La Conferenza degli intrighi, nasce la questione balcanica
La Conferenza di pace di Parigi fu uno dei più importanti avvenimenti diplomatici di tutti i tempi. Lì i vincitori della Grande Guerra si spartirono le spoglie degli ex Imperi sconfitti e cercarono di ridisegnare l’Europa. Ma molte cose andarono storte, a partire dall’emarginazione dell’Italia. Le tappe salienti di un complesso balletto diplomatico, da cui ebbero origine le tensioni che ancora oggi scuotono le rive orientali dell’Adriatico
La Conferenza di pace di Parigi, che durò dal 18 gennaio 1919 al 21 gennaio 1920, fu considerata all’epoca uno dei maggiori avvenimenti diplomatici di tutti i tempi.
Al riguardo, parlano innanzitutto i numeri: ventisette partecipanti, tra cui diversi Paesi latino-americani ed asiatici, come Cina e Giappone i Dominion e l’India, ancora parte dell’Impero britannico.
L’effettivo potere decisionale restò in mano ai quattro grandi: Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, George Clemanceau, primo ministro francese e presidente della conferenza di pace, David Lloyd George, primo ministro della Gran Bretagna e Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio italiano.
A supporto, i rispettivi ministri degli Esteri: Robert Lansing, Stephen Pichon, Arthur James Balfour e Sidney Sonnino.
Ricostruiamo i tratti salienti della Conferenza sulla base di tre testi classici: Storia delle relazioni internazionali, 1918-1922 di Ennio Di Nolfo (Laterza, Bari ultima edizione 2015), Requiem per un Impero defunto di François Fejto (Mondadori, Milano 1991), Dissoluzione dell’Austria-Ungheria di Leo Valiani (Il Saggiatore, Roma 1966).
I punti chiave delle trattativa
La Conferenza fu gestita interamente dai vincitori con modalità a dir poco particolari. Innanzitutto, non vi parteciparono gli sconfitti e la Russia bolscevica.
Quest’ultimo paese era entrato in guerra al fianco dell’Intesa sotto il regime degli zar, ma era uscito dal conflitto, con la pace di Brest Litovsk nel marzo 1918.
Di fatto, l’Unione Sovietica era uno Stato nuovo e una potenza in ascesa, di cui molti Paesi temevano il contagio rivoluzionario.
Gli obiettivi principali dell’incontro di Parigi furono: ricostruire il sistema politico-istituzionale europeo, secondo il principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli e il principio di nazionalità, che prendeva il posto degli ormai defunti Imperi multietnici e arrivare alla stesura dei trattati di pace con i vinti, che furono firmati tutti durante lo svolgimento della Conferenza.
Così fu per il trattato di Versailles (28 giugno 1919), con la Germania; per il trattato di Saint Germain (10 settembre 1919), con l’Austria; per il trattato di Neuilly (27 novembre 1919), con la Bulgaria; per il trattato di Trianot, (4 giugno 1920), con l’Ungheria; per il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) con la Sublime Porta.
Centrali, all’interno della conferenza, furono il trattamento da riservare alla Germania, le questioni coloniali, e le rivendicazioni territoriali italiane che destarono un interesse crescente.
Suscitarono grandi aspettative internazionali anche i 14 punti di Wilson, che rispecchiavano la visione liberaldemocratica dei vincitori. Una lettura innovativa dei rapporti internazionali, una diplomazia della pace basata sulla trasparenza, importata dal Nuovo Mondo, che si contrapponeva alla pratica vetusta degli accordi segreti, imposti a popoli ignari, che sembravano ormai incompatibili con le dinamiche delle società di massa.
Si parlò anche della Società delle Nazioni, effettivamente istituita a Ginevra, nell’aprile 1919, che si proponeva di depotenziare le crisi internazionali, favorire la pacifica convivenza e sviluppare la cooperazione economico-sociale.
Problemi diplomatici-Ambiguità Usa
Tuttavia, la Sdn fu percepita come uno strumento in mano ai vincitori, come organizzazione non inclusiva, delegittimata anche dal fatto che gli Stati Uniti non vi entrarono.
Il progetto wilsoniano fu sconfessato, infatti, dal Senato americano, che rifiutò il consenso a partecipare alla Società delle Nazioni. Inoltre, l’abolizione della diplomazia segreta risultò di difficile attuazione pratica.
Stesso discorso per i principi di nazionalità e autodeterminazione, che innescarono nuovi irredentismi in Europa, soprattutto a est, e nelle zone danubiano-balcaniche, tutte aree di intensa mescolanza etnica.
Per non parlare della scarsa attrattiva che queste idealità ebbero sulle potenze coloniali come Francia e Gran Bretagna.
Ma i 14 punti wilsoniani previdero anche un pragmatico sostegno al libero commercio di materie prime e prodotti finiti, che doveva permettere l’esportazione dell’enorme surplus statunitense. Gli Usa, soprattutto, insistettero sulla libertà dei mari, che era stata minacciata dall’indiscriminata guerra sottomarina tedesca, condotta anche contro navi mercantili di Paesi neutrali (e questo fu il motivo che indusse gli Usa a entrare in conflitto nell’aprile del 1917).
Le rivendicazioni italiane-problemi con gli alleati
Durante la Conferenza di Parigi, le rivendicazioni territoriali italiane assunsero grande importanza. Infatti, la situazione postbellica rischiava di accrescere l’influenza italiana in tutta l’area balcanico-danubiana.
La sconfitta tedesca, la rivoluzione bolscevica e il crollo repentino degli Imperi austro-ungarico ed ottomano, crearono un vuoto di potere nell’Europa sud-orientale, attirarono l’attenzione (e gli appetiti) delle potenze vincitrici, e generarono reciproche rivalità. Francia e Gran Bretagna, anche se non apertamente, iniziarono a considerare troppo sbilanciate a favore dell’Italia le concessione fatte con il Patto di Londra, nel Mediterraneo e nell’Adriatico.
La nuova situazione internazionale fece riflettere non poco anche Balfour, sulla penisola Anatolica e sul continente africano. Per questo il ministro degli Esteri britannico risultò più energico nella condotta di guerra e meno idealista del suo predecessore, Edward Gray, che era stato tra i firmatari del Patto di Londra.
Emersero inoltre incomprensioni nei rapporti italo-francesi sull’assetto dell’area balcanico-danubiana, e sul presunto eccessivo sostegno italiano a bulgari, romeni ed ungheresi.
Soprattutto, i francesi, che temevano l’egemonia italiana sui traffici danubiani, iniziarono a maldigerire le mire italiane sulla Dalmazia.
L’Italia organizzò e ospitò a Roma, in Campidoglio, l’8 aprile 1918, il Congresso delle Nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria, anche in ossequio alle dichiarazioni di Wilson sull’autodeterminazione.
Parteciparono delegazioni degli ex popoli asburgici, tra cui personalità molto note: il boemo Edvard Beneš, futuro presidente della Cecoslovacchia, il croato Ante Trumbic, presidente del Comitato Jugoslavo, Henry Wickham Steed, primo redattore di politica estera del Times, Robert Williams Seton-Watson, pubblicista e storico, e l’ambasciatore statunitense a Roma, Thomas Nelson Page.
Tra le personalità italiane presenti, Luigi Albertini, Giovanni Amendola, Benito Mussolini e Gaetano Salvemini.
Leonida Bissolati fu il primo uomo politico di governo a pronunciarsi pubblicamente per lo smembramento dell’Impero asburgico. Invece le intenzioni, almeno a livello ufficiale, dei governi quello francese e inglese, risultavano altre.
L’emarginazione dell’Italia-La rottura con gli alleati
L’Italia, nonostante il suo notevole impegno bellico a favore degli alleati e dopo essere stata a lungo corteggiata, nel periodo della neutralità subì l’emarginazione degli alleati proprio in quella Conferenza di Parigi che avrebbe dovuto suggellare le sue pretese e il suo nuovo ruolo.
Infatti, le richieste territoriali italiane furono considerate eccessive. Gli Usa, in particolare, contestarono le presunte mire espansionistiche. Si innescò così la cosiddetta crisi adriatica. Già: la situazione geopolitica era mutata rispetto al Patto di Londra (in cui non era prevista la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico) e quindi l’Italia chiese durante la Conferenza di Parigi un adeguamento delle concessioni territoriali a suo favore.
Perciò la delegazione italiana chiese non solo l’applicazione integrale del Patto di Londra (Trentino e Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, porti albanesi, Dodecanneso), ma anche il porto di Fiume, città a maggioranza italiana, visto che non c’era più la necessità di garantire uno sbocco al mare all’Impero asburgico.
Febbrili trattative, in un crescendo di tensioni, sfociarono nell’aperta rottura tra l’Italia e gli altri alleati dell’Intesa.
Nell’aprile del 1919, Wilson fece un appello diretto al popolo italiano, la Dichiarazione sulla questione adriatica, in cui affermò:
«L’Italia entrò in guerra in base ad un’intesa precisa ma particolare con la Gran Bretagna e la Francia, che ora viene detto il “Patto di Londra”. D’allora in poi tutto è cambiato. Molte altre potenze, grandi e piccole, sono entrate nella lotta, senza avere conoscenza di questa intesa particolare. L’Impero Austro-Ungarico, allora nemico dell’Europa, a spese del quale doveva eseguirsi il patto di Londra, in caso di vittoria, è crollato e non esiste più. Né ciò è tutto. L’Italia e tutti i suoi associati convengono che le varie parti di quell’Impero dovranno essere costituite in Stati indipendenti ed associati in una Lega delle Nazioni […]. Dobbiamo garantire la loro libertà al pari della nostra. Esse dovranno annoverarsi tra questi Stati minori i cui interessi, da ora innanzi, dovranno essere custoditi non meno gelosamente di quelli degli Stati più potenti […]. Fiume dovrà essere l’ingresso per il commercio ed i traffici non dell’Italia ma delle terre a settentrione ed a nord est di quel porto: dell’Ungheria, della Boemia, della Romania, e degli Stati del gruppo Jugoslavo».
A seguito della dichiarazione, per protesta, la delegazione italiana, abbandonò la Conferenza.
La strategia diplomatica di Orlando, più disponibile al compromesso, e Sonnino, più massimalista, risultò forse mal congegnata, perché l’applicazione integrale del Patto di Londra era, di fatto, poco compatibile con la richiesta di Fiume, e con i concetti espressi dei 14 punti di Wilson, protagonista di grande peso specifico a Parigi. Clemanceau inoltre, poteva far pesare il costo umano subito dai francesi nel conflitto, la ragguardevole invasione tedesca e la questione sicurezza dei confini con la Germania.
L’impresa di Fiume-Conclusioni
Il 10 settembre 1919, il nuovo presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, che aveva preso il posto del dimissionario Orlando, firmò il trattato di Saint-Germain. L’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero, La Venezia Giulia, con Trieste e l’Istria, senza Fiume e la Dalmazia (ad eccezione di alcune isole e della città di Zara).
Fiume non rientrava nelle concessioni previste dal patto di Londra, la Dalmazia sì, ma Wilson, in nome del principio di nazionalità, procedette all’assegnazione alla Jugoslavia. La Dalmazia era un’area a maggioranza slava.
Il 12 settembre, d’Annunzio passò all’azione, occupò Fiume, e ne chiese l’annessione all’Italia.
Nitti e la classe politica italiana, divennero oggetto di pesanti critiche, del Vate e dell’intero irredentismo nazionalista. Lo stesso capitò gli altri tre grandi, accusati di aver «mutilato la vittoria» italiana, ritrattando le concessioni territoriali.
Il 12 novembre 1920 il trattato di Rapallo tra Italia e Jugoslavia riconobbe Fiume come città libera.
L’Italia rinunciò alla Dalmazia, conservò Zara e le isole di Lagosta, Cherso e Pelagosa. D’Annunzio si oppose al rispetto del trattato, ma le truppe italiane intervennero e sciolsero la Reggenza del Carnaro (25-26 dicembre 1920).
Al di là dell’Adriatico, il patto di Corfù, del 20 luglio 1917, fu il preludio della nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (Shs) il primo dicembre 1918.
Al riguardo, è interessante un passo dal testo di Leo Valiani;
«Le rivendicazioni italiane, di cui la pubblicazione, ad opera della stampa sovietica, del Trattato di Londra, aveva rivelato l’entità, erano giudicate eccessive dalla quasi totalità dell’opinione pubblica inglese, o perché rendevano difficile la pace con l’Austria, o perché lesive degli interessi iugoslavi, associati, dopo il patto di Corfu, con la Serbia, che con il suo eroismo s’era guadagnata molte simpatie. Significativo era, al riguardo, il mutato atteggiamento verso l’Italia delle associazioni laburiste. Alla conferenza del partito laburista, il 10 agosto del ’17, s’era approvato un memorandum, […] che fra le finalità della guerra accette al movimento operaio includeva, alla stessa stregua del ritorno dell’Alsazia Lorena alla Francia, anche le aspirazioni italiane, raccomandando solo all’Italia di accordarsi con gli altri popoli che si affacciavano sull’Adriatico».
Significativa, a proposito delle progettualità di Wilson e del suo entourage, è la testimonianza di François Fejto, in Requiem per un Impero defunto.
Secondo lo storico ungherese, il presidente statunitense, quasi fino alla fine della Grande Guerra, «riteneva irrazionale» la «balcanizzazione» dell’Europa centrale attraverso la creazione di «piccoli Stati teoricamente indipendenti, ma di fatto incapaci di prosperare economicamente e di servire da contrappeso all’espansionismo tedesco». Uno dei collaboratori del presidente degli Stati Uniti, Charles Seymour, «aveva elaborato un piano che – tenendo conto dei problemi nazionali latenti che minacciavano di far scoppiare l’Austria, prevedeva la federalizzazione della monarchia […]. L’Austria Ungheria, all’interno delle sue frontiere storiche, avrebbe dovuto essere trasformata in una federazione di sei Stati: Ungheria, Austria, Jugoslavia, Transilvania, Boemia (paesi cechi), Polonia – Rutenia. Ciascuno di questi Stati avrebbe compreso una nazione dominante e delle minoranze nazionali».
Questo però, avrebbe contrastato, secondo Fejto, con gli «impegni segreti presi dagli anglo-francesi, con la Serbia, l’Italia e la Romania, che più tardi Wilson affermerà di aver ignorato». Secondo l’autore, Wilson che «riconosceva il comitato polacco, negava le aspirazioni di indipendenza, se non di unificazione, manifestate dai comitati di esuli cechi e Jugoslavi». Fejto, inoltre, ha dato un giudizio tranchant sui padri della Cecoslovacchia:
«Brillante filosofo, Masaryk mascherava con abilità consumata dietro una facciata da filantropo il suo nazionalismo, divenuto una vera e propria ossessione. Il suo compagno Benes, formato alla Sorbona, possedeva un’intelligenza assai limitata, razionale, asciutta, ma possedeva, anche più di Masaryk, il genio dell’intrigo diplomatico, dei contatti umani, dell’organizzazione».
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Senza volermi addentrare in quelle che mi sembrano sostanziali carenze nell’esposizione di un evento cosí complesso e ricco di sciagurate conseguenze (carenze relative a vari aspetti: rapporti di forza fra i tre “grandi”, divergenze di finalità fra le diverse posizioni nazionali, nonché divergenze fra impostazioni programmatiche dichiarate e successiva realtà delle condizioni – tutti temi che richiederebbero approfondimenti difficilmente gestibili in un contesto necessariamente “contenuto”) vorrei ricordare che manca, almeno a mio avviso, una delle fonti bibliografiche che riterrei essenziali per la comprensione del fenomeno “Versailles”, cioè “Le conseguenze economiche della pace” di John Maynard Keynes. Il quadro che ne emerge mi sembra decisamente differente da quello tratteggiato dall’Autrice.
Egregio Urbinati,
le lacune sono, ovviamente, dovute all’angolo visuale prescelto, che è la storia diplomatica.
Tecla Bolognini ha fatto una ricerca su testi ben specifici, per focalizzare solo un aspetto del problema: la genesi della questione balcanica e delle terribili conseguenze che ne sono derivate, i cui strascichi durano ancora oggi, a partire dalle tensioni italo-slave per finire con il terribile intreccio di odi etnici riesplosi negli anni ’90 del secolo scorso.
Allargare la visuale sarebbe stato inutile. Chi scrive ha presente le tesi keynesiane, che tuttavia hanno un vizio di fondo: la visuale in apparenza globale ma sostanzialmente “british”. Un punto di vista legittimo e importante, ci mancherebbe. Ma inutile ai fini del nostro discorso.
Grazie comunque per l’attenzione e per il suggerimento.
Saverio Paletta