Il fantastico regno delle Due Sicilie e le balle dei neoborb
Lo scrittore calabrese Pino Ippolito Armino demolisce nel suo ultimo libro il revisionismo antirisorgimentale. Tuttavia, il suo volume soffre di una visione ideologica parziale e un po’ vecchia che danneggia il risultato
Un altro libro contro il cosiddetto revisionismo antirisorgimentale? Sì. E, a dirla tutta, ce n’era bisogno, perché la tenacia con cui le fake neoborboniche resistono in alcune nicchie editoriali, continuano a girare in rete e inquinano l’opinione pubblica (non solo) meridionale, richiede un controcanto efficace.
Un controcanto totale
In questo caso, prova a fornirlo Il fantastico regno delle Due Sicilie. Breve antologia delle imposture neoborboniche (Lateza, Bari 2021) in cui Pino Ippolito Armino amplia il discorso del suo precedente Cinque ragioni per stare alla larga da Pino Aprile (Pellegrini, Cosenza 2019), e fa il tagliando al bufalificio terronista.
Non togliamo nulla all’autore – anzi, gli facciamo un complimento in più – se diciamo che un grosso merito di questo volume sta nel fatto che quello di Armino è il secondo volume dedicato da un marchio prestigioso alla ricostruzione complessiva dell’antirisorgimento e segue di pochi mesi il notevole Italiani per Forza di Dino Messina (Solferino, Milano 2021).
Prima, infatti, sono apparse essenzialmente ricostruzioni parziali dedicate da studiosi di primo livello ad argomenti specifici (è il caso di Alessandro Barbero sula vicenda di Fenestrelle e di Maria Teresa Milicia su Lombroso). Ora, invece, si tenta la visione d’insieme.
Concentriamoci sul debunking di Armino.Lo scrittore calabrese non è a suo agio con gli anglicismi: usa appena l’inevitabile fake, a cui preferisce la toscaneggiante fola, che evoca suggestioni letterarie un po’ vintage (noi, senza mezzi termini, preferiamo parlare di cazzate…). A ogni buon conto, non si può che essere d’accordo con lui quando scrive: «Alcune fake hanno un’eccezionale capacità di presa perché soddisfano un bisogno reale, quello di una spiegazione semplice a problemi complessi» (pag. VIII).
Il sottinteso è chiaro: il revisionismo antirisorgimentale è per alcune frange dell’opinione meridionale (e, ripetiamo, non solo) come il complotto demo-pluto-masson-giudaico per certi difensori dell’Ancien Règime, prima, e per i totalitarismi nazista e stalinista poi.
Infatti, prosegue Armino:
«Le fole neoborboniche, lamentando la scomparsa di un regno mai esistito, il fantastico regno delle Due Sicilie, assolvono magnificamente a questo compito [cioè fornire spiegazioni semplici a problemi complessi, Ndr]. Il racconto che del Risorgimento fanno i sedicenti “neo-meridionalisti” è una straordinaria collezione di fake che, pure, trova una sempre maggiore penetrazione» [pag. VIII].
Il parallelo sottinteso da Armino con la propaganda totalitaria trova un altro punto d’appoggio non proprio secondario nel malessere attuale del Sud:
«Nel Mezzogiorno d’Italia ogni cittadino sperimenta da anni la distanza crescente fra la ricchezza, le opportunità di lavoro, l’efficienza dei servizi offerti nella sua regione e ciò che di cui dispongono i suoi connazionali del Centro-Nord, e vuole farsene una ragione» [pag. VIII].
Ce n’è quanto basta per evocare una Weimar su scala bonsai. Infatti, chiosa l’autore: «La spiegazione più semplice e più comoda è da sempre quella che attribuisce ogni nostra insufficienza alla responsabilità di un nemico esterno, cattivo quanto basta per addebitargli tutto ciò che siamo e non vorremmo essere» [pag. VIII].
Sembra l’applicazione in chiave meridionale di quel che scriveva Umberto Eco nel mitico Il cimitero di Praga.
Aprile e non solo, il debunking di Armino
Tiriamo le somme: il Sud è in arretramento da circa vent’anni, il malessere avanza e la narrazione neoborbonica (riferita sia agli esponenti del Movimento neoborbonico sia agli autori che ne ripetono e amplificano le tesi) soddisfa la ricerca del colpevole, come se il colpevole fosse uno solo.
Quindi, smantellare questa narrazione diventa quasi un dovere morale, visto che, tra i vari pericoli, essa ha l’effetto perverso di deresponsabilizzare l’attuale classe dirigente meridionale, perché carica sulle spalle della storia le responsabilità della politica.
Se dovere è (e chi scrive pensa che lo sia), c’è da dire che Armino lo ha assolto come si deve, tranne per una grossa sbavatura di cui si dirà più sotto.
Lo scrittore calabrese passa al setaccio nei dieci capitoli del suo pamphlet tutti gli argomenti chiave dei neoborb.
Con grande efficacia, Armino smantella un bel po’ delle cazzate che da oltre un decennio impazzano nel web e affiorano di tanto in tanto nei media e nell’editoria: la presunta ricchezza e il presunto sviluppo industriale del Regno delle Due Sicilie, che sarebbero stati distrutti dall’invasione piemontese; il presunto complotto ordito dalla Massoneria britannica contro il prospero regno borbonico, che avrebbe avuto il solo torto di essere rimasto legato alla Chiesa; la presunta alfabetizzazione degli abitanti del reame, che sarebbe stata letteralmente azzerata delle politiche postunitarie.
Ancora: Armino demolisce con precisione chirurgica altre balle: tra queste, il presunto genocidio dei meridionali (di noi meridionali) che sarebbe stato operato sotto la copertura della repressione del brigantaggio; la distruzione del tesoro del Banco di Napoli; la devastazione sistematica dell’economia, che avrebbe costretto molti ex regnicoli dei Borbone a emigrare.
Di più: a differenza di altri autori (e questo è davvero un grosso merito) Armino non va di fioretto, ma impugna la sciabola, polemizza in maniera aperta e fa i nomi. Senz’altro, quelli dei capofila, come il solito Pino Aprile, di cui nelle pagine de Il fantastico regno delle Due Sicilie sono demoliti il best seller Terroni e il suo sequel Carnefici. Oppure come Antonio Ciano, il precursore del revisionismo 2.0, e Lorenzo Del Boca, ex presidente dell’Ordine dei giornalisti, che precedette Aprile coi suoi volumi anti Savoia. Per tacere dei fiancheggiatori, come Lino Patruno, ex direttore della Gazzetta del Mezzogiorno.
Lo scrittore calabrese non risparmia critiche ai mostri sacri dei seguaci del revisionismo antirisorgimentale: nel suo affilato tritacarne finiscono Carlo Alianello e, seppure con qualche timidezza, Nicola Zitara. Non mancano le stoccate alla parte meno insidiosa di questo filone perché più esplicita a livello politico: ci si riferisce alla produzione dell’intellettuale filoleghista Gilberto Oneto.
Una buccia di banana
Fin qui, i non pochi aspetti positivi, che consentono a Il fantastico regno delle Due Sicilie di alzare non poco il livello di Fact Checking, la collana editoriale di cui fa parte, dedicata per il resto a una banale vulgata antifa, gestita alla meno peggio dal curatore Carlo Greppi e dai suoi compagni di merende.
I limiti del lavoro di Armino derivano dall’impostazione ideologica decisamente antiquata. Ne sono un vistosissimo esempio le affermazioni contenute nel quinto capitolo del pamphlet, intitolato I “briganti”? Come i partigiani.
L’autore, in questo caso, parte da un intento lodevole: confutare il parallelo ideato da Ciano e ripreso da Aprile tra brigantaggio e Resistenza. Purtroppo, sbaglia direzione e finisce col fare ciò di cui accusa i revisionisti: prova a fornire una risposta semplicistica a problemi complessi.
Scrive, al riguardo, Armino:
«Che analogie si possono stabilire fra Risorgimento e Resistenza? Entrambe furono guerre civili, entrambe divisero il paese (Le Due Sicilie nel primo caso, l’Italia intera nel secondo), entrambe trascinarono in guerra fasce più o meno ampie della popolazione. Alle avanguardie della rivoluzione si opposero i fautori della conservazione, ma chi fossero i conservatori e chi i rivoluzionari, nell’uno come nell’altro caso, dovrebbe essere evidente. Se proprio si vuole una corrispondenza, gli uomini di Salò, che si battevano per conservare il fascismo, fanno il paio con chi voleva mantenere in vita la monarchia più reazionaria d’Europa, mentre i partigiani che combattevano il regime fascista e aspiravano a un nuovo ordine libero e democratico sono l’equivalente dei Garibaldini che volevano abbattere la monarchia borbonica in favore di un regime liberale e costituzionale» (pagg. 60-61)
Difficile trovare tante inesattezze in poche righe.
La prima: identificare il fenomeno delle guerre partigiane con la Resistenza non è solo un errore, ma un arbitrio ispirato a una certa propaganda vintage.
Nessuno vuol difendere Ciano e Aprile (Dio ci scansi!), tuttavia, per quel che riguarda il loro parallelo tra briganti e partigiani si può dire una cosa: come tutti gli orologi rotti, anche i due revisionisti sono riusciti ad azzeccare l’ora, seppure una sola volta. Infatti, il fenomeno partigiano non nasce con la nostra Resistenza, ma ha una tradizione plurisecolare, che si può far risalire alla lotta antinapoleonica spagnola, condotta da irregolari, e alla marcia dei sanfedisti del cardinale Ruffo. Già: se per partigiano s’intende combattente irregolare (come fece a suo tempo Carl Schmitt nella sua Teoria del partigiano), possono essere considerati partigiani anche i lealisti della Vandea e i fedelissimi dello zar. Quindi anche i protagonisti del Grande Brigantaggio.
Detto altrimenti: basta che i gruppi armati abbiano un minimo di organizzazione (per esempio, la struttura in bande, comune a briganti e partigiani) e un orientamento politico – non importa se sincero o opportunistico: è sufficiente che ci sia – per poter essere considerati partigiani.
Veniamo al problema dei valori. Nessuno vuol difendere l’esperienza di Salò, che ebbe aspetti tragici e persino criminali. Ma è doveroso specificare che una cosa fu il comportamento pratico nel quadro di una guerra civile, un’altra la narrazione politica e l’autopercezione del cosiddetto fascismo repubblicano, che si richiamò ai valori risorgimentali (Mazzini e Garibaldi furono anche icone della Rsi) ed ebbe, almeno a livello propagandistico, suggestioni rivoluzionarie. La Repubblica Sociale si raccontò come un fenomeno politico rivoluzionario e di sinistra. Viceversa, alla Resistenza parteciparono anche soggetti e gruppi di destra, che nel dopoguerra presero altre strade (a volte contigue al neofascismo) per sottrarsi all’egemonia dei gruppi comunisti.
Con questo, non vogliamo riabilitare Salò e demolire la Resistenza. Più semplicemente, proviamo a spiegare che la guerra civile ’43-’45 fu un fenomeno complesso in tutta la sua globalità: fu complessa l’esperienza repubblichina, lo fu quella partigiana. Non si può semplificare quando (e perché) fa comodo.
Un gauchisme decrepito
Il problema è che Armino, come tanti autori influenzati dallo storytelling antifa, cerca di accreditare la vecchia storia (a nostro giudizio anch’essa fola) della Resistenza come prosecuzione e inveramento del Risorgimento, fino ad allora tradito. Non a caso, lo scrittore calabrese infila nello stesso calderone autori diversi e, spesso incompatibili tra loro, (Gramsci, Gobetti, Dorso e Salvemini) per ribadire che i meridionalisti criticarono sì le modalità dell’unificazione nazionale ma non misero mai in discussione l’Unità d’Italia. Intendiamoci: è vero.
Tuttavia, è una verità minima e parziale, visto che, proprio sulla base di questi autori fu elaborata la tesi del Risorgimento come rivoluzione mancata e, successivamente, prese piede quella della Resistenza tradita.
Queste narrazioni, in realtà, hanno avuto un solo risultato: sostituire la Resistenza al Risorgimento come mito fondativo dell’Unità nazionale. Il tracollo della Prima Repubblica e del vecchio arco costituzionale ha messo in discussione la Resistenza e, ridimensionata quest’ultima, è rimasto il vuoto, perché nel frattempo era stato ridimensionato anche il Risorgimento.
In questo vuoto si sono radicati la Lega bossiana prima e il neoborbonismo poi. E di questo vuoto è responsabile in buona parte certa sinistra.
A cui, purtroppo, si richiama Armino, pronto a bacchettare gli aspetti reazionari del revisionismo antirisorgimentale ma incline a sorvolare quelli di certa sinistra, tutt’altro che progressista.
In realtà, come ha dimostrato di recente la storica Silvia Sonetti, il peso di certo gramscismo (interpretato a volte in maniera tutt’altro che impropria) nel neoborbonismo è equivalente a quello delle suggestioni reazionarie…
Questi limiti azzoppano non poco Il fantastico regno delle Due Sicilie, che nasconde tra le sue pagine un’insidia non leggera: la propaganda camuffata da divulgazione.
Si fosse limitato al semplice (è il caso di dire) fact checking, Armino avrebbe consegnato ai lettori un piccolo gioiello di chiarezza, concisione e onestà intellettuale.
Invece, a dispetto di un impianto narrativo valido, il suo ultimo volume è da prendere in parte con le pinze.
Da leggere, ma facendo bene attenzione a non cadere in certi tranelli.
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Non condivido affatto le critiche finali: l’autore ha testualmente utilizzato la preposizione condizionale SE, quindi SE SI VUOLE fare un paragone tra Risorgimento e Resistenza, perché è quello che fanno proprio esattamente i revisionisti borbonici, che per lo meno si cambi prospettiva: i repubbli-chini possono strumentalizzare chi vogliono, ma di certo non è questo a farne dei socialisti Garibaldini, anche tra i partigiani c’erano le Brigate Garibaldine, mica solo i monarchici della Maiella, e quindi?
Sta di FATTO fattuale che i repubbli-chini erano per mantenere una dittatura assolutista, corrotta e mafiosa non diversamente da quella borbonica, senza distinzioni, mentre i Volontari Partigiani a pari dei Volontari Risorgimentali lottavano per la Libertà e l’emancipazione dei popoli, ugualmente divisi nel 1945 come nel 1860 tra Repubblicani, monarchici, anarchici…
Non tutti i Partigiani erano comunisti ma tutti i comunisti erano Partigiani, lo stesso non si può dire dei i repubbli-chini che erano tutti nazifasctisti, nessun socialista, nemmeno per sbaglio.
Egregio Galizia,
Se da vivo scrivessi su vivi quel che da vivo Lei scrive sui morti (gli stati maggiori di Salò e la Gnr più la Decima) riuscirei a battere un record, ottenuto, dopo Guarerchi da Sallusti: la galera per diffamazione.
Mi ascolti: lasci stare l’Ideologia e studi un po’. Non Le farà male.
Un affettuoso Saluto
Saverio Paletta
signor paletta perchè non scrive direttamente in inglese cosi si capisce solo lei e i suoi quattro amici letterati?
Egregio Ponzo,
Scrivo come mi pare.
Cordialmente,
Saverio Paletta
Io non capisco per quale motivo gli intellettuali lombrosiani si divertono ad oscurare la verità? Però una risposta ovviamente c’è: per far dispetto ai coloro che si battono a realizzare i fatti realistici, se lo sono di fatto. Con il passare degli anni e dei giorni i soliti e inutili lombrosiani (in particolare Armino, senza alcuna offesa) sono sempre pronti a calunniare le opere realistiche dei meridionalisti quando gli è il momento di farlo. Libertà d’espressione? Magari, visto che la censura spunta improvvisamente da un momento all’altro e questo gesto significa non avere il diritto alla verità che, per me, è un principio inviolabile e innegabile, nel senso non si può negarla se si attiene alla realtà. Tutto quello che dicono i meridionalisti corrisponde ai fatti, impegnandosi a riscrivere tutto ciò che è stato oscurato dalla storiografia ufficiale. L’equilibrio economico dello Stato delle Due Sicilie (443 milioni d’oro), la convivenza tra il Re e il popolo (il cui sentimento era presente e diffuso all’interno del Meridione), la libertà di religione, la parità di sesso (mediante lo Statuto di San Leucio del 1789), l’abolizione della schiavitù sui neri del 1839, le costruzioni dei porti marittimi, le occupazioni lavorative nelle strutture produttive create per volontà dei Borbone (San Leucio, Pietrarsa, Morgiana, Castellammare di Stabia), l’interventismo del sovrano riformatore sulle questioni economiche e climatiche (terremoti), la concessione dell’ampia autonomia alla Sicilia e altri fatti avvenuti nel Meridione sono realmente dati di fatto. Se qualche lombrosiano cerca di raccontare la solita favoletta segregazionista, cioè basato sul fatto che il Nord sia laborioso e il Sud sia criminale, allora avrà problemi sia mentali sia culturali. NON BISOGNA MAI, DICO MAI, NEGARE LA REALTA’.
In quanto meridionalista e indipendentista napolitano, Il Meridione ha avuto sia momenti di difficoltà sia quelli di prosperità, offerta non solo dai Borbone ma anche dagli antenati nostri.
Egregio Russo,
Magari tutti i troll fossero come Lei: è davvero raro provare tanta tenerezza nel decifrare i pensieri di qualcuno (nel Suo caso, mi perdoni, l’espressione “leggere” è troppo poco).
Detto questo: non esistono intellettuali “lombrosiani” né forme più o meno violente e artate di censura.
Anzi: mi pare che lo spazio mediatico concesso a certe tesi, che mi pare Lei condivida in maniera acritica, sia stato persino troppo (e comunque sproporzionato rispetto alla loro incidenza reale).
Detto questo, mi permetta una domanda: si sente davvero schiavo di qualcuno?
Cordialmente,
Saverio Paletta
Ringrazio Saverio Paletta per la recensione e per l’ospitalità a questa replica alle sue critiche. Naturalmente legittime ma nient’affatto fondate. Paletta incorre, infatti, in due errori gravi, quelli da segnare con matita blu. Primo. Alla fine dell’agosto 1860 a Rogliano, ospite di Donato Morelli, il generale Garibaldi è acclamato da quegli stessi contadini silani che più tardi, nella primavera del ’61, diverranno briganti. Non è, dunque, l’orientamento politico – proprio la condizione richiamata da Paletta per derivarne il carattere partigiano – a muoverli alla lotta armata quanto le delusioni per le promesse non mantenute e l’aggravarsi delle loro già disastrose condizioni di vita. Prova ulteriore è l’insuccesso della spedizione del generale carlista José Borges, inviato in Calabria dai circoli lealisti di Marsiglia e sbarcato nel settembre del ’61 senza riuscire minimamente nell’obiettivo di provocare la rivolta popolare. Il brigantaggio è stato in larga misura una jacquerie, una lotta cieca e furibonda, priva di orientamenti politici e di riferimenti ideali. Uso la parola jacquerie perché non trovo l’equivalente in italiano; mentre trovo del tutto ingiustificato l’uso di termini come debunking in luogo di smentire, smascherare, sfatare e altro ancora. Secondo errore grave è dare un carattere al fascismo repubblicano dimenticando o fingendo di dimenticare che la RSI non è stata un’invenzione di Mussolini che sarebbe rimasto volentieri monarchico se Vittorio Emanuele non lo avesse, infine, allontanato dal ministero. Discettare della natura di uno stato fantoccio, voluto da Hitler e controllato dai nazisti, è come parlare della libertà di un uomo in prigione.
Infine vorrei replicare alle accuse mosse alla collana Fact Checking di cui fa parte il mio lavoro ma sono così vaghe (“banale vulgata antifa”) da non prestarsi ad alcun commento se non quello dell’eccessiva disinvoltura con cui Paletta trancia giudizi anche stupidamente volgari (“compagni di merende”) senza darne motivazione.
Caro Pino,
grazie innanzitutto per l’attenzione dedicata alla recensione del tuo libro.
Vengo al dunque e parto dalla critica più leggera: uso gli anglicismi perché fanno parte del linguaggio (gergo, se preferisci) giornalistico. Usare “debunking” al posto di “smentire”, “smascherare” ecc. non è un vezzo ma una consuetudine linguistica: quest’espressione si riferisce a una specialità nata tra i blogger e che ha preso piede nel giornalismo. Inoltre, il giornalismo, quello vero, è una disciplina di matrice anglosassone. Pertanto, un giornalista che non usa qualche parolina inglese è come un giurista che rifugge il latino (e, aggiungo, il gergo giuridico britannico è più pieno di latinismi del nostro…).
Vengo alla ciccia dei tuoi rilievi che, se ho ben capito, si basano sui concetti di Resistenza e di lotta partigiana. La Resistenza (anzi, “le” Resistenze, perché ce ne furono tante nell’Europa di metà anni ’40) è un fenomeno storico concreto e circoscritto, le lotte partigiane sono, invece, una modalità particolare del fenomeno bellico, presente in eventi storici assai diversi l’uno dall’altro.
La lista è piuttosto lunga: si parla della guerriglia spagnola antinapoleonica (e non a caso il termine ha una matrice spagnola, guerrilla), delle guerre carliste, dei Viet Cong, dei Khmer e via discorrendo.
In estrema sintesi: è vero che la nostra Resistenza fu combattuta da partigiani ma non è vero, come tenta di accreditare in maniera surrettizia la nuova vulgata antifa, che partigiani furono solo i “resistenti” antinazisti.
Invece, secondo una definizione accreditata nel Diritto internazionale, il partigiano è un combattente irregolare, cioè non inquadrato in una struttura militare. Ciò a prescindere dalla sua lealtà o fedeltà politica, che può essere progressista o reazionaria, opportunistica o insincera ma resta un dato di cui non si può fare a meno.
Se lo schema è questo, possono benissimo essere considerati partigiani anche i sanfedisti di Ruffo e le bande brigantesche. Al riguardo, ricordiamoci che i capi carismatici del “grande brigantaggio” agirono in nome di Francesco II e usarono i vessilli borbonici. Un mascheramento ipocrita della jacquerie? Senz’altro, ma anche un dato politico di cui uno storico o un analista deve tener conto, perché proprio la politicizzazione fa la differenza tra il partigiano (e il brigante) e il semplice bandito.
D’altronde, il fatto che i briganti si richiamassero alla Corte borbonica in esilio a Roma la dice lunga: avevano bisogno di una legittimazione, non ovviamente agli occhi delle autorità italiane (che li trattarono come banditi) ma dei potenziali alleati di ciò che restava delle Due Sicilie. Che a questa forma non corrispondesse una sostanza è vero e la vicenda di Borjes lo ribadisce. Tuttavia, le forme hanno la loro importanza.
Ciò vale anche per la Rsi. Fu senz’altro uno Stato fantoccio, che si reggeva sulla presenza delle truppe di Kesserling. Ma fu comunque uno Stato, con tanto di riconoscimento internazionale. Tutto ciò per dire che l’esercito e la polizia repubblichine furono comunque corpi regolari di uno Stato formalmente sovrano.
Se le forme contano, il tuo paragone tra repubblichini e briganti non tiene: i primi, a prescindere dai loro crimini, furono soldati, i secondi degli irregolari.
Anche le ideologie e le propagande sono “forme” di cui gli storici e gli analisti non possono fare a meno: sono i modi in cui un soggetto politico percepisce sé stesso e si racconta agli altri in un determinato momento storico.
Se queste “forme” contano, allora è innegabile che la Rsi si percepì come un fenomeno rivoluzionario “di sinistra” e cercò di raccontarsi in questo modo. Al riguardo, converrai con me che tra il “fascismo di sinistra” e il legittimismo corra un abisso, o no?
Ne manca una: la mia considerazione “irriverente” verso la collana Fact Checking di Laterza. Ti rispondo subito: vedere il tuo volume a fianco di una boiata come “E allora le foibe” di Eric Gobetti non è il massimo. La mia allergia ai luoghi comuni di certo antifascismo vecchio, che sembra fatto apposta per legittimare le attuali destre radicali, non c’entra.
Io sono solo un giornalista che cerca di fare alla meno peggio il suo mestiere. Per me conta una sola cosa: i concetti e i fatti raccontati sono esatti e veri? Se sì, nessun problema, altrimenti è solo propaganda, al massimo letteratura.
Una sola preghiera: non evocare “penne blu”, perché in questo caso mi risvegli un’allergia peggiore. Quella che può avere il figlio di un professore di latino, che con questo gergo “professorale” ha familiarizzato fin dalla più tenera età.
Non ne posso davvero più.
Un caro saluto,
Saverio Paletta