badi bene: con queste considerazioni non vogliamo partecipare alla polemica rituale che si scatena ogni 10 febbraio e ogni 25 aprile sui fatti della Resistenza, perché quando un libro vale poco non serve soffermarsi sui valori che lo hanno ispirato, che in parte sono anche i nostri.
Tuttavia, è inaccettabile che in nome di certi valori (la riconquista della libertà, la fine della guerra ecc.) si tenti, come fa Gobetti, di riportare il dibattito sul confine orientale indietro di più di vent’anni sulla base di semplificazioni che non reggono più.
Invece, tutto lascia pensare che lo storico torinese, di cui sono note le simpatie per l’ex regime jugoslavo, abbia tentato di cogliere le celebrazioni del sedicesimo Giorno del ricordo per ottenere una visibilità senz’altro maggiore di quella riservatagli dai circoli antifa e dai centri sociali più radicali.
Veniamo al libro, che a un primo sguardo risulta un bignamino sciatto di stereotipi veteroresistenziali (nel senso di vecchio modo di concepire la Resistenza e i suoi valori) e, non appena si approfondisce un po’, risulta piuttosto insidioso, come lo sono tutte le operazioni di propaganda.
Le insidie di E allora le foibe? emergono sin dal primo capitolo (Italiani) in cui Gobetti insiste sulla multietnicità degli ex territori italiani per negarne, in definitiva, l’italianità stessa. Un passaggio, al riguardo è significativo:
«Di solito, in linea con un modello propagandistico utilizzato durante il Ventennio fascista, l’appartenenza di questi territori all’Italia si fa risalire all’Impero romano e poi alla Repubblica di Venezia. Il perfetto sunto di tale origine sarebbe l’espressione “Venezia Giulia”, usata comunemente in Italia per identificare quest’area geografica. Anche questo è un termine di chiara matrice nazionalista. […] non c’è dubbio che questa regione sia stata parte, per alcuni secoli, dell’Impero romano e che, in seguito, nell’età medioevale e moderna, abbia subito una significativa influenza veneziana. Tuttavia identificare queste realtà statali come “italiane” è storicamente assurdo. Usando la stessa logica dovremmo pretendere la restituzione alla “madrepatria” di buona parte del bacino del Mediterraneo e dichiarare guerra a una quarantina di paesi sorti su territori storicamente sottoposti al dominio di Roma o di Venezia» [pag 15].
Abbiamo citato questo passaggio non a caso: Gobetti ha ripetuto queste chiacchiere da bar spacciate per analisi storica in varie interviste.
Ma se le chiacchiere sono fastidiose, il loro sottinteso è addirittura pericoloso. Infatti, l’autore riconosce correttamente il carattere in parte artificiale dell’idea di nazione («Le identità nazionali sono fenomeni complessi e mutevoli, che si basano su un insieme di elementi […] Possono però essere valutate diversamente, e così accade in quest’area di confine»), ma lo sminuisce e ne evidenzia solo gli aspetti divisivi e polemogeni:
«I leader politici sloveni e croati adottano un modello di identificazione nazionale basato su un’appartenenza etnica. Il nazionalismo italiano ha invece caratteristiche più culturali: si diventa italiani mediante assimilazione culturale e linguistica, secondo il modello già proprio della Serenissima» [ibidem].
Come a dire che dal concetto di nazione discende automaticamente il nazionalismo, mentre la multietnicità è un dato in sé positivo:
«In tutta quest’area […] hanno convissuto per secoli diverse appartenenze. […] Un fenomeno che ha cominciato ad evolversi e poi a trasformarsi violentemente con l’avvento dei nazionalismi nell’Ottocento e i ripetuti mutamenti di confine nel Novecento» [ibidem].
Forse Gobetti non se n’è accorto (oppure ha agito in malafede), ma il paragone tra gli etnonazionalismi slavi e il patriottismo italiano di sicuro non va a svantaggio dell’Italia: certo, l’assimilazionismo forzato non è una bella pratica, ma di sicuro è preferibile alla pulizia etnica, di cui certi nazionalismi hanno dato prova recente in quelle stesse zone.
Ancora: Gobetti parla correttamente di «nazionalismi». Ma non sarebbe il caso di dire che questi fenomeni esplosero in simultanea in tutta Europa, tant’è che non pochi storici parlano di età dei Risorgimenti?
A voler trarre conclusioni coerenti alle premesse del ragionamento dello storico torinese, si dovrebbe dire che il nazionalismo italiano non fu una creatura fascista, ma che il fascismo lo ereditò dalla cultura risorgimentale, la quale fu senz’altro più sviluppata e complessa dei patriottismi slavi.
È il caso di scendere più nel dettaglio: tolti i serbi, che avevano già una propria matrice culturale forte e una propria produzione letteraria, le altre popolazioni balcaniche (slave e non) iniziarono a elaborare le proprie grammatiche e a produrre una letteratura autoctona a partire da metà Ottocento. Detto altrimenti, non avevano altri retroterra se non il dato etnico che, a differenza del patriottismo culturale, è decisamente Blut und Boden e più prossimo a derive aberranti. Non è un caso, allora, che tra le matrici dell’irredentismo jugoslavo a trazione serba vi fosse il panslavismo. Mentre, al contrario, la deriva totalitaria e fascista non era una conseguenza necessaria del patriottismo italiano, il cui assimilazionismo aveva comunque aspetti inclusivi.
Gobetti, invece, va giù come un treno e getta la croce su una parte sola, cioè l’Italia:
«La svolta decisiva si verifica con il passaggio di questi territori all’Italia nel 1918. Per la prima volta uno Stato-Nazione (e di lì a poco anche fascista e totalitario) impone il suo controllo su quest’area. E lo fa con violenza, negando le differenze, imponendo un’unica appartenenza nazionale, obbligando l’intera popolazione a italianizzarsi» [ibidem].
Traduciamo a beneficio dei lettori: l’Italia, fascista e non, si impose violentemente sugli slavi perché il suo nazionalismo le ispirava questo. Corollario: ciò che sarebbe avvenuto dopo, cioè dal ’45 in avanti, altro non sarebbe che la reazione di quelle popolazioni, tormentate oltremisura dagli italiani, fascisti e non.
La solita solfa di certa ultrasinistra, formalmente antifascista ma sostanzialmente antitaliana. Intendiamoci: lo spirito critico nell’osservare le proprie cose non è mai troppo, ma da qui a finire nel masochismo ne corre.
I parametri di E allora le foibe? sono questi e tutto il resto, per Gobetti, è conseguenza.
È conseguenza ciò che si dice nel secondo capitolo (Improvvisamente pp. 22-26), in cui l’autore tenta di scaricare le responsabilità delle foibe sull’Italia, fascista e non.
Secondo Gobetti, i titini avrebbero agito in ritorsione ai cattivi comportamenti italiani, in tempo di pace (l’assimilazione forzata) e in tempo di guerra (i rastrellamenti e le rappresaglie sui civili dell’Esercito).
Al riguardo c’è persino troppo da dire. Innanzitutto, sull’italianizzazione forzata in tempo di pace: l’Italia fascista non fece nulla di più e nulla di meno di quel che facevano gli altri Paesi occidentali non fascisti nei riguardi delle proprie minoranze. In questi casi, si citano le politiche assimilazioniste della Francia nei confronti delle minoranze italiane in Corsica, in Savoia e nel Nizzardo, dove l’italiano è andato pressoché in disuso. O le politiche della Spagna prefranchista nei confronti dei baschi. O, infine, quelle britanniche nei riguardi dell’Irlanda. Così facevan tutti o quasi.
Più delicato il discorso sui comportamenti del Regio Esercito durante la guerra: le rappresaglie e le ritorsioni anche sui civili non furono un’esclusiva nostra o, più in generale, dell’Asse. In merito si può affermare che il comportamento dei militari italiani fu senz’altro abnorme nel teatro balcanico rispetto agli standard abituali (più di 8mila morti durante il periodo di occupazione), tuttavia rimase ben al di sotto dei livelli raggiunti dalle altre parti, cobelligeranti e avversarie.
È il caso di chiarire un altro punto: la famigerata Circolare 3C emanata dal generale Mario Roatta e citata da Gobetti come prova della pretesa crudeltà fascista. Visto che non è materiale inedito o segreto, lo storico avrebbe dovuto dire di che documento si tratta. Lo facciamo noi al posto suo: conteneva le direttive a cui i militari italiani impegnati nella Balcania si sarebbero dovuti attenere.
Queste direttive non erano fondate sul nulla (o peggio, su una pretesa volontà di sterminio) ma sulle regole del Diritto internazionale bellico. Incluse alcune pratiche senz’altro odiose, ma utilizzate da tutti, come le cosiddette rappresaglie, ovvero la fucilazione di un numero di prigionieri avversari per ogni militare ucciso dai partigiani. Gli italiani si attennero alla regola del 10 per 1. Un comportamento piuttosto pesante, se comparato a quello tenuto dalle truppe alleate in Italia (5 per 1). Ma piuttosto leggero rispetto a quanto fatto dai Tedeschi nel teatro balcanico (50 per un soldato ferito e 100 per uno ucciso) o dagli statunitensi in quello tedesco (200 per 1, per fortuna mai applicata).
Per quanto riprovevole, questa prassi aveva un valore solo nel teatro bellico. Tale non era più la cosiddetta Zona B dal ’45 in avanti e, soprattutto, il territorio triestino durante l’occupazione jugoslava.
Al netto di queste considerazioni, rivolgiamo una domanda a Gobetti: quale alto ufficiale compirebbe crimini attraverso un atto pubblico, quale appunto una circolare?
Il paragone tra il comportamento italiano e quello jugoslavo non regge: una cosa è avere le mani pesanti in una guerra asimmetrica e sporca, un’altra è incrudelire su popolazioni inermi e militari disarmati al di fuori di un teatro bellico. Questo se si vuole proprio parlare di crimini a livello morale oltreché giuridico.
Tuttavia, i veri conti in tasca vanno fatti a Gobetti non nella sua qualità di scrittore filojugoslavo ma di storico: non citare un solo passaggio di storia militare e non fare un solo riferimento al diritto bellico quando si parla di guerra è sintomo di ignoranza (ma nel suo caso ci rifiutiamo di crederlo) o di malafede.
Su due cose Gobetti ha invece ragione.
La prima: il paragone tra le foibe e la Shoah è davvero infondato. Certo, i titini, checché ne pensino gli jugoslavisti fuori tempo massimo, pianificarono le repressioni, che condussero in maniera massiccia più tra le popolazioni slave che nei confronti degli italiani. Ma da ciò a parlare di genocidio ne corre, perché il criterio che orientò queste repressioni fu essenzialmente politico.
La seconda: purtroppo il Giorno del ricordo è diventato una festa fascista, utilizzata dai gruppi della destra radicale per polemizzare con le celebrazioni della Resistenza. Ma questo non è un problema di certa destra, bensì della miopia di certa sinistra che continua a insistere sulla celebrazione acritica delle memorie resistenziali.
E c’è da dire che Gobetti si identifica sin troppo con questa visione acritica: cita come prova della mancanza di volontà antitaliana del movimento titino la formazione di bande partigiane italiane in Montenegro e la collaborazione tra settori della resistenza italiana con quella jugoslava. Ovviamente, l’autore si guarda sin troppo dallo spiegare come e quanto questo rapporto fosse mediato dal Comintern e, soprattutto, in che misura fosse funzionale alle mire geopolitiche di Stalin e Tito: nel caso specifico, forzare il più possibile gli equilibri stabiliti a Yalta.
Per molti di quei partigiani si può dire quel che si disse a lungo di Togliatti: furono prima comunisti e poi italiani. Ed è appena superfluo citare la tragedia di Porzus, che resta la prova provata delle intenzioni di quella parte del movimento resistenziale…
Per concludere, non può mancare un accenno all’esodo. In maniera corretta Gobetti attribuisce una parte della fuga degli italiani (ma tace sulla percentuale di croati e sloveni italofoni e filo italiani che li seguirono) al mutato clima politico e alle condizioni economiche più difficili: vivere in un sistema stalinista non era comunque il massimo per nessuno. Ma da qui a diluire il processo di sradicamento ne corre: le pressioni dirette sugli italiani ci furono e furono tantissime. Soprattutto, furono superiori a quelle di cui fu accusata l’Italia nei confronti degli slavi.
Se non fosse stato pubblicato da un editore prestigioso come Laterza, E allora le foibe? sarebbe l’ennesimo testo propagandistico rivolto alla nicchia che si identifica in certi ambienti antifa.
Tuttavia, il battage mediatico che ha preceduto e accompagnato il libro è un sintomo preoccupante. Innanzitutto, della scarsa salute di parte della storiografia, accademica e non, più propensa a dare letture ideologiche (tra l’altro vecchie) che a far ricerca e divulgazione serie. In seconda battuta, è il sintomo dell’ultrattività di certe nicchie di certa sinistra, Anpi in testa, che continuano a inquinare l’opinione pubblica con le proprie visioni faziose pur di godere ancora di rendite di posizione. Infine, è il sintomo dell’abbassamento del livello culturale delle nuove generazioni che tentano l’impegno militante.
Non resta che sperare in ricerche e libri più seri. E chissà che non se ne faccia carico proprio Laterza…
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