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Bossiani contro lepenisti, parte la vera sfida nel Carroccio

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Zaia fa il pieno di voti in Veneto con una proposta “eversiva”: dare lo Statuto speciale alla sua Regione. Maroni, che ha parlato solo di autonomie, arranca in Lombardia. Ma un unico filo tiene assieme, anzi Lega, i due referendum: è il tentativo dei vecchi seguaci di Bossi di pesare in un partito completamente rinnovato da Matteo Salvini, che cerca di imitare il Front National, di riempire gli spazi lasciati vuoti dalla vecchia An e, se possibile, di sfondare a Sud grazie alla miscela di populismo ed euroscetticismo che caratterizza la sua leadership. Ora, dopo il responso delle urne, il segretario ha un fardello politico pesante, che rischia di rallentare la sua corsa elettorale prima che i giochi entrino nel vivo

Nelle ultime ore i media hanno fatto un gran casino sulla presunta vittoria plebiscitaria della Lega. Minoritarie, invece, sono state le analisi degli equilibri interni dell’ex partito di Bossi, quasi nulli gli approfondimenti culturali.

Più legalitario e meno eversivo di quello veneto, il referendum lombardo ha ottenuto un consenso più tiepido: il 38,25 per cento degli elettori alle urne contro il 57,2 per cento dei vicini di casa.

In questo caso non vale dire che in entrambe le consultazioni i sì sono stati schiaccianti, oltre il 98 per centro in Veneto e oltre il 95 per cento in Lombardia, perché la sfida non si è svolta tra i favorevoli e i contrari all’aumento delle autonomie ma si è basata sulla capacità dei due governatori, Zaia e Maroni, di trascinare i propri elettori alle urne.

Questa sfida, che è poi la sfida vera, si è svolta in due campi da gioco: quello leghista e quello del centrodestra ed è stata lanciata da due esponenti della vecchia guardia bossiana nel tentativo – sostanzialmente riuscito a livello locale – di tenere vivi lo spirito e le istanze della Lega originaria: cioè l’opposizione allo Stato centralista (Zaia, al riguardo, non ha parlato di Roma ladrona ma ha fatto capire che considera ancora tale la Capitale e, soprattutto, i suoi ambienti di potere), il federalismo spinto fino a forme larvate di secessionismo e, ovviamente, l’egoismo fiscale forse non disgiunto dal consueto pregiudizio antimeridionale, che tuttavia non è stato espresso per non turbare il nuovo corso salviniano.

Insomma, è stato un modo per i vecchi leghisti di dire che non sono ancora morti e che i vecchi temi non restano confinati alle manifestazioni paesane del Profondo Nord, che quanto a rusticume se la gioca alla grande con l’entroterra lucano e calabrese.

In questo braccio di ferro il moderato Maroni sembra esserci un po’ per caso e un po’ perché tirato per la giacchetta: bossiano della prima ora e più volte ministro-chiave dei governi Berlusconi, in cui ha dovuto gestire equilibri delicatissimi con i terroni dell’Udc, il presidente lombardo guida una regione che è anche leghista ma in gli uomini del Carroccio se la devono vedere con la potente roccaforte berlusconiana e con un Pd più sensibile che altrove nei confronti delle istanze liberiste tipiche del settentrione più produttivo.

Più tosto Zaia, che invece incarna lo stereotipo del leghista duro e puro: legato per motivi professionali al mondo rurale veneto, il governatore più votato del Nordest, ha sempre mantenuto la barra su un indirizzo culturale cattolico, conservatore e localista, che gli ha consentito di fare il pieno di consensi in ogni occasione. E non è un caso che il suo referendum sia stato più leghista di quello di Maroni: laddove quest’ultimo si è limitato a parlare di autonomie, inquadrate correttamente all’interno della Costituzione, i veneti si sono spinti oltre, invocando ciò che, tranne i miracoli, non otterranno mai: lo Statuto speciale e l’indipendenza fiscale. Non li otterranno per il semplice motivo che, tranne per una qualche strana rivoluzione, non ci saranno mai, almeno non nel breve periodo, maggioranze tali da modificare la Costituzione secondo i desideri di Zaia e dei suoi elettori.

Tuttavia, questo referendum ha un preciso significato politico: è un messaggio, non tanto nella bottiglia né troppo cifrato, indirizzato al segretario Matteo Salvini, che ha accantonato il federalismo per trasformare la Lega nella versione italiana del Front National e ottenere una crescita elettorale anche a Sud.

L’euroscetticismo e il populismo pagano. E il cinico segretario, che ha cambiato più volte indirizzo politico nel corso della sua fulminante carriera, lo ha capito benissimo e si è adattato con piglio manageriale.

Ed ecco che, ci scusino i puri per l’irriverenza del paragone, la Lega ricorda un po’ il vecchio Msi di Almirante, che tentava di accreditare un’immagine moderata e conservatrice nella comunicazione pubblica ma manteneva nel privato delle sezioni tutto il vecchio merchandising neofascista.

Il famoso e famigerato doppio linguaggio, insomma.

Il doppio linguaggio della Lega parla soprattutto il dialetto veneto, perché è in Veneto che il leghismo è nato, anche nella sue versione più becera e virulenta, ed è in Veneto che resiste. In Lombardia, invece, il leghismo è semplicemente esploso. Ma poi, dopo le sfuriate bossiane (e a dispetto di queste), è stato normalizzato, dal berlusconismo e dagli impegni governativi, spesso vissuti con spirito di supplenza e non si offenda nessuno se Maroni come governatore sembra il supplente dello screditatissimo Formigoni.

Con i referendum i due governatori ex bossiani consegnano al loro segretario, prima estremista al seguito di Bossi poi populista contro di lui, un fardello pesantissimo, che rischia di rallentare la corsa elettorale della Lega, la quale prova a recuperare i voti di destra in libera uscita che nessuna delle sigle che tentano di ereditare lo spazio politico della vecchia An sembra in grado di occupare.

La sfida è cominciata: chi riuscirà a restare in sella su un Carroccio strattonato da troppe parti?

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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