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La nuova sinistra? La racconta un libro

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I motivi della crisi dei progressisti e i rimedi in “Per un socialismo liberale europeo”, il recente pamphlet di Gianni Pittella ed Enrico Caterini

La sfiga è davvero di sinistra? Non ce ne voglia Gaber: pensiamo di no.

Il problema vero, semmai, è propiziarsi la fortuna, che è bendata come la giustizia ma più capricciosa. Su questo, la sinistra (soprattutto italiana, ma non solo) non si è aiutata affatto.

Perché non ha osservato una regola importante: se la fortuna non ci vede bene, e quindi ti trova poco e male e comunque con molte difficoltà, la politica è obbligata a vederci benissimo per farsi trovare.

La copertina di “Per un socialismo liberale europeo”

Cioè deve avere una visione, che è poi la capacità di guardare anche lontano e pensare per sistemi. Il che significa che esiste una scelta diversa, un modo di atteggiarsi alternativo a quello, finora praticato di scelte politiche ipermetropi – ovvero iperfocalizzate sulle necessità del consenso – o miopi.

Questa visione può essere quella socialista. Almeno stando alla tesi di Per un socialismo liberale europeo, un pamplet ricco di contenuti e stimoli, scritto da Gianni Pittella, senatore del Pd ed ex capogruppo dei Socialisti & Democratici al Parlamento europeo, ed Enrico Caterini, professore ordinario di Diritto privato all’Università della Calabria, pubblicato di recente dalla pisana Pacini.

Un volume di agevole lettura, almeno per chi mastica la politica come si deve, e arricchito dai contributi di una squadra di tutto rispetto, composta dall’ex ministro Salvo Andò, da Anna Lucia Valvo, docente ordinaria di Diritto dell’Unione Europea all’Università Kore di Enna, dalla giornalista Antonella Napoli, dall’avvocato Domenico Pittella e da Francesco Ronchi. Il tutto coordinato dal giornalista Saverio Paletta e accompagnato da una bella prefazione di Frans Timmermans, il vicepresidente della Commissione Ue.

Ce n’è per tutti i palati: si va dalle concettualizzazioni di Caterini alle riflessioni profonde e amare di Pittella sulla parabola non felice della tradizione socialdemocratica europea. Di questo processo, in seguito al quale la sinistra istituzionale ha finito per somigliare a certa destra iperliberista, gli autori individuano un big bang ben preciso: la caduta del Muro di Berlino.

Gianni Pittella

Con la fine del socialismo reale, venne meno lo spauracchio che consentì alle grandi correnti del riformismo europeo di affermarsi e ottenere ruoli importanti nelle istituzioni e nella vita delle loro nazioni.

Ma non è stata solo una questione di spauracchi e di reazioni: l’impatto del pensiero e della prassi liberista è stata fortissima, specie nel mondo anglosassone, e non poteva non alterare la tradizione socialista liberale, nata e affermatasi nel contesto, vecchio e prossimo all’obsolescenza, degli Stati nazionali.

A proposito di questa dinamica storica, il libro indica due dialettiche, una costruttiva e istituzionale, quella tra liberalsocialismo e conservatorismo, e una di lotta, che può sfiorare la celebre dicotomia amicus-hostits di schmittiana memoria, tra chi impronta la propria azione a una cultura politica e i populismi.

Già: parlare di socialismo liberale significa evocare una delle espressioni culturali più importanti del XIX e del XX secolo. E questa cultura può fare massa critica con le altre (quella cristiana, ad esempio, o quella liberale tout court) o ospitarne alcune per ottenere due risultati importanti.

Il primo, se si vuole più teorico, è arrestare i continui richiami alla pancia su cui fanno leva i populismi e sostituirvi un’etica della lucidità e del ragionamento.

Il secondo, di natura pratica e quindi più immediatamente tangibile, consiste nel reinserimento della giustizia sociale nelle agende politiche. Detto altrimenti, nel dar di nuovo voce alle istanze egualitarie nella civiltà europea, nella quale l’eguaglianza è praticamente evaporata e, dissolvendosi, ha ridotto le libertà a gusci vuoti.

Al riguardo, la sfida di Pittella e Caterini è giocata su più piani.

Senz’altro c’è il piano europeo, nel quale i due autori sostengono senza mezzi termini la definitiva trasformazione dell’Ue in un organismo (finalmente) politico.

Ma grossi spunti di originalità emergono soprattutto sul piano dei rapporti sociali, grazie al recupero e all’aggiornamento del comunitarismo.

Enrico Caterini

Colpisce inoltre (e benissimo) la lettura inclusiva dell’europeismo, che, grazie al contributo intelligente di Andò, prende le distanze da certo eurocentrismo tipico di parte della tradizione conservatrice e pieno di vecchie eco colonialiste per declinarsi in maniera dialogante. Ed ecco che la parte mediterranea dell’Europa, soprattutto il nostro Paese, diventa, in questa nuova concezione, il perno dei rapporti tra il Vecchio Continente e l’Africa. Il principale soggetto per la mediazione tra le esigenze del Continente Nero che cresce e l’Europa che ha bisogno di nuove energie e nuovi spazi.

In pratica, una geopolitica dell’integrazione che prende il posto delle vecchie forme di imperialismo senza tuttavia scadere in quello scialbo umanitarismo fin troppo abusato a sinistra.

Stesso discorso per l’immigrazione, in cui il discorso dell’integrazione è mediato dai concetti di doverosità (di chi accoglie e di chi viene accolto) e di reciprocità che superano il concetto aproblematico – e sciatto – dell’accoglienza a prescindere.

E si potrebbe continuare a lungo.

Ma il cardine del libro è uno: il tentativo di formulare, finalmente, un’idea socialista e liberale non più necessariamente legata, come è accaduto in tutto lo scorso secolo, alla dimensione statale, ma contestualizzata, in maniera spontanea, nella società. Cioè il socialismo prima e oltre lo Stato.

Soprattutto, un socialismo capace davvero di riempire e rafforzare le libertà e di declinarsi nel mercato senza subirlo.

Per un socialismo liberale europeo contiene una scommessa forte, ma non per questo azzardata, esemplificata nel dodecalogo, una raccolta di dodici aforismi che chiude il volume riassumendone i punti forza.

Si può realizzare questo socialismo? La risposta rischia di essere troppo impegnativa. Tuttavia, si può dire che queste tesi, nuove ma profondamente radicate nell’immaginario della sinistra più aperta e progressista, sono un antidoto efficace al declino della politica, intesa come elaborazione, arte e cultura.

Sono l’alternativa tra la sfiga e il futuro. Tra la politica come primato e il dominio della finanza.

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