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I briganti eroi? Anche Di Fiore le spara grosse

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Il revisionismo neoborbonico colpisce ancora: Gigi Di Fiore, storico e firma prestigiosa, si lancia in un elogio del brigantaggio, che definisce ribellione anticasta, sulle colonne de Il Fatto Quotidiano. Ma, tra una falsità e uno svarione, emerge la verità: gli storici antirisorgimentali alzano la voce soprattutto per vendere libri, dato che il loro “movimento” è in riflusso e cercano di capitalizzare l’apertura di credito fornitagli da de Magistris, che si è legato anche ai movimenti sudisti, rumorosi sulla rete, ma inconsistenti nella realtà politica…

Il revisionismo dà alla testa? Non necessariamente. Perché, ad esempio, c’è revisionismo e revisionismo.

C’è un revisionismo coraggioso, fatto in un clima culturale avverso e per amor di scienza e a prescindere dai risultati pratici. È il caso del socialista Renzo De Felice, che iniziò la sua monumentale rilettura del fascismo quando il culto della Resistenza era obbligatorio nel mondo accademico e non solo.

E c’è un revisionismo facile, che si impone sulla scia di un clima politico avvelenato e mira a soprattutto a far cassetta. Di solito il gioco funziona, finché gli storici veri non escono dalle torri d’avorio (o, che è peggio, forzano le paratie stagne del mondo accademico) e non mettono le cose a posto.

È il caso del revisionismo di ispirazione neoborbonica, esploso sulla base di tesi già vecchie durante la celebrazione del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, celebrata più nel Nord leghista che nel Sud politicamente succube e passivo, e che tuttora ha i suoi bravi colpi di coda. Non ci si riferisce all’abusato (anche da sé stesso) Pino Aprile, che quando i fatti lo smentiscono non trova di meglio che svelenare ed evocare complotti. Bensì a un giornalista e storico altrimenti bravo come Gigi Di Fiore, già redattore de il Giornale di Montanelli e firma prestigiosa de Il Mattino.

Di Fiore alcuni giorni fa si è scatenato sulle colonne de Il Fatto Quotidiano (per la precisione a pagina 10 del numero del 10 luglio scorso) in una difesa, l’ennesima, tardiva e piena di imprecisioni, del brigantaggio.

Anche la scelta della testata non è casuale: Il Fatto ha sempre dimostrato una certa simpatia nei riguardi di Luigi de Magistris, nelle vesti di magistrato prima e ora nel ruolo di sindaco di Napoli. E de Magistris, che tenta di trasformare la propria importante e a tratti riuscita esperienza amministrativa in movimento politico, ha dato un ruolo anche ai neoborbonici. Insomma, una certa quadra c’è.

Il problema sono gli argomenti esibiti da Di Fiore, in cui le lacune sanno di malafede (e non poca, perché Di Fiore è uno dei rari giornalisti che quando s’impegna riesce a fare lo storico per davvero). Già il titolo del pezzo, La riscoperta dei briganti, primi ribelli contro le caste, è un programma, visto che il titolista ha interpretato i contenuti senza forzare la mano. L’autore, infatti, incappa già nell’incipit nel primo svarione, quando afferma che «invece il termine brigante ha perso il suo significato negativo, per trasformarsi in sintesi positiva di ribellione e protesta contro tutte le ingiustizie. E, se il brigante post-unitario del Mezzogiorno fino a qualche tempo fa era imprigionato nell’etichetta della reazione e del revanchismo di destra, oggi questa figura viene sdoganata dalla sinistra che se n’è appropriata».

Il ragionamento puzza alla grande e per più motivi, alcuni dei quali riguardano proprio la destra, che Di Fiore immagina solo reazionaria. La destra italiana, nella maggior parte delle sue incarnazioni storico-politiche, è stata nazionalista e non etnocentrista. Di sicuro fascista, ma non reazionaria. Anzi: la lettura defeliciana ha pesato sin troppo nell’autoidentificazione di una buona fetta della destra. Ci sono stati, è vero, alcuni gruppi che si sono identificati nel tradizionalismo cattolico oppure sono confluiti in questa corrente cristianizzando la lettura di autori come Julius Evola e Massimo Scaligero. Ma questo percorso, soprattutto la parte di questo percorso approdato ai lidi neoborbonici, è assolutamente minoritario e non del tutto incline ad eccessive simpatie verso il brigantaggio, dato che il punto di riferimento dei tradizionalisti è il feudalesimo e non l’assolutismo, di cui i Borbone furono gli ultimi campioni europei assieme ai Romanov. Sui briganti il discorso è più netto: va bene la simpatia per i ribelli, ma questa trovava comunque poco spazio in ambienti politici dominati dall’ossessione securtaria e dall’amore per l’ordine pubblico e le divise. Sarebbe carino, a questo punto, capire a quale destra Di Fiore abbia inteso riferirsi.

Semmai, è vero l’esatto contrario di quel che sostiene il giornalista-storico napoletano: i briganti sono stati sdoganati a sinistra, proprio a partire da quel Gramsci citato impropriamente nell’articolo. L’operazione culturale, ancora non apertamente populista (Gramsci può essere accusato di tutto, fuorché di populismo), muoveva da un assunto, anch’esso recepito dai neoborbonici in maniera confusa: l’identificazione della questione meridionale con la questione sociale, quindi le pesanti ingiustizie che seguirono il Risorgimento e colpirono vaste fette della popolazione, e la conseguente identificazione dei briganti con i ribelli, nel senso più ampio del termine, ma al di fuori delle questioni identitarie. La tesi gramsciana, per quanto raffinata, non era tuttavia esente da pecche: Gramsci non scriveva certe cose da pensatore o da intellettuale raffinato, ma come esponente dell’Internazionale e in qualità di leader socialista che si era anche formato a Mosca. Il suo esame della questione meridionale (fu lui stesso l’inventore del termine) aveva uno scopo politico: aprire spazi al Pci tra i contadini del Sud per contrastare l’egemonia del Psi, più operaista e legato alle lotte di fabbrica del Nord. Questo per dire che se si vuol continuare a citare a mo’ di slogan certe frasi di Gramsci si faccia pure, ma almeno si tenga anche conto che la sua era anche e soprattutto propaganda politica contingente, sebbene di gran classe e di spessore.

Sempre a proposito di Brigantaggio e gramscismo: non è un caso che la riscoperta del fenomeno sia dovuta soprattutto a Franco Molfese, uno storico di impostazione gramsciana che scrisse negli anni ’50 una monumentale e per molti versi ancora valida Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, edita in prima battuta da Einaudi (non propriamente un editore di destra). La sua era una lettura per molti versi canonica del brigantaggio visto da sinistra e considerato una variante, cruenta e sfortunata, della lotta di classe

Neppure il lavorio di certi gruppi di sinistra, in particolare di quegli ambienti legati ai centri sociali a cui si riferisce Di Fiore non è recentissimo. Anzi. Data almeno dagli anni ’70 e riflette il tentativo di parte dell’autonomia di sganciare la lotta di classe dall’operaismo. Un tentativo anche questo di aprirsi spazi culturali al di fuori dei tradizionali ambienti produttivi, dove le classi operaie tendevano a manifestare simpatie riformiste e aspirazioni borghesi incompatibili con la cultura del ribellismo. A proposito di Pontelandolfo, giusto per riferirci a un esempio citato da Di Fiore, val la pena di ricordare che i primi a richiamare quest’episodio furono gli Stormy Six, un gruppo progressive rock milanese legato agli ambienti dell’autonomia.

La verniciatura identitaria del brigantaggio, che ha spostato a destra la lettura del fenomeno, è venuta dopo, grazie anche all’opera dei neoborbonici, che ha approfittato di due fenomeni nuovi: il declino dell’impostazione classista a sinistra in seguito al venir meno del socialismo reale, e le suggestioni etnocentriche che hanno preso il posto delle ideologie tradizionali. Mutatis mutandis, a Sud è avvenuto in ritardo quel che a Nord si era manifestato col leghismo alla fine degli anni ’80.

Sulla rilettura storica del brigantaggio operata anche da Di Fiore c’è poco da dire: l’autore insiste a oltranza sulla concezione, assai problematica ed ardua da dimostrare, dei briganti come ribelli anticasta. Basterebbe scorrere i faldoni dei processi (e non tutti furono celebrati dalle corti speciali e non tutti terminarono con esecuzioni sommarie, che pure ci furono e in gran numero) per rendersi conto che la maggior parte delle condanne fu inflitta per reati comuni, anche piuttosto raccapriccianti (mutilazioni, torture, stupri con e senza omicidio, sequestri di persona, estorsioni ecc.), molti dei quali compiuti non a danno dei galantuomini, con i quali si svilupparono spesso delle collusioni, ma degli stessi contadini in nome dei quali costoro sostenevano di combattere. Il terreno su cui si muove Di Fiore (con più accortezza, questo va riconosciuto, di altri revisionisti) è minato e franoso. E questa instabilità impedisce di dimostrare la distinzione tra una mafia comunque cattiva e un brigantaggio comunque buono. Anzi: per decenni ci fu chi considerò camorristi e mafiosi un contropotere legittimo, che riparava le storture del potere legale…

E si potrebbe proseguire. Dell’analisi di Di Fiore resta in piedi solo il taglio postmoderno, in cui destra e sinistra, isolate dalla matrice illuminista da cui deriva la politica moderna, si cortocircuitano tra loro e creano ibridi più pericolosi di quanto non si creda. Per capirlo, basta rileggere con un occhio più distaccato quel che è capitato nei Balcani durante i terribili anni ’90. Nella guerra civile che disintegrò in un quinquennio la Jugoslavia titina riemersero due nomi che sembravano inghiottiti dalle voragini della storia: i serbi cetnick e i croati ustascia. Prima di essere assorbiti dalla politica questi due gruppi, nati entrambi dalla resistenza antiturca in Bosnia, presentavano caratteristiche non dissimili dal nostro brigantaggio, i primi in chiave popolar monarchica, i secondi in chiave addirittura fascista (e non a caso furono assorbiti nel movimento fascista di Ante Pavelic). Vedere all’opera negli anni ’90 gruppi che si richiamavano a un passato duro e violento, ma armati di tutto punto e spalleggiati da eserciti di istituzioni ufficiali dovrebbe far riflettere su cosa potrebbe combinare un brigantaggio 2.0. Per questo è vitale esorcizzare certe pulsioni attraverso una lettura della storia più critica, sobria e meno irresponsabile di quella di certi ambienti in cui Di Fiore è il benvenuto e cerca consensi.

Certo, c’è da scommettere che il giornalista napoletano abbia rilanciato sul brigantaggio anche per riproporre le proprie opere, meno rozze a più meditate dell’articolo pubblicato dal Fatto.

Ma il problema non è lui, né l’editoria che specula su certe tesi per difendere i propri investimenti. Bensì quel segmento di classe politica che, priva di una cultura autentica, cerca di lucrare sul successo che certo revisionismo da rivista patinata ha ottenuto grazie a un clima inedito di malessere generale.

Si è passati da una classe politica che distorceva la storia conoscendola a una che accetta, per ignoranza e opportunismo, le distorsioni altrui. E lo stesso discorso vale per i media, che hanno dimenticato come conciliare audience e rigore. La ricetta magica del grande giornalismo che non c’è più.

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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