Un romanzo picaresco in memoria del Sergente Romano
Marco Cardetta racconta in maniera originale la vita tumultuosa del brigante che terrorizzò la Puglia. Un eroe borbonico? Un patriota napoletano? Proprio no…
Si può scrivere un romanzo storico e, contemporaneamente, professarsi antistoricista? Secondo Marco Cardetta, sì. Cardetta, classe 1983, è un intellettuale eclettico: produttore cinematografico con Murex production, si esibisce con spettacoli di alternative comedy e con il recital concerto Voci di sbandati. La sua prima prova narrativa, Sergente Romano, gli è valsa come esordiente il premio Vittorio Bodini-La luna dei Borboni nel 2014.
Il romanzo, pubblicato nel 2016 da LiberAria Editrice di Bari, rievoca le vicende della vita breve e turbolenta del brigante postunitario Pasquale Domenico Romano, ex sergente dell’esercito borbonico, che dal giugno del 1861 al gennaio del 1863 costituì, con la sua banda di guerriglieri legittimisti, un vero e proprio incubo per le guardie nazionali e le truppe del neonato esercito italiano in terra di Puglia.
Il racconto di Cardetta copre il periodo che va dal 7 giugno al 30 luglio 1861, durante il quale Romano guidò – ricorda Franco Molfese – «la tentata invasione di Gioia del Colle, terminata in una sanguinosa repressione».
Il romanzo non concede nulla alla stravagante vulgata neoborbonica e sudista, che considera tout court i briganti come partigiani impegnati in un’eroica e sfortunata guerra di liberazione nazionale. Cardetta si guarda bene, infatti, dal nascondere o minimizzare la brutalità efferata delle milizie agli ordini del Sergente. Anzi, i misfatti dei componenti della banda Romano vengono rappresentati senza mediazioni e senza compiacimento, quasi fossero espressione di una ferinità primitiva e, a suo modo, innocente. Per contro, la reazione delle forze unitarie si dispiega in pagine di burocratica ferocia.
Insomma, il romanzo non è viziato da un intento agiografico, in una direzione o nell’altra, ma raffigura con singolare immediatezza il clima di guerra civile che attanagliò parecchie regioni del Mezzogiorno dopo il crollo del Regno delle Due Sicilie.
Il criterio narrativo seguito da Cardetta si coglie con maggiore evidenza nell’arguta e ironica postfazione, Nota postuma al testo dell’autore su gentile richiesta dell’editore, ovvero non mi riconosco, ma perché tu ti riconosci?, in cui la prosa del romanziere lascia il posto a quella dello studioso di Bene, Stirner, Michelstaedter, Deleuze, Zolla e Panikkar. Cardetta ammette che il libro «è zeppo di sbagli e storture, per lo più volute: ondivagazioni nelle occorrenze di alcuni termini, nonché nei ritmi». Scorrettezze e approssimazioni – persino nel latino delle annotazioni tratte dai registri ecclesiastici degli atti di morte – servono a ottenere un testo scorrevole e semplice, che nelle intenzioni dello scrittore dovrebbe trascinare chi legge «col suo ritmo primitivo».
Lo scopo appare raggiunto: Sergente Romano rende con efficacia l’atmosfera picaresca in cui sono immersi i suoi rocamboleschi personaggi: tutt’altro che eroi, appunto, ma poveracci che si trovano a compiere gesta sbagliate in un tempo sbagliato. Se si dovesse per forza trovare una pecca nel romanzo di Cardetta, a nostro avviso essa consisterebbe proprio nel non aver condotto la lingua dei dialoghi all’estremo della tensione sperimentale e della frantumazione linguistica (non è forse l’autore uno studioso di Carmelo Bene?). Peccato, perché l’ambientazione e i protagonisti lo avrebbero consentito e, forse, consigliato.
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Cari Lettori,
Ho sostituito all’interno del pezzo una foto attribuita al sergente Romano, ma che in realtà ritraeva un altro brigante. Nel porgere le mie personali scuse a Lorenzo Terzi e a tutti voi, mi permetto di specificare che l’errore è stato indotto dalla didascalia del sito da cui ho ricavato la foto. Evidentemente, molti “revisionisti” o appassionati di brigantaggio non sono altro che storici della domenica, che trono voce solo in alcuni circuiti della rete in cui non hanno contraddittori ma solo una clacque.
Su certe prassi, costituite da svarioni (e, in alcuni casi, falsificazioni) si era già espresso Alessandro Barbero nel suo I prigionieri dei Savoia. Faccio ammenda per non aver fatto tesoro delle sue indicazioni.
Saverio Paletta