I “revisionisti” antirisorgimentali? Ma non prendiamoli sul serio…
Nel momento in cui i movimenti sudisti denunciano una fase di stanchezza, i loro scrittori di punta approdano in Calabria. Soprattutto Pino Aprile, protagonista di recente di alcune manifestazioni culturali, l’ultima delle quali patrocinata dalle istituzioni. Secondo Marco Rovinello, docente di Storia contemporanea e Storia sociale del Mezzogiorno contemporaneo, questa letteratura, di cui Pino Aprile è l’autore di punta, è funzionale a scopi politici: fornisce giustificazioni (e auto assoluzioni) alle classi dirigenti del Meridione e motiva la rabbia dei giovani. Ma, ammonisce lo studioso, la ricerca storica è ben altra cosa e scovare la verità richiede impegni e sacrifici. E gli storici? Escano allo scoperto e rimettano le cose a posto: chiudersi nelle torri d’avorio non serve
La storia agli storici? Non necessariamente, visto che alcuni non professionisti hanno dato grandi contributi alla storiografia. «Però, attenzione: non è la regola e purtroppo oggi assistiamo a un intorbidimento delle acque proprio nelle discipline storiche». Parla Marco Rovinello, ricercatore e napoletano doc.
Il riferimento è al fenomeno, essenzialmente commercial-editoriale, ma potenzialmente culturale (non in senso alto) e sicuramente politico, costituito dal cosiddetto “revisionismo” antirisorgimentale. E non è un riferimento causale, per almeno due motivi: perché personaggi di punta (soprattutto Pino Aprile) di questo filone editoriale, più fortunato che consistente, ormai sono diventati habitué della Calabria e perché Rovinello insegna Soria contemporanea e Storia sociale del Mezzogiorno contemporaneo proprio all’Università della Calabria.
Storici contro giornalisti? «Proprio no», specifica ancora lo studioso, esperto scavatore proprio del periodo pre e postrisorgimentale, «ci sono giornalisti che hanno dimostrato di possedere un’avvedutezza metodologica e una preparazione notevoli». Ma non sarebbe questo il caso, aggiungiamo noi.
Però procediamo con ordine.
Il “revisionismo” antirisorgimentale ha preso piede anche in Calabria. L’ambizione di questo movimento parrebbe sia occupare lo spazio culturale occupato, fino a qualche anno fa, dai grandi meridionalisti.
Mettiamola in un altro modo: i meridionalisti di qualche tempo fa – e mi riferisco per esempio a esperienze come Meridiana – erano studiosi di notevole livello e specialisti degli argomenti che trattavano. Non mi sembra il caso della vicenda attuale.
Questo filone, in effetti, ha per protagonisti dei giornalisti, anche di chiara fama: Pino Aprile, Gigi Di Fiore e Lorenzo Del Boca. Ma davvero i giornalisti non possono proprio toccare la storia?
E chi lo dice? Io non ne faccio una questione corporativa, ma di competenze: gli studi storici, accademici e non, richiedono un elevato livello di specializzazione. Per capirci, oggi solo fra i contemporaneisti, non basta quasi nemmeno più distinguere gli ottocentisti dai novecentisti, perché ognuno ha un proprio campo di studio così specifico da potersi dire specialista di uno-due temi. Quindi nessuno vieta ai giornalisti di occuparsi di storia. Ma tutti dobbiamo pretendere che chi si occupa di storia utilizzi con accortezza e piena consapevolezza la “cassetta degli attrezzi” dello storico, che è fatta prima di tutto di critica della fonte, padronanza della storiografia e conoscenza del dibattito storiografico attorno alle categorie che usa. Insomma, che dimostri una competenza specifica sugli argomenti trattati. Non basta tirare fuori delle carte dagli archivi e scriverne alla meno peggio per poter dire la propria in un settore scientifico – e ribadisco scientifico – dove esistono molti professionisti, anche bravissimi.
Forse è meglio chiarire.
Allora, pensi che, ad esempio negli Stati Uniti, ci sono storici professionisti che si occupano di fatti di venti anni fa, muovendosi nell’ambito della stretta contemporaneità. Ma lo fanno con un approccio e con il metodo della ricerca storica, perciò penso che nessuno storico si sognerebbe mai di negar loro il riconoscimento del valore scientifico di quegli studi. Allo stesso modo, non si può scrivere di brigantaggio, che è un argomento topico di questo filone, limitandosi a riproporre solo alcuni classici riferimenti senza uno sforzo di aggiornamento e di confronto con le tante, validissime ricerche successive. Ora, se un giornalista vuole scrivere di brigantaggio, faccia pure. Però se non mostra di aver riflettuto anche sulla scorta di una bibliografia adeguata e aggiornata (e c’è anche chi si para dietro il carattere divulgativo dei suoi scritti per non indicarla nemmeno) mi pare chiaro che non può dare un contributo valido alla storiografia. La ricerca, che è una questione di metodo e non di titoli, è una cosa seria.
Ma questi sconfinamenti avvengono soprattutto nel campo della Storia contemporanea. Come mai?
Per due motivi. Il primo è la relativa vicinanza degli avvenimenti, che perciò appassionano di più il pubblico. Il secondo è la diffusa idea che scrivere di storia contemporanea sia, in fondo, raccontare fatti. Non praticare una scienza con le sue ferree regole, le sue procedure e il suo linguaggio tecnico. Mi spiego: un medievista è praticamente obbligato a conoscere la paleografia, il latino tardo e così via, perché molte delle fonti altrimenti gli risultano inaccessibili. Il che non è il caso delle fonti otto-novecentesche, che sono scritte in italiano e sembrano risultare di più immediata comprensibilità. Ma questa è una pericolosa apparenza: riuscire a leggere una carta non significa automaticamente saperne fare un uso metodologicamente avvertito.
Però le tesi contenute nei libri di Aprile hanno riscosso molto consenso, come testimoniano le vendite, stimate nell’ordine delle centinaia di migliaia di copie.
Dobbiamo distinguere, in questo ed altri casi, l’efficacia delle tematiche dalla loro sostenibilità scientifica. Tralascio volentieri quest’ultimo aspetto perché, in base a quel che ho detto finora, mi pare chiaro che certe tesi siano infondate, almeno per come sono state argomentate sinora. L’aspetto dell’efficacia, invece, va approfondito.
E come?
A mio avviso il successo editoriale di certe tesi, che prima erano appannaggio di nicchie ristrette, è dovuto al fatto che, vere o false che siano, soddisfano la rabbia perché danno una motivazione parziale al disagio del Sud: dire che il Mezzogiorno è malridotto perché il Risorgimento è stato una mera colonizzazione del Meridione può essere autoassolutorio per le classi dirigenti, a cui vengono forniti motivi di propaganda, e sicuramente incontra il favore di tanti giovani privi di opportunità a causa tanto delle disfunzioni gravissime del nostro sistema, quanto – non di rado – di un loro deficit di competitività per quanto riguarda il livello delle competenze e delle abilità possedute.
Ma la cosa curiosa è che il Sud ha più laureati rispetto al Nord e molti di questi sono laureati proprio nelle discipline umanistiche in cui il discorso dei “revisionisti” incide per la quasi totalità.
Quando parlo di efficacia escludo le persone, probabilmente non poche, che vengono a contatto con questi argomenti solo in via mediata (perché non comprerebbero un libro neppure per scherzare) ma semmai ne sentono parlare da altri, che a loro volta ne hanno magari orecchiato qualche passaggio da chissà chi. Io mi riferisco proprio ai tanti giovani laureati, costretti ad emigrare dall’attuale situazione economica o a svolgere professioni percepite come non adeguate ai propri investimenti culturali: è facile, in questi casi, cedere alla tentazione di seguire certe tesi che motivano in parte il proprio disagio.
Non va sottovalutato, naturalmente, il potenziale commerciale di queste operazioni, visto che i libri sono comunque oggetti destinati alla vendita.
Certamente, ma io credo che l’aspetto politico sia comunque prevalente, e che semmai l’editoria si limiti a cavalcare certi filoni tematici per aumentare le vendite.
Ma la domanda resta in piedi: è vero o no che la Questione Meridionale è il prodotto dei comportamenti predatori del Nord coloniale?
Magari avessimo gli elementi per una risposta così secca ma comunque completa. Io dico di no. Ma dico anche di più: oggi è scorretto parlare di Questione Meridionale nei termini in cui ne parlavano i meridionalisti classici. Io rispondo sulla base delle mie competenze, che sono quelle dello storico. Ma mi permetto, per tentare una risposta più completa, di rifarmi a quel che ha di recente sostenuto uno specialista di alto livello come Gianfranco Viesti durante una lecture all’Università della Calabria: è improprio parlare di mancato sviluppo nell’ambito della dicotomia Nord-Sud e dei confini dello Stato nazionale. Oggi, per capire davvero ciò che è accaduto negli ultimi venti-trent’anni e cosa sta accadendo tuttora, occorre estendere e complicare il quadro sino a includere altre situazioni apparentemente lontane: ad esempio, l’Est. Si pensi ai Paesi dell’area di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia) che sono approdati nell’Ue in condizioni di arretratezza ben più gravi rispetto al Mezzogiorno e alla Calabria, ma hanno fatto passi da gigante. Oggi è improprio parlare di Sud, di Calabria e persino di Italia. I termini di paragone per ragionare di sviluppo e mancato sviluppo sono più vasti.
E questo vale anche nelle storiografia tout court?
Certo. E ne approfitto anche per mettere un punto fermo sul cosiddetto revisionismo: se non ci fosse, non ci sarebbe neppure la storia, perché tutti gli storici, quando mettono in discussione i risultati acquisiti, sono revisionisti. Il problema è di metodo e di parametri. È ormai da una vita che la storiografia ha colto l’importanza della comparazione, e di una comparazione ad ampio raggio. Per non parlare delle tendenze storiografiche più recenti e più stimolanti, che vanno nella direzione della world history, ossia dell’idea che i fenomeni siano transnazionali e solo studiandoli andando oltre le storie nazionali sia possibile comprenderli davvero.
Facciamo degli esempi?
Senz’altro. Prendiamo il periodo della lotta al brigantaggio. In quello stesso periodo, negli Usa c’era la guerra civile. Quanti sono i morti ufficiali del brigantaggio? I numeri accertati ruotano attorno ai 15mila. Io vado oltre e li raddoppio: diciamo che sono stati 30mila. Di più: facciamo 50mila. Ma i caduti della Guerra di Secessione sono stati comunque almeno più di dieci volte tanto. E circa 400.000 furono le vittime della cosiddetta Guerra della Triplice Alleanza in Sud America, iniziata nel 1864. Questo per restituire alla Storia le sue giuste proporzioni. Sulla base di questa comparazione mi sembra agevole anche negare il concetto di genocidio, che non ci fu nel caso statunitense né ci fu, soprattutto, in quello italiano. I “revisionisti” antirisorgimentali semplificano dinamiche storiche complesse da ricostruire e pretendono di banalizzare concetti complicatissimi per sostenere tesi che, alla prima verifica, non reggono. Ora, visto che la storiografia si nutre di queste comparazioni e di una prospettiva globale, perché loro non le fanno?
Ma nel mondo accademico c’è chi nega addirittura la validità del Mezzogiorno come categoria storica.
Beh, direi che questa è ormai un’acquisizione storiografica largamente condivisa. Il problema è che il Sud, anche a livello storico, è stato così frastagliato e vasto da non poter davvero costituire una categoria unica. Basti pensare alle enormi differenze fra Napoli la grande capitale, le aree limitrofe, l’articolata geografia economica delle Puglie, le identità nazionali autonomiste come quella siciliana. Ha proprio ragione il collega Salvatore Lupo quando osserva – con una certa ironia – come in Sicilia ci siano più borbonici oggi di quando c’erano i Borbone
E ciò vale anche per il brigantaggio? C’è chi, è il caso di Di Fiore, lo assimila a una specie di insorgenza.
Io sono impegnato in un progetto di ricerca proprio sul brigantaggio e spero di poter dire qualcosa di più tra tre anni. Al momento, sulla base di qualche competenza, mi permetto di fare un’osservazione: ancora non siamo in grado di dire con certezza cosa fossero i briganti, tra i quali c’era di tutto: dal delinquente comune allo sbandato e al politicizzato. Da questa confusione, che noi storici ancora stiamo dipanando, è impossibile ricavare definizioni secche ed esaustive. Faccio un altro esempio, che traggo da un mio libro in uscita sulla storia della leva militare: al Sud la coscrizione secondo la norma in vigore nel Piemonte sabaudo fu istituita nel 1863, tre anni dopo l’Unità e dopo esser stata leggermente modificata proprio per venire incontro all’uso borbonico. Al contrario, in Lombardia e in Toscana essa fu estesa senza modifica alcuna non appena sancita l’annessione. Inoltre, dalla vasta documentazione che ho potuto consultare, risulta che una buona parte della renitenza fu dovuta a ben altri fattori che non alla ribellione contro gli invasori: un ruolo importante lo ebbe l’analfabetismo, l’inefficienza della macchina amministrativa, e risultò non secondaria anche l’assenza di molti coscritti dai luoghi d’origine, che lavoravano fuori sede come stagionali. Come al solito, non appena si approfondisce, risulta quasi impossibile semplificare.
Eppure questo “revisionismo” è accolto anche, in parte, nel mondo accademico e le istituzioni culturali invitano spesso certi autori.
Purtroppo è vero e osservo questo fenomeno anche nella mia città. Credo che in questo successo giochino un ruolo non secondario fattori politici ed economici.
Ma un torto il mondo accademico lo avrà.
Ne ha più d’uno. In particolare, noi accademici abbiamo trascurato l’alta divulgazione e abbiamo lasciato un vuoto che ora è riempito da questi autori che, rispetto a noi, hanno un maggior potenziale comunicativo e commerciale.
Ma c’è un rimedio? C’è un modo di fermare queste derive?
Sì. Penso, nel caso specifico, ad un maggior impegno degli storici nella formazione degli insegnanti. Oppure alla valorizzazione delle attività di alta divulgazione che essi possono svolgere scrivendo non solo testi espressamente pensati a questo scopo, ma anche saggi e monografie di ricerca dallo stile meno accademico e più accessibile al grande pubblico, senza per questo essere meno solidi scientificamente. Oppure ancora mi riferisco alla partecipazione a iniziative culturali e trasmissioni televisive, che peraltro mostrano di avere un certo seguito anche fra i giovani. Infine, penso a quei filoni di ricerca scientifica sul Risorgimento che forse meglio di altri si prestano alla divulgazione, come i lavori di storia culturale che si rifanno all’approccio di Alberto Mario Banti. Noi storici non possiamo chiuderci a riccio né censurare, se non a livello metodologico, determinati fenomeni. Ma ciò non significa subirli passivamente. Noi non abbiamo altre certezze se non quelle che ci fornisce il nostro metodo, che ci impone di cercare la verità. E non è poco, rispetto a chi propone al pubblico esemplificazioni a dir poco rozze in cui di verità – spesso – ce n’è poca.
(a cura di Saverio Paletta)
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