Distance Over Time, il ritorno al passato dei Dream Theater
I padri del prog metal rispolverano le sonorità dure delle origini nel loro nuovo album inciso in una fattoria di New York
Che dire: i Dream Theater sono sempre i Dream Theater, cioè garanzia di virtuosismo (ma anche di freddezza), di arditezza compositiva e di sperimentazione.
Al punto che è praticamente impossibile bocciare un loro album così come è impossibile non trovarvi un po’ di deja vu, perché, come tutti i virtuosi di lusso, neppure il quintetto bostoniano riesce a sottrarsi alla tentazione di citare (anche se in maniera personalissima) tutto ciò che fa bravura: sia esso il jazz rock alla Return To Forever, sia esso il progressive orchestrale alla Yes vecchia maniera, il tutto, va da sé, completamente metallizzato (il che apre un altro caleidoscopio di citazioni).
Di sicuro una band così non avrà mai la tentazione di una svolta pop, perché per Petrucci e soci semplificare il sound significa tornare al prog metal massiccio e squadrato degli esordi.
Ed è proprio quel che sembra accaduto con Distance Over Time, il quattordicesimo album in trent’anni di carriera, lanciato da poco dalla Inside Out, con cui la band tenta di recuperare in immediatezza dopo l’exploit barocco (e, a giudizio di non pochi, piuttosto eccessivo) del precedente The Astonishing, un superconcept dalla tematica fanstascientifica che aveva diviso la critica e i fan.
Etichetta nuova, dopo la fine del contratto con la storica Roadrunner, metodo nuovo. Non più incisioni algide in studi separati, ma sessioni live registrate da tutti i membri in un fienile vicino New York adattato per l’occasione, un po’ come facevano i miti del rock per avere (o ritrovare) l’ispirazione.
I risultati si sentono: il sound perde in raffinatezza, ma acquista in compattezza e groove e guadagna qualche asperità che non guasta affatto. L’asticella si sposta dal versante prog a quello metal.
Questo cambio di marcia si nota sin dall’open track Untethered Angel, una riflessione sull’incertezza del futuro tra le nuove generazioni in chiave ultra metal: il brano è caleidoscopico come sempre, parte da un arpeggio suggestivo, si snoda tra i riff pesanti di John Petrucci e cambi di tempo mozzafiato interpretati col consueto brio dal bassista John Myung e dal batterista Mike Mangini e culmina nel duetto micidiale tra Petrucci e Jordan Rudess che si conferma un mago delle tastiere di grande versatilità, capace di passare da fraseggi hard a scorribande alla Ian Hammer. Piuttosto in forma anche il cantante James La Brie, che risulta a suo agio nelle metriche schizofreniche del pezzo.
Più lineare e più metal, Paralyzed è una riflessione autobiografica di Petrucci, introdotta da un riff cupo che riecheggia un bel po’ di stoner e introduce un refrain malinconico e arioso allo stesso tempo, interpretato col giusto pathos da La Brie. Notevole e sofferto l’assolo di chitarra, che si lancia in citazioni malmsteeniane.
Forse non a torto la maggior parte dei critici ha accostato Fall Into The Light ad alcune cose dei Metallica vecchia maniera, a partire dal riff decisamente thrash e dalla ritmica martellante.
Ma l’attitudine alla complessità del quintetto prende il sopravvento anche in questo brano, che assume pieghe più intimistiche nel break strumentale, in cui Petrucci si lancia in un solo carico di lirismo prima della sfuriata finale, giocata sui consueti fraseggi supersonici.
Più progressive nell’impostazione, Barstool Warrior (una specie di ode a chi affoga dispiaceri e preoccupazioni nell’alcool) è un viaggio tra riff in tempo dispari, controtempi, break melodici di grande respiro e refrain sognanti.
Un cinque quarti dagli accenti tribali apre e accompagna la tenebrosa e complessa Room 137, un omaggio al filosofo Wolfgang Pauli, ben commentata dall’Hammond di Rudess e infiorettata dai prodigi chitarristici di Petrucci, che cita in parecchi passaggi Steve Morse. Probabilmente il pezzo più originale e interessante dell’album.
Sulla stessa falsariga S2N (che sta per Signal To Noise), un brano di denuncia dell’invadenza informatica e della conseguente disinformazione per eccesso di notizie, in cui la parte del leone tocca a Myung che si produce in arditi passaggi slap.
Non sono da meno le scorribande soliste di Rudess e Petrucci che si esibiscono in soli jazz rock alla velocità della luce.
A riprova che l’aggettivo semplice mal si adatta ai Dream Theater, arriva At With’s End, una lunga suite dedicata allo stress traumatico delle vittime di stupro: nove minuti di ardite scorribande ma anche di grande e sofferto lirismo, con un’interpretazione di La Brie davvero bella ed evocativa. Notevoli (ma sembra quasi scontato dirlo) le performance strumentali di Petrucci, inframezzate dagli arpeggi del piano di Rudess.
Out Of Reach è una ballad melodica quanto basta e sognante come si deve. Quasi un momento di pausa nella tempesta sonora dell’album.
Il prog metal dei Dream Theater incrocia la Kosmische Musik nella conclusiva Pale Blue Dot, ispirata dalle riflessioni dell’astronomo Carl Sagan. In quest’altra suite di circa otto minuti di durata la band si scatena al massimo in parti complicatissime che escono dal perimetro del metal e si inoltrano nella fusion più sperimentale e complicata, in un dedalo di dissonanze e di giochi armonici estremi.
Essere progressive non esclude il divertimento. Lo prova la bonus track Viper King, dalla tematica più leggera (l’amore di Petrucci per le auto) e dall’andamento scanzonato, marcato dall’Hammond di Rudess e dal riffing vagamente vanhaleniano del chitarrista.
Distance Over Time è l’ottimo ritorno – anche nel senso di ritorno alle origini – di una band che ha abbandonato da tempo il complesso dei pionieri e decisa a mantenere il proprio ruolo cruciale nello sviluppo del rock ritagliato in anni di sperimentazioni.
È l’album sicuro e rilassato di artisti che hanno una serena coscienza di sé e non devono più dimostrare nulla a nessuno.
Non fosse altro che per questo, vale più di un ascolto attento.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Dream Theater
Da ascoltare (e da vedere):
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