Strage di Strasburgo, parla il magistrato che arrestò i jihadisti in Italia
Stefano Dambruoso inquisì e fece condannare nel 2001 il tunisino Essid Sami Ben Khemais, che meditava già allora un attentato sanguinoso nella città simbolo dell’Europa unita. Secondo l’ex deputato «il comportamento di Chekatt era difficilmente prevedibile, perché i terroristi che praticano l’autoaddestramento si attivano all’improvviso». Tuttavia, «solo dalle indagini potremo apprendere se si poteva davvero fare qualcosa per fermarlo». In ogni caso, spiega il magistrato antiterrorismo, l’Ue deve investire molte risorse per il recupero dei soggetti a rischio radicalizzazione: «La sola repressione rischia di avere ripercussioni pericolose sul sistema dei diritti e risulterebbe comunque inefficace»
È emersa una vicenda italiana d’inizio millennio tra le pieghe del drammatico racconto dell’attentato di Strasburgo e della fuga rocambolesca di Cherif Chekatt, il killer ucciso dalla polizia dopo una caccia all’uomo durata 48 ore. Riguarda il jihadismo 1.0, all’epoca rappresentato da Al Quaeda, che meditava già di attaccare Strasburgo proprio a ridosso della tragedia alle Twin Towers. Questo primo tentativo fu sventato dalla Dda di Milano, in cui operava allora Stefano Dambruoso, magistrato già in prima fila presso le Procure di Agrigento e Palermo.
Dambruoso sostenne la pubblica accusa nei confronti del tunisino Essid Sami Ben Khemais, presunto capo della cellula quaedista milanese, che stava organizzando l’attentato nella città simbolo dell’Ue.
Non è, ovviamente, il solo merito di Dambruoso, che è stato uno dei primi magistrati italiani ad approfondire il terrorismo islamista e a studiare tecniche efficaci per il contrasto e la prevenzione di questa minaccia, al punto da essere menzionato dal Time come eroe moderno.
Infatti, Dambruoso ha travasato la sua corposa esperienza di magistrato antiterrorismo nell’Onu, in qualità di esperto giuridico, nel Ministero della Giustizia e infine nella Camera dei Deputati, di cui è stato questore nella precedente legislatura, dove ha lanciato un ddl contro la radicalizzazione, abortito a dicembre 2018 grazie a una di quelle sciatterie a cui ci ha abituati la classe politica italiana.
È il momento di tirare i fili del ragionamento: Chekatt, pregiudicato per reati comuni, era già considerato pericoloso dalla Polizia e dai Servizi di sicurezza francesi. Non a caso, i poliziotti lo avevano cercato nella sua abitazione la mattina dell’11 dicembre, poche ore prima dell’attentato. Non solo: Chekatt, secondo gli inquirenti, era considerato ad rischio di radicalizzazione, una malattia che avrebbe contratto nelle carceri di cui era un habitué.
Diventano inevitabili, al riguardo, alcuni interrogativi inquietanti: come mai Chekatt ha avuto tutto il tempo necessario per preparare l’attentato? Come mai, nonostante i continui controlli della Polizia, è riuscito comunque ad organizzarsi e attrezzarsi (come prova il rinvenimento di bombe a mano nella sua abitazione, tra l’altro occupata abusivamente)?
Dambruoso, sul punto è incisivo: «Questo tipo di attività, purtroppo, non è prevedibile, perché non è mai organizzato, nel senso che non è preceduto da un’attività di pianificazione. I soggetti come Chekatt, che di solito praticano l’autoaddestramento, possono attivarsi all’improvviso».
Ma la pericolosità di Chekatt era nota alle forze dell’ordine, che lo avevano classificato come fiche S…
Certo, e non a caso la Polizia lo aveva cercato e, come si suol dire, lo teneva d’occhio. Il punto, semmai è un altro: l’iniziativa di Chekatt poteva essere comunque prevenuta? Ci sono dei dettagli che le forze dell’ordine francesi non hanno colto o non sono riuscite a cogliere per tempo? Questo potremo saperlo da eventuali nuove indagini o da eventuali indizi che potrebbero emergere dall’inchiesta in corso.
La strage di Strasburgo solleva un’altra riflessione: rispetto all’asse occidentale e mitteleuropea dell’Ue, l’Italia è relativamente al sicuro. Senz’altro merito delle nostre forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza, che si sono rodati a lungo nel contrasto al terrorismo, politico e mafioso. Ma siamo davvero più bravi dei partner europei o c’è dell’altro?
In tutti i Paesi europei esistono professionalità di alto livello nel contrasto al terrorismo. Questo fenomeno in Italia è stato più intenso e duraturo che altrove. Ma ciò non toglie che anche i nostri partner non abbiano avuto i loro problemi: si pensi alla Francia, che dovette misurarsi con l’Oas, alla Germania, che è stata zona di frontiera con il blocco sovietico e fu il bersaglio delle attività terroristiche della Raf e di altri gruppi estremisti. O alla Spagna, costretta a misurarsi con l’Eta, che ha agito senza soluzione di continuità, sia durante il franchismo sia nella successiva democrazia. Tutti, purtroppo, abbiamo brutti precedenti che hanno stimolato un’attività specialistica importante nei Servizi di sicurezza e nelle forze dell’ordine. Semmai la marcia in più dell’Italia consiste nel Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, il quale è un tavolo di lavoro permanente che si riunisce ogni settimana e a cui partecipano i vertici delle forze dell’ordine e dei Servizi. Ciò consente un continuo scambio di informazioni, che è vitale nel contrasto al terrorismo. Per tornare a quanto dicevamo sopra, probabilmente in Francia è mancata questa comunicazione stretta e continua tra i corpi di sicurezza.
Chekatt, che secondo gli inquirenti francesi si sarebbe radicalizzato in carcere, è il classico esempio di delinquente comune convertitosi alla Jihad. Lei, durante la scorsa legislatura, aveva lanciato un ddl antiradicalizzazione poi naufragato nelle more delle elezioni. La strage di Strasburgo rilancia il problema anche in Italia: è possibile prevenire a monte questi processi?
Non è solo possibile, ma anche doveroso: la sola repressione innescherebbe una spirale non bella nelle nostre democrazie per due motivi almeno. Innanzitutto, sarebbe costosa e inefficace, perché può contenere il fenomeno ma non disinnescarlo, visto che la Jihad è un processo che si autoalimenta di continuo. In secondo luogo, le dinamiche repressive potrebbero avere ricadute pericolose nel sistema dei diritti, in particolare nelle libertà negative, che rischierebbero di subire serie compressioni. In Italia, purtroppo, una normativa del genere non esiste anche a causa delle vicende parlamentari a cui si è accennato. È possibile, comunque, ricavare spunti dagli altri partner europei, che queste normative le hanno. Dunque, i soggetti a rischio radicalizzazione non solo dovrebbero essere monitorati, ma anche affidati a team di specialisti (mediatori culturali e linguistici, psicologi, educatori ecc.), che li guidino in un percorso di reinserimento. A mio avviso, sarebbe anche importante avere il coraggio di dare lavoro agli ex detenuti per terrorismo. Penso che al riguardo l’Ue potrebbe intervenire con finanziamenti mirati, perché lo Stato non può limitarsi a mostrare solo la forza ma deve recuperare il più possibile i soggetti a rischio o devianti, se vuol essere fedele al suo ruolo e alla sua missione di Stato di diritto, senza il quale non esiste una democrazia degna di questo nome.
(a cura di Saverio Paletta)
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