Ecco perché il nuovo populismo è così scadente, la parola a Galli della Loggia
Ernesto Galli della Loggia riabilita il concetto politico trasformato in un dispregiativo dalle polemiche politiche: «Tutte le grandi forze politiche sono state populiste, soprattutto in Italia, perché si rivolgevano direttamente alle masse rurali, che incarnano il concetto classico di popolo». Oggi quel popolo non esiste più, al suo posto c’è un «amalgama indistinto» di persone escluse dal potere, pressate dai bisogni e mortificate dalle diseguaglianze che dilagano in tutta Europa.
In perfetta tempestività, mentre la protesta dei gilet gialli tracimava a Bruxelles, Ernesto Galli della Loggia è intervenuto sulle colonne del Corriere della Sera con uno dei suoi soliti, efficacissimi, editoriali, in cui ha parlato di Populismo senza qualità.
Nel suo articolo, lo storico romano lascia intravedere una distinzione tra un populismo forte e legittimo e uno, quello attuale, dai confini evanescenti e dalla narrazione politica approssimativa.
È necessario partire da un punto fermo: esiste – secondo un’opinione consolidata tra storici, sociologi e politologi – un concetto classico di popolo, che la modernizzazione informatica sta finendo di spazzar via. Questo concetto ha legittimato il populismo dei movimenti cattolico e socialista, del Pci sin dalla sua prima incarnazione gramsciana e del fascismo. Ben altra cosa sarebbe il populismo attuale, a cui non corrispondono élite degne di questo nome, in Italia come nel resto d’Europa.
È il caso di saperne di più su questa raffinata elaborazione.
Ma tant’è, spiega Galli Della Loggia: «È cambiato il concetto di popolo, che è il riferimento concreto di ogni populismo».
Qual era il concetto classico di popolo, che tra l’altro è naufragato anche a livello lessicale, visto che, da un certo momento in avanti, lo si è iniziato a sostituire con gente, persone, cittadini ecc.?
Questo concetto si riferiva, soprattutto in Italia, alle grandi masse rurali di cultura contadina. Era, per capirci, lo strato nazionalpopolare a cui prestò grande attenzione Antonio Gramsci, che dobbiamo distinguere dal Lumpenproletariat, con cui Marx ed Engels designavano i diseredati dei processi di urbanizzazione della rivoluzione industriale, strappati alle campagne dall’urbanizzazione ma esclusi dalle fabbriche. Era un’umanità rimasta a metà strada, che aveva abbandonato le aree rurali ma non era riuscita a inserirsi nelle dinamiche della modernità.
La situazione italiana, tuttavia, era diversa…
Certo: a cavallo tra XIX e XX secolo l’industrializzazione, che altrove era in fase avanzata, da noi era alle prime battute. Perciò l’Italia non aveva una classe operaia, almeno non in misura paragonabile agli altri Paesi europei ed occidentali. Logico, allora, che la riflessione politica degli ideologi e dei leader del movimento operaio si rivolgesse alle masse rurali che, sebbene legate a un mondo di valori premoderno (si pensi al Mezzogiorno d’inizio ’900), erano le uniche interlocutrici disponibili.
E ciò spiega anche perché tutti i processi di democratizzazione o comunque la politica di massa in Italia abbiano dovuto fare i conti col populismo, sebbene le leadership fossero tutte di alto livello intellettuale, come nel caso del Pci.
La politica del Pci ebbe una componente populista marcatissima, evidente soprattutto nei comportamenti politici locali, specie nelle periferie e al Sud.
Oggi invece la situazione è cambiata e il popolo, inteso in quest’accezione, non esiste più.
Già. Ne ha preso il posto un amalgama indefinito di appartenenti ai ceti medi, messi a rischio dalle dinamiche della modernizzazione informatica e dalle politiche liberiste. In pratica, sono gli esclusi dal potere e dal circuito alto della società. Oggi la differenza è tra chi appartiene ai circuiti del potere e della rappresentazione pubblica e chi, i più, ne è tagliato fuori. In parole più povere, il popolo della stretta contemporaneità è costituito della moltitudine di coloro che non hanno la possibilità di apparire in tv. Questa caratteristica, nella società odierna, è altrettanto dirimente delle vecchie divisioni in classi e dei dislivelli economici.
In che senso?
Per molti, soprattutto tra i più giovani, il desiderio di apparire è una sorta di soglia da raggiungere e da varcare, perché oltre c’è il potere, il mondo di quelli che contano. E questo spiega il perché il veicolo privilegiato dei populismi contemporanei sia la comunicazione attraverso i social media, che soddisfa la voglia di protagonismo per cui i media tradizionali sono diventati insufficienti.
Quindi il populismo si è adattato a questo nuovo popolo.
Sì.
Queste particolari dinamiche italiane, che secondo Steve Bannon hanno reso il nostro Paese un laboratorio politico, stanno contagiando l’Europa, come dimostra la rivolta dei gilet gialli in Francia, che mira a trasformarsi in movimento politico sulla base di rivendicazioni e programmi assai simili a quelli di M5S e Lega.
Esatto. Ciò avviene per due motivi. Il primo è dovuto alla composizione sociale, di cui abbiamo parlato già, che è uniforme in tutta Europa. Il secondo riguarda i motivi della protesta che legittima in nuovo populismo: le diseguaglianze economiche accresciute dalla crisi, hanno generato un comprensibile moto di rabbia verso i gruppi dirigenti europei e occidentali.
Il dato curioso è che questi nuovi populismi prendono parecchi spunti dalle destre radicali, di cui mettono in secondo piano gli aspetti più impresentabili (ad esempio, xenofobia, omofobia, razzismo e intolleranza).
Nel nuovo populismo ci sono molti elementi tipici delle destre radicali e sovraniste: l’esigenza di ordine e sicurezza, anche a discapito dei doveri di solidarietà, la sovranità monetaria, il protezionismo economico e industriale e la richiesta di fermare l’immigrazione. C’è però un aspetto propositivo che manca alle destre radicali. Non risulta, ad esempio, che Forza Nuova o altre sigle simili, abbiano mai lanciato campagne per tassare i grandi patrimoni, come invece hanno chiesto i gilet gialli.
Ma questi ultimi sono aspetti di sinistra, che pure sono presenti nel populismo.
E funzionano anche essi nella comunicazione di questi nuovi soggetti politici: si pensi all’appeal del reddito di cittadinanza.
Che tuttavia è sostanzialmente irrealizzabile.
Ma ciò non toglie che non sia attrattivo: secondo recenti statistiche, circa sei milioni di italiani hanno gravi problemi economici. Chi si trova in queste situazioni pesanti dà senz’altro il proprio consenso a queste proposte, senza chiedersi se e quanto siano razionali e realizzabili. La politica ha sempre degli aspetti irrazionali, anche nei momenti di benessere diffuso. Figurarsi se non li ha nelle fasi più difficili, in cui ragionare e pretendere che si ragioni diventa arduo.
A proposito di ragionamento, politica e cultura (non solo) politica, non si può non notare una curiosa contraddizione: secondo alcune statistiche il Movimento 5 Stelle sarebbe la forza politica con il più alto numero di laureati, sia nella base sia tra i rappresentanti. Eppure gli svarioni diffusi tra i grillini denunciano un livello culturale sostanzialmente più basso.
Allora, è vero che il livello della classe politica è sceso in maniera paurosa. Ma nel caso del Movimento 5 Stelle e di altre forze politiche nuove, non abbiamo a che fare solo con un problema politico, ma con un problema della scuola e dell’università italiana. Non credo che occorra aggiungere altro.
Il populismo sembra un fiume in piena che rischia di travolgere l’Unione Europea. Possibile che le forze politiche tradizionali, soprattutto in Italia, non abbiano capito per tempo quel che stava per accadere?
Nel caso italiano dobbiamo distinguere tra il Pd, che paga la perdita di contatto con la realtà, che invece i partiti e i movimenti di cui ha raccolto l’eredità avevano, grazie a una presenza capillare e strutturata nei vari territori. Per il centrodestra, il discorso è diverso: Berlusconi, che aveva impersonato l’area moderata italiana con una leadership pronunciata, non si è dimostrato all’altezza e gli elettori lo hanno abbandonato. È il primo a pagare la trasformazione del consenso politico, che oggi è volatile e mobile. Questa volatilità riguarda tutti: anche il Movimento 5 Stelle, se disattendesse le sue promesse o non fosse in grado di mantenerle, perderebbe metà degli elettori.
Quest’ultimo è un rischio non improbabile: secondo i sondaggisti più accreditati, i grillini perdono progressivamente consensi a favore della Lega.
La Lega è comunque un partito tradizionale con un certo radicamento, a differenza del M5S. Ma oltre al dato strutturale pesano anche le qualità personali: Salvini è dotato di carisma ed è percepito come leader. Di Maio è più modesto politicamente e non la lo stesso carisma del suo alleato di governo. Il paragone tra i due è impietoso e tutto sbilanciato a favore del segretario della Lega. I sondaggisti registrano l’esistente.
Nella leadership il carisma è tutto e pesa più che in passato, tant’è che oggi si parla di capocrazia.
Bisogna distinguere: la politica, in senso lato, è sempre stata capocratica: Togliatti era il Pci, Mussolini era il fascismo, De Gasperi era la Dc, Nenni, prima, e Craxi, poi, erano il Psi. In questo senso, il termine non dice nulla di nuovo. Al più, può indicare il modo diverso in cui oggi la leadership si declina. Nei partiti tradizionali, la leadership era mediata dall’ideologia e dalle strutture molto ramificate dei partiti. Oggi, oltre il leader non c’è nulla. E quest’aspetto plebiscitario per cui il capo mira a dialogare con la base senza diaframmi di sorta, è un altro elemento del populismo contemporaneo.
Ma c’è qualche possibilità di frenare queste derive? I partiti tradizionali, socialdemocratici e liberali, possono correre ai ripari e invertire la tendenza?
Gli storici non possono predire il futuro. Sarebbe già tanto se la politica sconfitta o minacciata dai populismi si rendesse conto dei propri errori e delle proprie leggerezze e iniziasse a lavorare su sé stessa.
(a cura di Saverio Paletta)
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