Rinascita Scott, un paragone a distanza tra De Magistris e Gratteri
Con la sua maxi operazione il procuratore di Catanzaro mette nel tritacarne la ‘ndrangheta vibonese e tira un colpo pesante a una fetta del mondo politico. Ma tra le pieghe dell’inchiesta, come ha ricordato con amarezza il sindaco di Napoli, riaffiorano ferite mai cauterizzate della storia recente della Calabria…
Non è il caso di approfondire oltre Rinascita Scott, la maxi inchiesta con cui Nicola Gratteri ha messo a soqquadro la ’ndrangheta vibonese e fatto i conti in tasca a un bel po’ di Calabria che conta (o meglio, contava).
Sui dettagli del mega blitz, che coi suoi 416 indagati e 334 arresti è il più grande della storia calabrese, si sta esercitando in questi giorni più o meno tutta la stampa regionale e buona parte di quella nazionale. Non potrebbe essere altrimenti, visto che nelle 1.260 e rotte pagine dell’ordinanza c’è di che sfamare intere redazioni per mesi.
Ci sono, per cominciare, i classici delle storie di mafia: le estorsioni, i delitti e i regolamenti di conti.
C’è, inoltre, il racconto del condizionamento totalitario esercitato dalle ’ndrine su un intero territorio, il Vibonese, che spiega una volta di più il paradosso per cui ai più forti attrattori turistici della Calabria (Tropea e Pizzo) corrisponde la provincia più arretrata d’Italia e, probabilmente, d’Europa (Vibo Valentia).
Non mancano, ancora, le prurigini in nero: su tutte, l’ammazzatina di Filippo Giancitano, il feroce killer soppresso dai suoi compari perché ricchiuni (e ci scusiamo per l’espressione con i gay). Giusto per ribadire che gli ’ndranghetisti restano omofobi anche nella Calabria che da qualche anno ha iniziato a celebrare i gay pride.
Ma il più dell’inchiesta è costituito dalla riproposizione, l’ennesima, dei rapporti tra ’ndrine e consorterie di potere politico ed economico, mediati dalla consueta massoneria deviata.
Una storia degna dei migliori Leonardo Sciascia o, per restare in regione, Sharo Gambino, in cui l’intreccio complesso rende credibili le teorie del complotto che puntellano qui e lì la trama. Ma soprattutto una storia vecchia, che Gratteri aveva iniziato a raccontare dai primi anni ’90, quando era ancora un giovane sostituto procuratore a Locri, a fianco di Agostino Cordova.
Se Rinascita Scott andasse a buon fine e reggesse la prova del dibattimento – magari anche grazie al ricorso massiccio agli incidenti probatori nei quali il superprocuratore è abilissimo – per la prima volta sarebbe pienamente dimostrata nelle carte giudiziarie l’esistenza di quel grumo massomafioso al quale si attribuiscono più o meno tutte le nequizie della Calabria contemporanea.
In altre parole, Gratteri riuscirebbe laddove Cordova e Luigi de Magistris hanno fallito. E, a proposito di fallimenti illustri, non può proprio passare in secondo piano la dichiarazione dura rilasciata dal sindaco di Napoli a poche ore dal maxiblitz:
«Oggi leggo, a distanza di oltre dieci anni, che l’Avvocato Pittelli è stato tratto in arresto per associazione mafiosa e Nicola Adamo è destinatario della misura cautelare del divieto di dimora. Avevamo scoperto un sistema criminale devastante e siamo stati fermati da quelli che ci dovevano coprire le spalle. La magistratura negli anni ha accertato la correttezza del mio operato ed ha verificato le attività illecite commesse ai danni miei e dei miei più stretti collaboratori. Nessuno mai ci restituirà quello che ci è stato scippato. Oggi, però, è un giorno buono. Lo dedico a quelli che con me non mollarono mai pur pagando un prezzo professionale ed umano devastante».
Il riferimento, chiarissimo, va alle inchieste Poseidone e Why Not, in cui l’allora sostituto procuratore di Catanzaro indagò Giancarlo Pittelli e Nicola Adamo, messi oggi sotto accusa da Gratteri.
Erano due inchieste pesantissime, in cui le coppole c’entravano poco ma che promettevano di scoperchiare la Calabria, che proprio allora, complice una copertura mediatica inedita, balzava agli onori della cronaca nazionale.
Già, ha commentato con amarezza e ironia de Magistris: «Ero incompatibile con un ambiente mafioso che invece si è lasciato operare per dieci anni. Una vergogna di Stato con mandanti ed esecutori ai vertici delle istituzioni».
Di più: «Le indagini mi sono state sottratte da magistrati ed il Consiglio Superiore della Magistratura invece di tutelare chi indagava su corruzioni e criminalità organizzata, mi tolse le funzioni di pubblico ministero e mi trasferì per incompatibilità ambientale, con un procedimento disciplinare rapidissimo e surreale».
Visto che de Magistris, da buon napoletano, lascia intendere più di quel che non dica, è opportuno un ripasso rapido della sua vicenda: in seguito al collasso di Poseidone e Why Not, de Magistris finì sotto inchiesta a Salerno (competente per la Calabria) per le stesse ipotesi in base alle quali era stato silurato dal Csm. Né uscì prosciolto con una formula più che piena e che non lasciava adito a dubbi sulla correttezza giudiziaria (e non solo sotto il profilo penale) del suo operato.
Questo paradosso passò in secondo piano, anche perché ormai de Magistris era diventato europarlamentare a furor di popolo e si apprestava a diventare, con altrettanto furore, re di Napoli.
Magari non è opportuno rivangare vecchie polemiche, ma alcune domande sono doverose: Pittelli, di cui sono emersi in quest’inchiesta la militanza massonica (nel Goi, per la precisione) e i legami con ambienti massonici deviati, era colpevole anche allora? Adamo, la cui carriera politica iniziò a franare da allora, era colpevole già dodici anni fa?
Perché le inchieste di de Magistris hanno subito una sorte diversa rispetto a quella di Gratteri? Ci si riferisce, va da sé, all’aspetto politico-affaristico, perché mettere in gattabuia i mafiosi e buttare le chiavi è diventato facile anche da noi.
Con un po’ di cinismo, si potrebbe parlare di tempi che maturano: allora Pittelli era un big di Forza Italia, parlamentare con ruoli importanti a livello nazionale; allora Adamo era vicepresidente della Regione Calabria e segretario regionale dei Ds che stavano per diventare Pd.
Oggi Pittelli non ha più ruoli politici. Stesso discorso per Adamo, che si è limitato a una presenza discreta dietro le quinte dell’amministrazione Oliverio ed è menzionato da molti cronisti come marito della deputata Enza Bruno Bossio.
Potremmo continuare sulla stessa falsariga con Luigi Incarnato, allora assessore regionale e ora commissario della Sorical, a carico del quale c’è un’ipotesi di corruzione elettorale. Non si può dire lo stesso, stando alle carte, di Pietro Giamborino, che sembra più potente adesso nel ruolo di lobbysta ipertasversale tra schieramenti legali e criminali di allora, quando era semplice consigliere regionale (e neppure indagato…).
Tutto questo per dire che i paragoni sono sempre brutti ma insegnano comunque qualcosa: nel frattempo, a furia di incriminare e di far condannare scannapopoli, Gratteri è meritatamente cresciuto fino a diventare procuratore capo e superbig della Dda. Soprattutto, è riuscito a costruirsi un’immagine pubblica forte, grazie ai libri scritti assieme al mafiologo Antonio Nicaso e al suo modo di comunicare semplice ed efficacissimo.
Ciò spiega in parte il perché di tanto successo giudiziario. E fa capire perché far pulizia in una terra difficile come la Calabria sia così difficile: non è una questione di giustizia ma di potere. Un procuratore capo, che assomma due importanti funzioni inquirenti (quella antimafia e quella ordinaria), può fare cose che un semplice sostituto non può (o non poteva): mettere sotto processo i big e i mafiosi un tanto al chilo.
Ma si parla sempre di big non più tali o non ancora tali, come Gianluca Callipo, il sindaco di Pizzo, anche lui finito nel tritacarne giudiziario e quindi mediatico.
Il quadro spennellato a tinte fosche dall’inchiesta di Gratteri, nel quale i notabili sono immortalati a braccetto con delinquenti di tre cotte, sconsiglierebbe il garantismo a oltranza. Ma sconsiglia anche lo spirito da tifoseria con cui varie testate hanno celebrato l’inchiesta. E non solo perché non si dovrebbe augurare a nessuno la galera. Ma soprattutto perché noi giornalisti non abbiamo il diritto e il potere (ma, soprattutto, non abbiamo le capacità e le competenze) di comminare sentenze di condanna al posto dei giudici o di mandare a processo il prossimo al posto degli inquirenti.
Infatti, se la maxi inchiesta di Gratteri non dovesse reggere il dibattimento nella sua parte politica, non si potrebbe dar torto a chi ha criticato il procuratore di Catanzaro per aver inquisito politici che non contano più sulla base di ipotesi labili (come nel caso di Incarnato) o generiche (quelle di Adamo). E andiamoci piano anche sulla massoneria deviata, visto che, salvo altre sorprese, al riguardo finora ci sono soprattutto indizi ricavati dalle dichiarazioni dei pentiti.
Non vogliamo essere disfattisti, perché la Calabria più che di pulizia ha bisogno di verità e forse questa inchiesta può davvero fornirne una.
Ma occorre ricordare che nulla nuoce di più alle inchieste giudiziarie della ipermediatizzazione: capitò questo a de Magistris, che venne eretto al rango di eroe popolare da sciami di cronisti, rischia di accadere la stessa cosa a Gratteri, che lamenta l’indifferenza delle testate nazionali dopo essere diventato comunque l’idolo di molta editoria mainstream che lo ha addirittura sovraesposto.
Non siamo in curva sud mentre la squadra del cuore si gioca il campionato o la salvezza. Stavolta la posta in gioco è più delicata: è la verità e il futuro.
Quel che basta a consigliare un po’ di prudenza a tutti. O no?
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Caro Saverio, sento l’esigenza di esprimere il mio parere su Rinascita Scott, l’inchiesta condotta dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri che ha portato all’arresto di 334 persone e allo scompaginamento della mafia della zona di Vibo Valentia oltre che di una parte del mondo politico calabrese. Mi ha colpito molto il fatto che all’indomani dell’operazione i grandi giornali nazionali abbiano riportato la notizia nelle pagine interne. Mi sono chiesto per quale motivo sia stata fatta questa scelta ma non ho trovato una risposta convincente. L’unica cosa di cui sono sicuro è che la deontologia professionale avrebbe dovuto imporre ai maggiori giornalisti italiani di riportare la notizia con il risalto che meritava salvo poi fare tutte le critiche che si ritenevano necessarie. Ma mi ha colpito molto anche il fatto che nessuna forza politica abbia appoggiato l’iniziativa della magistratura e che, praticamente, a sostenerla siano rimasti solo Libera, l’associazione antimafia di don Ciotti, e i neoborbonici. Dopo aver letto cosa hanno scritto sull’argomento alcune persone qualificate come il sociologo Pino Arlacchi (sul Fatto Quotidiano), il giornalista Saverio Paletta (sul blog Indygesto) e Pino Aprile (sul suo blog) mi sono convinto che Nicola Gratteri ha fatto bene ad architettare la maxi-operazione. L’opinione delle persone che ho citato è che un’opera di pulizia andava fatta perché la ‘ndrangheta, in particolare quella vibonese, è un cancro che corrode la Calabria e che, a differenza della mafia siciliana, negli scorsi decenni ha subito pochi interventi repressivi. Mi sono convinto anche che i difetti che l’ex magistrato Armando Spataro (su La Repubblica) ha imputato a Gratteri (fare teatrali conferenze stampa, presentare sistematicamente le proprie indagini come fondamentali proponendosi come icone per le piazze plaudenti, fare affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm rappresentino la verità accertata, quasi un anticipo di sentenza) sono difetti seri, che andrebbero corretti. Ma ciò non toglie che la sua iniziativa sembra sacrosanta. In definitiva c’è da chiedersi: dove può andare la sinistra se non sostiene un’inchiesta come Rinascita Scott? Mi farebbe piacere se mi facessi sapere cosa ne pensi del mio commento. Ti saluto.