Covid, cinque giorni di proteste in Calabria
Nessuna dietrologia e nessun negazionismo: per i calabresi che hanno indetto cinque manifestazioni a Cosenza, la pandemia c’è ed è pericolosa. Ma il male vero resta la gestione della Sanità, una situazione cronica messa a dura prova dal virus, che nel profondo Sud “morde” meno che altrove ma rischia comunque di fare più danni
C’è qualcosa di particolare – e di importante – nella protesta con cui i cosentini hanno accolto il lockdown della Calabria: in nessuna delle manifestazioni che stiamo per raccontarvi sono emerse negazionismi o, peggio, complottismi.
A dispetto delle voci che ancora persistono nel tam tam dei social network, per i manifestanti la pandemia esiste ed è pericolosa.
Il bersaglio principale della rabbia dei calabresi scesi in piazza a più riprese non è, stavolta, il governo. È la Sanità, che inchioda coi suoi debiti mostruosi oltre il 70% del bilancio della Calabria, che si ripercuote nelle tasche dei cittadini con le aliquote d’imposta più alte d’Italia senza rendere servizi proporzionati alla spesa.
È la stessa Sanità che, nella nuova ondata del Coronavirus, ha inchiodato l’ultima regione d’Europa, costretta al coprifuoco totale come le zone ricche, sebbene il numero dei contagi e dei decessi resti basso, sia in termini assoluti sia in rapporto alla popolazione.
Morire di Covid o morire di fame? L’alternativa, comunque la si legga, è brutta, per un’economia gracile e in larghissima parte terziaria come quella calabrese e cosentina in particolare.
Le saracinesche abbassate (o socchiuse) per molti rischiano di diventare un rimedio peggiore del male, il segnale che il virus può mietere vittime anche senza contagi.
Quello che segue è il diario di quattro giorni di passione, vissuti da una città. A voi il racconto della rabbia civile e composta, in cui la paura per il futuro si mescola alla riflessione amara sugli errori fatti, subiti e assecondati.
Cinque novembre: il blocco dell’Autostrada
Negli anni ’80 era il luogo dei ragazzi. Era la zona scelta dai liceali per il loro struscio. Poi è diventata una specie di salottino elegante, nel centro del centro città.
Ora piazza Kennedy è diventata il luogo di partenza della protesta con cui i cosentini hanno accolto il dpcm con cui il governo ha dichiarato la Calabria zona rossa e l’ha fatta regredire allo scorso marzo. Solo che, a differenza di allora, mal comune non è più mezzo gaudio: la Calabria è rossa, mentre, a parità o a maggiori contagi, non lo sono le regioni confinanti: non la Basilicata (gialla) né la Sicilia (arancione).
In Calabria il problema sono le strutture sanitarie, che rischiano il collasso.
Radunatosi a piazza Kennedy, il corteo pacifico è arrivato all’ingresso dell’Autostrada e tenta di bloccare l’accesso alla città.
Pacifico non vuol dire calmo: i manifestanti, a più riprese, esprimono la propria rabbia contro il sistema che ha costretto molti a curarsi fuori regione, in cui il pubblico è inefficiente e il privato ne ha usurpato spazi importanti senza colmarne le lacune.
Il sistema non è altrove. Non è, stavolta, il Nord, diventato ladrone in un certo immaginario allo stesso modo in cui è ladrona Roma per non pochi settentrionali.
Il sistema è la Calabria e questo sistema continua a presentare ai calabresi conti salatissimi. Già: abbassare le serrande o tenerle semiaperte significa non guadagnare e non poter sfamare sé stessi e le proprie famiglie. Aspettare invano l’arrivo della cassa integrazione non è più concepibile.
Al governo centrale arrivano le critiche per ciò che si sarebbe dovuto (e potuto) fare e non si è fatto: si è chiusa una regione invece di rinforzare le strutture pubbliche o requisirle ai privati per far fronte all’emergenza, si è preferito mandare al collasso un’economia.
«Io credo che ognuno di noi abbia il diritto al benessere, ad essere sereno. Ognuno di noi deve poter esprimersi con il proprio lavoro. E senza essere umiliato, e mortificato da questa gentaglia»,grida uno dei manifestanti.
Morire di fame o di virus? Benvenuti nell’incubo.
Nove novembre: il bersaglio è la politica
Come cinque giorni prima, i manifestanti prendono di mira l’ingresso di Cosenza Sud, dove l’autostrada confluisce nella città quasi senza soluzione di continuità.
Nel frattempo, sono successi fatti importanti: i media hanno puntato, per l’ennesima volta, i riflettori sulla Calabria e, come spesso è accaduto, non in maniera lusinghiera.
Proprio da queste novità, mediatiche e politiche, prende spunto Ferdinando Gentile del movimento Prendocasa:
«Cotticelli e Zuccatelli hanno dimostrato di non essere persone che hanno a cuore la salute dei calabresi. Ma hanno dato spazio ai privati. Siamo qui non perché non crediamo al Covid-19, ma vogliamo che ci sia una Sanità giusta che ci dia la sicurezza di rimanere a casa e affrontare questa situazione. Chiediamo l’apertura di tutti gli ospedali, Una medicina di prossimità, uno sblocco del turnover degli infermieri. Ci volete chiudere, va bene. Ma dovete dare i soldi ai calabresi, perché questo lockdown potrebbe decretare il funerale della regione. Non abbiamo bisogno di nuovi commissari ma di gente per bene. Togliete tutti quei politici che hanno campato alle nostre spalle: i Gentile, i Greco, i Morrone, e via discorrendo. Anche in altre città le cose si stanno muovendo. Solo noi possiamo dare un’inversione di tendenza».
A terra, bruciano i simboli dei partiti: Leu, Forza Italia, PD, Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia, mentre la folla urla: Non ci rappresenta nessuno!».
Poi il corteo si muove mentre prende la parola Simone Guglielmelli, un altro attivista:
«In questo momento il governo è riunito in aula non per decidere quanti fondi mandare per ricostruire la sanità calabrese. Ma per stabilire la data delle elezioni. Ma la nostra priorità è avere gli investimenti per riaprire gli ospedali. Perché noi non sappiamo dove curarci. In questi anni hanno chiuso presidi sanitari e ospedali nell’intera regione. La nostra necessità è essere considerati parte di questo Paese. Non siamo una colonia».
All’ingresso dell’autostrada si registra qualche tensione con il cordone delle forze dell’ordine, schierato per evitare che qualcuno si avventuri incautamente sulla A2. Ma, per fortuna, senza incidenti di rilievo.
La tensione cresce, semmai, sotto casa di Ennio Morrone, politico di lungo corso e imprenditore con interessi rilevanti nella Sanità. Stavolta la tensione è cresciuta, ma la presenza di un cordone di poliziotti e l’autocontrollo dei manifestanti hanno evitato che la situazione degenerasse.
Il corteo si dirige quindi all’ingresso del Pronto soccorso dell’Ospedale dell’Annunziata, dove applaude agli operatori sanitari schierati in prima linea e poi, qualche centinaio di metri più avanti, si ferma di fronte alla sede dell’Azienda sanitaria provinciale.
Afferra il megafono Jessica Cosenza, del collettivo Fem.in, che denuncia come la situazione sanitaria calabrese, e cosentina in particolare, fosse degenerata da mesi e tira una bordata terribile a Giuseppe Zuccatelli, che aveva già dato prova di sé gli scorsi mesi proprio all’Asp di Cosenza:
«A fine maggio il collettivo Fem.in, insieme ad altri gruppi, ha occupato il Consultorio di via Popilia, ancora chiuso al pari di molti ambulatori e poliambulatori, con conseguenze gravissime per i pazienti affetti da patologie diverse dal Covid-19. Nessuno si era pronunciato su queste riaperture. Tuttavia, a seguito di quella occupazione, c’era stato un incontro con l’allora commissario dell’Asp Zuccatelli. Durante l’incontro era uscita la promessa di riaprire i consultori il primo di giugno senza effettuare sanificazioni, ma solo con un po’ di alcool perché tanto sarebbe bastato. Ma non accadde nulla. E al danno è seguita la beffa: sempre Zuccatelli ci aveva invitato il 4 giugno a discutere se non si fossero verificate le aperture. Noi ci siamo presentati puntualmente. Peccato solo che lui si era dimesso la sera del 3 giugno e vava lasciato l’Asp nel caos».
La denuncia di Cosenza ha un valore forte, sebbene il nome di Zuccatelli per la Calabria (e forse con il sollievo di molti calabresi) sia un ricordo.
Undici novembre: si protesta all’Ospedale
In perfetto tempismo col servizio delle Iene, una rappresentanza di cosentini arriva a picchettare davanti al vecchio ingresso dell’Ospedale dell’Annunziata, diventato uno dei simboli mediatici del caso Calabria.
Ancora una volta, guida il gruppo di manifestanti Ferdinando Gentile di Prendocasa:
«Occorre riaprire immediatamente gli ospedali», afferma perentorio Gentile,«Non possiamo permetterci che l’ospedale più grande della provincia di Cosenza diventi un ospedale Covid e non ci siano strutture di supporto. Bisogna che ci sia un intervento forte da Roma. Congelare il debito calabrese. Costruire una cabina di regia con persone che sappiano affrontare questa situazione e che coinvolgano i medici e gli infermieri calabresi. Persone che hanno dimostrato negli anni con le loro capacità. Chiederemo nei prossimi giorni al governo un incontro formale perché vogliamo rappresentare la drammaticità estrema della nostra situazione».
Interviene a ruota il sindacalista Stefano Mancuso, che si riallaccia proprio al servizio delle Iene, in particolare alla sequenza in cui gli operatori hanno ampliato da soli i reparti:
«Pensiamo sia importante sfatare la facile demagogia che viene fatta su tutti questi lavoratori. Ne sono morti a centinaia durante il lockdown e tuttora continuano ad ammalarsi negli ospedali. Tantissimi sono precari grazie al blocco del turn-over, grazie alla gestione aziendalista della Sanità. Abbiamo migliaia di giovani disoccupati che emigrano per lavorare o lavorano in cliniche private senza nessun diritto. Questo è inaccettabile».
Più che una protesta, la manifestazione è stata un’attestazione di solidarietà col personale medico.
Dodici novembre: una giornata all’Ao
L’Azienda ospedaliera di Cosenza è un altro luogo simbolico della Sanità calabrese. Stavolta il picchetto è più nutrito e variegato. Soprattutto, è attrezzato per resistere tutta la giornata, in attesa di un incontro con la commissaria straordinaria Giuseppina Panizzoli.
Fortissima la rappresentanza sindacale e politica.
Tra i manifestanti spicca Fabio Gallo, del movimento Noi, già attivo in recenti competizioni amministrative.
«Non siamo qui a creare disordine sociale» ,dichiara Gallo, «noi vogliamo portare ordine. Siamo qui per batterci, insieme anche alle forze di polizia, al fianco dei nostri medici, degli infermieri e degli oss. Siamo con coloro che lavorano nell’inferno, nel pronto soccorso di Cosenza. E abbiamo tutti un solo nemico: il Covid-19».
Presente una nutrita delegazione di medici, infermieri e oss, che rilasciano le loro testimonianze.
Significative, al riguardo, le dichiarazioni di Federica Messineo, medico del Pronto soccorso, la quale si rivolge direttamente alla commissaria Panizzoli, che tenta di sottrarsi all’incontro:
«Dottoressa Panizzoli buongiorno. Sono uno dei medici messi del Pronto soccorso. Avrei tanto il piacere di incontrarla, insieme a tutti i colleghi, agli infermieri e agli oss. In questo anno e mezzo in cui lei si è insediata nella direzione dell’Ospedale di Cosenza non abbiamo mai avuto il piacere di dialogare. Abbiamo chiesto tante volte un confronto civile, che lei ci ha negato. Noi oggi aspettiamo qui finché non autorizza un incontro con una delegazione che le esporrà la situazione del Pronto soccorso, che ormai è sotto gli occhi di tutti. Una situazione penosa, a causa della quale noi e i pazienti abbiamo perso ogni dignità. L’Ospedale è vuoto: le posso fare l’elenco dei posti letto che possono essere occupati per assistere decorosamente chi chiede le nostre cure».
Segue a ruota la lagnanza di un’infermiera:
«Lavoro nel Pronto soccorso da 16 anni. Una situazione del genere non si era mai verificata. Adesso stanno succedendo delle cose veramente incredibili. Certo, siamo in piena pandemia, ma ciò non deve far perdere di vista la cosa più importante, cioè la salute dei cittadini: l’assistenza ai pazienti Covid è importantissima, anzi prioritaria. Ma non possiamo dimenticare che esistono gli altri pazienti, che rischiano comunque la vita se non sono curati tempestivamente. Occorre togliere gli affetti da Coronavirus, collocarli in luoghi più consoni e disimpegnare il Pronto soccorso».
Ancora più duro Luigi Nardi, rappresentante degli oss:
«La stessa assistenza che possiamo fornire ai pazienti Covid è precaria e non per colpa nostra: il personale è carente da anni, ma mancano anche i dispositivi di ventilazione, l’ossigeno, i letti, le barelle. Mancano tutti i presidi di cui necessita il paziente Covid. Tutto questo per responsabilità di chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto, di chi dovrebbe fare e non fa».
Dopo un’ora sono vengono ricevuti la dottoressa Messineo e Nardi, accompagnati dall’avvocato Francesco Guido. Riusciranno a parlare dopo alcune ore con Francesco Zinno, il direttore sanitario. Nel frattempo si è verificata un’altra emergenza, che trattiene la Panizzoli: la visita dei Nas, giunti nella sede dell’Ao subito dopo un sopralluogo in Ospedale dovuto al problema dei tamponi.
Nel frattempo i manifestanti chiedono a gran voce le dimissioni della commissaria.
Alle 17,30 i delegati escono dalla direzione e raccontano i risultati del colloquio con Zinno, in seguito al quale sono stati raggiunti due obiettivi: l’arrivo immediato in Pronto soccorso di otto medici e l’attivazione di trenta posti letto per i pazienti Covid. Pace fatta? Forse è più opportuno parlare di tregue: contenti ma non soddisfatti, i manifestanti levano il picchetto, con la promessa che, se dovessero mancare miglioramenti, torneranno.
Amministratore avvisato…
Sedici novembre: tocca a Rende, la città ricca
Anche i ricchi piangono? A dirla tutta, piangevano già da prima, per via della crisi che ha spinto Rende, la città universitaria, la città della borghesia bene, sulla via del declino.
Il Coronavirus ha fatto il resto, non solo alle attività economiche, ma anche ai servizi. Quelli sanitari in particolare.
E non è un caso che proprio davanti al Consultorio Asp di Quattromiglia si sia svolto, il sedici novembre, una manifestazione organizzata da Consulta beni comuni, durante la quale sono stati approfondite alcune note dolenti, a partire dalla migrazione sanitaria per culminare nel paradosso costituito dai medici e operatori sanitari calabresi chiamati a lavorare fuori regione per far fronte all’emergenza.
Di natura geoplitica la riflessione dell’assessora alla cultura Marta Petrusewicz, secondo la quale l’attuale emergenza sanitaria dovrebbe stimolare una distribuzione dei servizi più efficiente sul territorio.
L’assessora Petrusewicz ha parlato, al riguardo, non di territorio comunale ma di grande area urbana, che prescinde perciò dai confini municipali, in cui dovrebbero essere dislocati vari presidi, uno ogni sette chilometri, per coprire le esigenze di tutti i cittadini.
Più sullo specifico, Vittorio Sacco, infermiere e sindacalista Usb, che lancia un allarme forte:
«Ci sono chat in cui si chiede a operatori sanitari di andare a lavorare nonostante abbiano un tampone positivo, per via della carenza di personale. In questo momento la Calabria sta vivendo la stessa situazione di Bergamo dello scorso marzo. I cluster principali di contaminazione sono gli ospedali, perché sono pochi, non sono attrezzati e non è possibile ruotare gli addetti. La responsabilità non è solo del commissario uscente Cotticelli, ma di chi doveva controllare non lo ha fatto. Ci sono dirigenti regionali che controllano la Sanità da vent’anni, che tuttavia non si sono attivati».
Finisce qui il diario della protesta cosentina, che vuol essere una sorta di messaggio nella bottiglia e di monito a futura memoria.
È il racconto di proteste civili e realiste, in cui la rabbia ha ceduto il posto al buonsenso.
Il futuro ci confermerà se queste agitazioni sono servite a qualcosa. Ma una cosa è certa: non potevano non esserci. Di fronte a tragedie così forti l’unica vera colpa è il silenzio.
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