Termina Why Not, la maxinchiesta di de Magistris
Antonio Saladino, l’imputato eccellente dell’ex sostituto procuratore di Catanzaro, esce dal processo per prescrizione. Una retrospettiva sull’indagine che scosse la Calabria, fece tremare l’Italia e lanciò il magistrato nell’Olimpo della politica
Virtuosismo degli avvocati? Forse. Ma dieci anni di procedimento giudiziario sarebbero troppi anche per un capomafia sanguinario.
E tutto si può dire del mite Antonio Saladino, tranne che sia un killer. La prescrizione, con cui termina il processo a carico dell’ex presidente della Compagnia delle Opere calabrese, mette la parola fine a Why Not, la seconda inchiesta monstre avviata nel 2007 dall’ex sostituto procuratore della repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris.
«La fine di un’odissea», ha dichiarato Saladino. E, per solidarietà e garantismo, si deve riconoscere che dieci anni, dall’avviso di garanzia al lieto fine, sono un calvario.
Ma si deve riconoscere pure che i titoli di coda li ha apposti la prescrizione dell’accusa di associazione a delinquere, non una sentenza di assoluzione. E la mancanza di questa sentenza lascia aperta la questione della verità storica. Quella verità che, diceva André Gide, va oltre gli atti di un giudice istruttore.
Quindi, cosa resta a dieci anni di distanza dallo scandalo calabrese che accese i riflettori di tutta l’Europa sulla Calabria? Niente? Solo carriere, soprattutto politiche, distrutte? È stato tutto un colossale nulla di fatto costato nove milioni di risorse pubbliche? L’immagine della Calabria, dipinta da allora a tinte fosche come patria della corruzione, è stata redenta? Lo stesso Saladino è stato riabilitato in via definitiva e, con lui, è stata riabilitata la sua Compagnia?
In mancanza di una parola definitiva sul piano della sostanza, nessuno impedirà che certi materiali giudiziari, su cui si è basata a lungo l’accusa nei confronti di quella fetta di classe dirigente calabrese finita nel mirino dell’ex magistrato, riemergano in altre narrazioni, a partire da quella giornalistica.
Attraverso l’inchiesta Why Not si cercò di far luce sull’uso dei fondi europei in Calabria e si provò a scavare in alcuni settori piuttosto delicati che avrebbero dovuto far da volano all’economia della regione più sottosviluppata dell’Occidente: il lavoro interinale e l’informatica.
Quest’inchiesta qualche presupposto, a dirla tutta, lo ha avuto, perché comunque i rinvii a giudizio ci sono stati. Perché comunque, altri tronconi delle indagini hanno dato il via a procedimenti culminati in condanne (è il caso di Tesi). Perché comunque non avremo mai una risposta definitiva ad una domanda non irrilevante: Perché quei soldi non si sono trasformati in sviluppo ma avrebbero alimentato un giro di potere?
È la classica storia all’italiana: ci sono i danni (il mancato sviluppo del territorio a dispetto dei fondi impiegati), ci sono state le ipotesi di reato, sfociate in numerose accuse ritenute credibili anche nel momento in cui de Magistris non era più a Catanzaro, ma nessun colpevole. Ovviamente c’è da gioire per gli accusati prosciolti e prescritti.
Però non si può neppure dire che l’inchiesta sia stata tutta una bufala. A rileggerlo ora, a dieci anni di distanza dall’orribile 2007 in cui la gente scendeva in piazza per solidarizzare col magistrato di Catanzaro, Why Not appare un brogliaccio assemblato non troppo bene e pieno di incongruenze. È giusta anche l’altra critica, che fa leva sull’uso eccessivo di intercettazioni telefoniche e sull’uso tutt’altro che preciso dei tabulati. Ma l’indagine, iniziata da de Magistris e poi passata di mano in mano, fu pionieristica nel Sud profondo.
Fu la prima volta che si usò la tecnologia per scavare nelle vite dei potenti calabresi e non solo. Fu la prima volta che il potere fu messo alla berlina in una terra in cui il potere è tutto. Fu la prima volta che qualcuno, al di fuori dalle tradizionali sedi politiche, disse a tutto il mondo: la Calabria è così non solo per la ’ndrangheta, ma per colpe ben precise della classe dirigente.
Da allora le telecamere che contano non hanno smesso di puntare il Sud estremo.
Da allora la Calabria non è più una terra sconosciuta e remota, perché la sua informazione – giovane, gracile e con pochissime tradizioni – è stata costretta ad adeguarsi a standard critici di respiro più ampio nei confronti del potere, incluso quello giudiziario.
Why Not colse impreparati tutti, soprattutto i cronisti giudiziari, abituati ai semplicistici standard da western delle storie di mafia: di là i cattivi, qui i buoni. Quella di de Magistris, invece, è stata una narrazione in stile Sciascia 2.0: il grande complotto, con tanto di pupari inquietanti, tra cui gli immancabili grembiuli, militanti in logge non precisate (tra l’altro, non è stata provata neppure l’esistenza della cosiddetta loggia di San Marino, emersa in una fase delicata dell’inchiesta).
Con Why Not per la prima volta le frustrazioni dell’immaginario collettivo dei calabresi finirono negli atti giudiziari: i politici, riveriti in pubblico e vituperati in privato, non erano più intoccabili.
La rovina di quest’inchiesta fu la sua novità, che le creò attorno un cortocircuito quale non si era mai visto: la Calabria era stata appena lambita da Tangentopoli e le gesta del magistrato incisero in un’opinione pubblica vergine.
La stampa, abituata ad ipotizzare più che a certificare, alimentò il clima da stadio (il potente alla berlina, allora riverito in pubblico e vituperato in privato, valeva due gol in un derby per creare audience).
E non si scordiche all’avocazione seguì un secondo percorso giudiziario ancora più tortuoso: la guerra tra le Procure di Salerno e Catanzaro, terminata in un pari (cioè nel proscioglimento di tutti) tra de Magistris e i suoi accusatori, poi finiti sul banco degli indagati.
Il teorema dell’ex pm è rimasto tale. Ma Saladino avrebbe potuto evitare il commento sull’impegno politico di de Magistris con cui ha chiosato la fine del suo incubo, visto che, è opportuno ripeterlo, Why Not non è terminata con l’avocazione ma con la prescrizione di un processo condotto da altri sulla base di molte delle accuse ipotizzate dall’ex magistrato.
«Posso dire che è giusto che un magistrato si interessi alla politica, ma quando la politica si fa partitica, allora non ci si scontra più con il magistrato ma con il partito a cui appartiene. Se la politica è uguale per tutti, deve esserlo anche per i magistrati. Non mi riferisco solo a De Magistris. Penso anche a quei magistrati che avevano seri dubbi su questa vicenda e che non hanno corretto il tiro perché quando si iniziano a spendere milioni di euro su una vicenda, poi se c’è l’assoluzione, bisogna pagare i danni».
A quale politica si riferisce Saladino? Per caso a quegli stessi partiti del centrosinistra finiti con lui nel tritacarne e che hanno portato de Magistris prima a Strasburgo e poi sul trono di Napoli? Il problema è che mancano le prove del sottinteso dell’ex indagato eccellente: cioè che l’ex pm abbia fatto tanta mmuina per spianarsi la strada della politica. Se Saladino le ha, le tiri fuori: non lo si ringrazierà mai abbastanza per aver contribuito a smitizzare l’immagine di una magistratura che solo un immaginario stanco come il nostro si ostina a dipingere eroica. In mancanza, si può dire solo che la politica è una brutta bestia: gli amici di ieri ti lasciano solo perché nel frattempo sono diventati amici dei nemici di ieri. Anche per questo Saladino merita solidarietà.
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