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I cannibali dei Borbone: se il nemico diventa un pasto…

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Quando i sanfedisti ripresero Napoli esplose l’inferno: i seguaci del cardinale Ruffo e i lazzari infierirono sui nemici fino a divorarli. Un capitolo rimosso della nostra storia riemerge nel libro di Luca Addante

Il 13 giugno 1799 finì nel sangue l’esperienza effimera della Repubblica Napoletana. E per Napoli iniziò l’inferno.

La crisi politica fu l’elemento scatenante ma non l’unico dell’apocalisse: Napoli non sprofondò nell’abisso solo perché i sanfedisti (o calabresi, come li chiamavano allora) batterono ’e jacubbine e restituirono il trono ai Borbone.

La metropoli, che era stata la culla mediterranea dell’illuminismo, finì stritolata soprattutto dalla violenza bestiale e immotivata delle truppe del cardinale Ruffo e dei lazzari, che misero a ferro e fuoco per mesi la capitale riconquistata e incrudelirono sui cittadini, fino a divorarli.

L’armata di Ruffo in marcia con la benedizione di Sant’Antonio

Non è un modo di dire: alcuni importanti testimoni di ciò che accadde in quei mesi terribili annotarono nei propri diari vari casi di cannibalismo. Dovuti alla fame? All’ansia di vendetta del popolo fedele al re, che un certo revisionismo neoborb si ostina a considerare oppresso e depauperato dai rivoluzionari?

Di sicuro la fame non ebbe alcun ruolo in queste atrocità estreme. E la vendetta, probabilmente, fu solo una parte dei motivi di tanta ultraviolenza.

Secondo il cosentino Luca Addante, professore di Storia moderna dell’Università di Torino, il cannibalismo dei controrivoluzionari del ’99 fu l’emersione di una ferocia arcaica, forse connaturata all’uomo, che il lavorio di millenni di civilizzazione ha trasformato in tabù e quindi rimosso.

Una modernità cannibale?

Questa è la tesi principale de I cannibali dei Borbone. Antropofagia e politica nell’Europa moderna (Laterza, Roma-Bari 2021), l’ultimo libro dello storico calabrese.

La copertina de “I cannibali dei Borbone”

Prima di procedere sono necessarie due precisazioni.

La prima: tutti gli episodi di cannibalismo analizzati nel libro toccano la sfera pubblica e non possono perciò essere ricondotti ai fenomeni, essenzialmente individuali, analizzati dalla criminologia.

Infatti, ribadisce Addante: «Non sono qui in ballo le patologie da serial killer rese celebri da cinema e cronaca nera» [Premessa pag. XIII].

La seconda precisazione riguarda l’aspetto più polemico del libro: è inevitabile che il racconto delle atrocità commesse dai controrivoluzionari meridionali ridimensioni non poco l’epopea di Fabrizio Ruffo, che è uno dei miti dello storytelling neoborb.

Ma la polemica contro le tesi neoborboniche (non a caso definite «baggianate»), che ha comunque un ruolo importante nell’economia del libro, non esaurisce la ricerca di Addante, che parte dagli episodi più estremi del sanfedismo per interrogarsi su un fenomeno più vasto e complesso: la persistenza dell’antropofagia nell’Europa civilizzata.

Tris di storici: Luca Addante (al centro) assieme a Villari e Firpo

Quindi l’autore contestualizza gli episodi efferati della Napoli degli ultimi mesi del ’700 in una casistica piuttosto vasta (riportata nel secondo capitolo del libro), che va dal XIV secolo alle soglie dell’età contemporanea, sviluppatasi in tutto il Continente europeo.

Già, ammonisce Addante: la carne umana non è stata solo una pietanza partenopea.

L’escalation

Concentriamoci su Napoli, a cui è dedicato il primo capitolo de I cannibali dei Borbone.

Un macabro, significativo antefatto consente di capire il clima di estrema violenza della vita associata: il massacro di Antonio Ferrieri, un corriere reale impiccato e smembrato dalla folla davanti al Palazzo Reale il 20 dicembre 1798, tre giorni prima della fuga di Ferdinando IV e di Carolina d’Asburgo a Palermo, sotto la protezione dell’Inghilterra.

Il cardinale Fabrizio Ruffo

Fu l’inizio di un’escalation, di cui il secondo, ancor più macabro episodio risale al 19 gennaio 1799, dopo la resa di Napoli ai francesi: l’eccidio del duca Ascanio Filomarino e di suo fratello Clemente, fucilati e poi arsi all’interno di una botte perché considerati dalla folla spie dei jacubbine.

Il 22 gennaio successivo toccò a un patriota, rimasto anonimo, subire la fucilazione e il rogo.

Tre casi di overkilling, culminati nello scempio dei cadaveri, che generarono raccapriccio anche nei fedelissimi dei Borbone, come ad esempio l’avvocato Carlo De Nicola, uno dei testimoni più importanti (e credibili) di queste vicende.

I racconti di De Nicola e di altri testimoni e cronisti, tra cui il medico Diomede Marinelli, purtroppo non si fermano qui. Riprendono dal 13 giugno del 1799, il giorno della caduta della Repubblica, quando la metropoli ricadde nel caos.

C’è solo l’imbarazzo della scelta, quanto a violenza: donne violentate anche da morte, fucilazioni e impiccagioni sommarie, cadaveri smembrati e bruciati, teste mozzate usate come palloni e via discorrendo, di nequizia in nequizia. Al riguardo, risultano significative le testimonianze del cardinale Ruffo, che tentò di arginare la terribile ondata di violenza, e del suo aiutante di campo, il marchese Filippo Malaspina.

La ferocia fu così tanta che il cannibalismo non poteva mancare…

Il fiero pasto

Marinelli e De Nicola riportano con estremo raccapriccio la vicenda dell’ufficiale pugliese Nicola Fiani, uno degli otto impiccati del 20 agosto 1799 (tra i quali figura anche Eleonora Fonseca Pimentel, la pasionaria della Repubblica).

Maria Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Pimentel ne “Il resto di niente”

Il corpo di Fiani fu tolto dalla forca e fatto a pezzi dalla folla. Stando al racconto di Marinelli, almeno il fegato fu espiantato, abbrustolito e divorato. I ricordi del medico e dell’avvocato borbonico non sono gli unici documenti di questo episodio orribile: ad essi si aggiunge la relazione della Confraternita dei Bianchi, che si occupava del conforto dei condannati.

L’affaire Fiani non fu il solo caso di cannibalismo. Le fonti utilizzate da Addante – tra l’altro in larga parte filoborboniche – riportano le storie di due repubblicani fatti a pezzi e divorati e persino di tre ufficiali borbonici che entrarono nel menù dei popolani perché sospettati di simpatie jacubbine.

Che l’antropofagia fosse piuttosto diffusa nella Napoli di quell’anno terribile, lo riferiscono, infine, anche due esuli rivoluzionari: Vincenzo Cuoco (nella prima edizione del Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli) e l’avvocato molisano Amodio Ricciardi.

Queste pratiche, inoltre, generarono un forte allarme nelle autorità: Ruffo, che tentava di contenere l’ondata di violenza popolare, ordinò al capo della polizia di intervenire a Rua Catalana, dove erano esposti dipinti che immortalavano scene di antropofagia.

Lazzari napoletani

Napoli fu senz’altro l’epicentro di questi eccessi.

Tuttavia, episodi raccapriccianti si verificarono anche in altre zone del Sud.

A Teramo fu ucciso e cannibalizzato un soldato francese. Uguale destino toccò a Nicola Cesari, presidente della municipalità di Montesano sulla Marcellana, nel Salernitano.

Uno strato profondo

I fatti tragici della riconquista di Napoli non sono gli unici riportati da Addante, che, come accennato, arricchisce I cannibali dei Borbone con una casistica piuttosto vasta, in cui spiccano la morte del leader olandese Johan de Witt, massacrato e cannibalizzato dalla folla nel 1672 e due episodi avvenuti durante la Rivoluzione francese, in particolare a Caen, dove l’operaio Pierre Hébert cannibalizzò un ufficiale borbonico. Segno, quest’ultimo, che certe fami ataviche si accendono anche in nome del progresso e dei Lumi…

Ferdinando IV di Borbone

Il riferimento all’atavismo non è casuale. Anzi, secondo lo studioso cosentino, può fornire una chiave di lettura unitaria al cannibalismo europeo.

Cos’hanno in comune i numerosi episodi raccontati nel primo e nel secondo capitolo de I cannibali dei Borbone, relativi non solo alla riconquista di Napoli ma anche alle lotte tra guelfi e ghibellini nell’Italia dei Comuni, alle guerre di religione, alle rivoluzioni inglese e francese ecc?

Gli aspetti ideologici sono piuttosto relativi (quindi non è possibile, per capirci, tracciare l’equazione secondo cui reazionario è uguale a cannibale), ma lo schema ricorrente è sempre il medesimo.

Alla base c’è sempre una forte crisi politica che mette in discussione un assetto di poteri o, addirittura, un ordinamento. Ci sono, inoltre, i disordini conseguenti alla rottura dell’ordine pubblico e l’altrettanto conseguente crescendo di violenza diffusa.

Il cannibalismo è l’apice di questa sequenza, il culmine del climax.

Proprio il dato della violenza diffusa consente di distinguere queste forme di cannibalismo pubblico dall’antropofagia di sussistenza e da quella a sfondo religioso.

Anche il cannibalismo politico ricostruito dal Luca Addante ha tuttavia una sua ritualità dovuta a due fattori.

I sanfedisti entrano a Napoli

Il primo, più esteriore, è dato dal ripetersi ciclico dei pasti cannibalici in occasione delle crisi.

Il secondo fattore, più caratterizzante, è dovuto alla rottura del massimo tabù della cultura occidentale, assieme all’incesto: l’antropofagia, appunto. Che riemerge come uno strato profondo, rimosso ma mai estirpato, della cultura popolare.

Nell’abisso del tabù

L’analisi di Addante su questo punto è aggressiva e impietosa: il cannibalismo, a suo giudizio, proverebbe l’esistenza di una cultura popolare autonoma, cioè non influenzata dai ceti colti.

È doveroso chiarire a fondo questo concetto, perché è l’elemento di forza del libro.

Le truppe francesi entrano a Napoli

È vero, per usare le parole dell’autore, che il cannibalismo è un «gigantesco rimosso» nella cultura occidentale.

Inoltre, spiega ancora Addante, è difficile, specie alla luce di importanti studi recenti, distinguere una cultura popolare genuina, cioè non influenzata dai ceti dominanti.

L’esempio che al riguardo calza a pennello è proprio quello delle esecuzioni capitali dell’Ancien règime, con cui il potere pubblico affermava la sua forza: spesso crudeli ed efferati, i supplizi raggiungevano in alcune occasioni (nei casi di lesa maestà o di regicidio) una macabra spettacolarità.

Come, per restare a Napoli, nel caso dell’esecuzione di Tomaso D’Amato, reo di lesa maestà, avvenuta nella piazza del Carmine nel 1794: il malcapitato fu smembrato e poi arso a pezzi davanti alla folla, che si accalcò così tanto per assistere allo spettacolo da provocare un incidente mortale.

In sintesi, sarebbe difficile negare che queste manifestazioni del potere non abbiano stimolato una certa ferocia nelle rappresaglie popolari: spettacolari le esecuzioni, spettacolari, a loro volta, le rappresaglie dei popolani.

Tutto in perfetta circolarità, tranne, appunto, per il cannibalismo, pratica rimossa e avversata dalle élites europee, religiose (ovviamente) e laiche.

Se le cose stanno così, l’antropofagia è un residuo di questa rimozione, che riemerge nelle rotture degli ordinamenti civili.

Il rito perverso

Cosa fa la differenza tra i pasti cannibalici pubblici e quelli individuali tipici dei maniaci alla Hannibal Lechter?

In maniera approssimativa, si può ragionare sull’ipotesi, già accennata, della ritualità.

Hannibal Lechter, il cannibale più celebre del cinema

Detto in parole povere (ma anche grossolane e non definitive), il popolo durante le grandi crisi politiche occupa il vuoto lasciato dal potere sovrano che non funziona più con modalità collettive proprie, in cui allo scimmiottamento del potere pubblico (in questo caso, le esecuzioni spettacolari) si sommano le particolarità della cultura popolare (il cannibalismo, appunto).

È questo il filo conduttore che lega tutti i pasti cannibalici esaminati nel libro. E questo filo conduttore lega la jacquerie napoletana al successivo brigantaggio pre e postunitario, in cui pure si verificarono altri casi raccapriccianti di antropofagia.

L’inconscio collettivo sa essere più forte di tutte le imposizioni della civilizzazione. E, soprattutto, delle ipocrisie.

Già: l’accusa di cannibalismo rivolta ai popoli non europei è stata a lungo un alibi ideologico del colonialismo occidentale. Un dito puntato sugli altri, che potevano essere invasi, snaturati e sterminati in nome della nostra civiltà a prescindere dal fatto che gli antropofagi si annidavano anche tra noi, nella Francia della Rivoluzione o nella Napoli illuminista del XVIII secolo.

Il rimedio e il pericolo

Il rimedio, secondo Addante è chiaro: più civilizzazione, per ricacciare indietro i residui pericolosi delle culture originarie.

Un rito cannibalico

Più civilizzazione, quindi più istruzione. Quella che mancava nel Sud preunitario, dove l’analfabetismo toccava percentuali record.

E attenzione: la civiltà è il classico velo di cipolla, facile da infrangere, come dimostrano le atrocità verificatesi nella ex Jugoslavia o nella Libia alla caduta di Gheddafi.

Un velo delicato da tutelare. Altrimenti, resta la legge di natura più brada. E resta solo la possibilità di augurare ai più feroci un raccapricciato buon appetito, con la speranza che certe tavole siano imbandite il più lontano possibile da noi.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

Comments

There are 8 comments for this article
  1. Avete tanto parlato la crudeltà dei Borbone sui sostenitori della Repubblica, ma ignorate dal fatto che la motivazione della sollevazione del popolo napolitano fu dovuta agli atteggiamenti e alla propaganda del terrore (giacobinismo) dei francesi occupanti e dei signori giacobini che determinarono conseguenze negative nei suoi confronti, alimentando più insofferenza al popolo stesso che educazione del popolo alle idee politiche dei “patrioti”. In risposta questi liberatori senza coscienza usarono le repressioni e i massacri, come durante l’ingresso di Napoli da parte delle truppe d’invasione con la cifra di 60.000 popolani morti negli scontri. Perché non provate a pensare quante bugie hanno nascosto questi “martiri della libertà”? e quali furono le loro intenzioni? Trovare la verità sarà sicuramente un’impresa ma non può essere per voi una fatica cercarla sui documenti nascosti dallo Stato razzista.

    • Egregio Russo,
      Al solito, mi scuso per il ritardo nella risposta.
      Mi permetta di farLe notare una cosa, che forse nella Sua foga di troll non ha colto: l’articolo che commenta (forse senza neanche averlo letto), parla d’altro, ovvero dei casi di cannibalismo quasi “rituale” verificatisi a Napoli dopo la riconquista borbonica (e segnalati con orrore anche da esponenti filo-borbonici).
      Questi casi fanno parte di una casistica, scusi il bisticcio, più ampia, verificatasi in più circostanze.
      Che c’entrano le sue osservazioni?
      Cordialmente,
      Saverio Paletta

  2. I lazzari erano Tirolesi? l’illustrazione con la didascalia “Lazzari nelle vie di Napoli” è invece il quadro di Franz Defregger (1835–1921) dal titolo: Heimkehrender Tiroler Landsturm im Krieg von 1809 (La milizia territoriale tirolese ritorna dalla guerra del 1809).

  3. “L’analisi di Addante su questo punto è aggressiva e impietosa: il cannibalismo, a suo giudizio, proverebbe l’esistenza di una cultura popolare autonoma, cioè non influenzata dai ceti colti”. Se questa è l’elemento di forza del libro, che infatti cita innumerevoli episodi di cannibalismo avvenuti in tempi e luoghi distanti dal 1799 a Napoli, il titolo “I cannibali dei Borbone” è il classico “acchiappaconsensi”. Infatti il cardinal Ruffo, al comando dei sanfedisti, cercò di moderare questi eccessi. Come del resto è ampiamente riportato nel libro stesso. Ma è il titolo quel che conta, chi leggerà in fondo una recensione così lunga (e ben scritta) ?

    • Egregio Pede,
      Innanzitutto grazie per l’attenzione.
      Avendo letto il libro (cosa che faccio sempre quando recensisco), posso dire che il titolo è azzeccato: le vicende di Napoli sono utilizzate dall’autore come case study specifico per affrontare il cannibalismo.
      Per il resto, non mi preoccupo della lunghezza di ciò che scrivo: il pubblico a cui mi rivolgo non ha paura di leggere.
      Un cordiale saluto,
      Saverio Paletta

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