I gilet dopo i grillini: se l’Europa si tinge di giallo
In venti giorni hanno messo la Francia a soqquadro e si sono spinti fino a Bruxelles. Piacciono ai lepenisti e ai melanchonisti. E hanno sfoderato un mini programma in venticinque punti che sembrano presi di peso dai programmi di Lega e M5S. A differenza dei populisti nostrani, i gilet gialli possono mettere in crisi l’Europa. Forse per questo hanno ricevuto gli elogi di Trump e del suo ex spin doctor Steve Bannon, nuovo guru delle destre radicali. E se tutto questo non fosse solo una coincidenza?
L’escalation è stata fulminea, così come è stato fulmineo l’inizio della protesta: in circa venti giorni i gilet gialli hanno messo a soqquadro la Francia, le metropoli così come la provincia (che è profonda e spesso disagiata come le nostre).
E la protesta non accenna a calare, nonostante l’imponente apparato della gendarmerie – quasi 90mila agenti di pubblica sicurezza – a fianco del quale il governo d’Oltralpe medita di utilizzare l’esercito.
Ancora non è stato d’emergenza, ma le cifre fanno capire che un’emergenza c’è ed è pericolosa: oltre mille arrestati, circa quattrocento feriti, tra cui alcuni gravissimi, e un morto.
In più, la protesta, nel corso della quale si è chiesta la testa di Macron, ha superato i confini nazionali ed è tracimata a Bruxelles, dove i gilet gialli hanno preso di mira l’Europarlamento, identificato come luogo simbolo della casta.
Un po’ troppo per continuare a parlare di protesta contro il caro carburante, soprattutto dopo che il governo e la presidenza si sono dichiarati disposti a trattare su questo punto. E un po’ troppo per poter parlare ancora di spontaneismo, con buona pace per i sessantottini indomiti alla Mario Capanna, che hanno preso spunto dalle vicende francesi per lanciarsi nelle consuete tirate anticapitaliste, magari non infondate ma decisamente vintage. Soprattutto, legate alla logica del XX secolo.
Il movimento dei gilet si dichiara apolitico e di sicuro non dialoga con la politica istituzionale: non con la sinistra laica, che ha portato per un soffio Macron all’Eliseo, né con quel che resta del gollismo, che ha dovuto digerire Macron come alternativa d’emergenza al lepenismo.
Tuttavia ciò non ha impedito a Marine Le Pen e al suo Rassemblement National, che eredita la funzione politica del vecchio e decotto Front National, di provare a mettere il cappello sulla protesta, durante la quale (e forse non a caso) hanno fatto capolino i vessilli da stadio con la croce celtica. La stessa tentazione ce l’hanno i seguaci di France Insoumise, il movimento di sinistra radicale hi-tech fondato dall’ex big socialista Jean-Luc Mélenchon.
E a leggere bene la piattaforma politica del movimento, che gira in rete da alcuni giorni, nella protesta c’è posto sia per i seguaci destrorsi della lady d’acciaio che ha sfiorato la presidenza, sia per gli irriducibili gauchiste che cercano di compattare le file dopo l’ennesima disfatta del socialismo gallico.
La Carta Ufficiale dei gilet contiene venticinque punti programmatici che sembrano un mix delle istanze dei gialloverdi italiani, adattati quel che serve alla situazione francese. C’è, innanzitutto, il sovranismo, espresso se possibile in forma più cruda rispetto ai leghisti (che al momento hanno messo il tutto in frigo per evitare ritorsioni europee). Così il punto 9 della Carta, che invoca la Frexit, cioè «l’uscita dall’euro per ricuperare la sovranità monetaria, politica ed economica (nel rispetto del referendum del 2005), ricusare l’articolo 123 del trattato di Lisbona per riguadagnare il diritto di battere moneta (50 miliardi di economia l’anno)».
Stesso discorso per il punto 21, che invoca la «reindustrializzazione della Francia per evitare le importazioni e quindi l’inquinamento». In questo caso è chiaro, al di là della fumosità dei termini, che l’esigenza ecologica (chi assicura che le aziende francesi sarebbero meno inquinanti?) è un buon paravento per il protezionismo.
La prova del nove è nel punto 24, in cui si chiede di «impedire i flussi migratori impossibili da accogliere e da integrare vista la crisi di civilizzazione che stiamo vivendo». Questo punto si integra alla perfezione con i precedenti due, che chiedono il disimpegno, economico e militare, dalla Nato e dall’Africa.
A livello economico emerge un’altra assonanza con i desiderata leghisti nel punto 1, dove si chiede di «sancire nella Costituzione l’impossibilità per lo Stato di prelevare oltre il 25% della ricchezza dei cittadini». Non è la flat tax, perché lascia irrisolta la questione dell’imposizione proporzionale (quella proposta da Salvini) o progressiva, attualmente vigente in Francia come in Italia.
Fin qui il versante destro della protesta.
Quello grillino, che non a caso ha strappato il plauso dell’ex comico genovese, riguarda «l’aumento immediato del 40% del reddito minimo garantito, delle pensioni e dei sussidi sociali» (punto 2), l’edilizia popolare, che prevede la realizzazione di cinque milioni di nuovi alloggi (punto 5), la lotta ai monopoli bancari e alle lobby, che addirittura dovrebbero essere messe fuori legge (punti 5 e 8), la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, più una politica agricola reazionaria, basata sul divieto degli ogm e la limitazione estrema dei pesticidi.
La chicca è l’antigiornalismo, espresso in maniera confusa nel punto 15, che merita una menzione a sé: «Spezzare i monopoli e i clientelismi politici. Rendere i media accessibili ai cittadini e garantire la pluralità di opinione. Porre fine alla propaganda degli editori. Ritirare le sovvenzioni pubbliche dai media (2 miliardi l’anno) e le esenzioni fiscali dei giornalisti». La confusione di questa richiesta mira a scardinare l’informazione professionale con la scusa di correggerne le storture in un Paese che, comunque, è più rispettoso dell’Italia della libertà di stampa. Lo scopo è palese: mettere le testate tradizionali sullo stesso piano della comunicazione sui social network.
Riavvolgiamo un attimo il nastro: in circa venti giorni, le giubbe hanno fatto casino nel loro Paese, muovendo da un pretesto condivisibile (il caro carburanti, che si riflette in un pesante ricarico sulle merci e, quindi, sulla qualità della vita, a rischio anche Oltralpe), ma, a furia di proteste ben organizzate, sono arrivati fino a Bruxelles, hanno raccolto il plauso di Trump e del suo ex spin doctor Steve Bannon.
Siamo sicuri, alla luce di questo riassunto, che la protesta sia spontanea e solo working class? Difficile credere che tutto possa far leva sul carisma del sessantaduenne Jean-Francois Barnaba, il funzionario demansionato e in disponibilità da vent’anni, che pure ha rivelato un acume e una cultura non proprio irrilevanti, finito nel mirino dei media. Ed è difficile credere che sia bastata la petizione della profumiera online Priscilla Ludosky e dell’autista Eric Drouet a far deflagrare il tutto?
Certo, loro sono stati la miccia ed è innegabile che la situazione francese fosse esplosiva. Ma, per quanto disunito, il movimento fai da te ha dimostrato un livello organizzativo invidiabile, che i nostri grillini hanno impiegato anni ad avere e rafforzare.
Ma i complimenti americani sembrano andare ben oltre le semplici pacche sulle spalle. Anche perché i gilet sono andati oltre in pochi giorni di quel che era riuscita a fare m.me Le Pen, che dopo aver sfiorato il colpaccio si è ritrovata col partito in pezzi.
Steve Bannon gira l’Europa da mesi per lanciare attraverso il suo Movement le ricette della Alt Right, la nuova destra radicalpopulista che in America ha rilevato il ruolo che fu dei neocon ai tempi di Bush.
I rapporti dell’ex eminenza grigia elettorale di Trump con Salvini e i pentastellati, a cui dispensa elogi e consigli, sono piuttosto noti. Ed è nota la sua strategia di creare un nuovo fronte dei neonazionalismi europei in funzione anti Ue. Ma siamo sicuri che quella di Bannon sia solo l’iniziativa personale di un intellettuale finanziato da magnati in pensione, come lui stesso ha dichiarato il 22 ottobre scorso al Corriere della Sera?
Queste calate intercontinentali hanno un illustre precedente nel movimento Otpor, che nacque in Serbia in funzione anti Milosevic e tracimò un po’ ovunque: dapprima nei Paesi dell’ex impero sovietico (Georgia e Ucraina), con le cosiddette rivoluzioni arancioni, poi nel mondo arabo, con le primavere che hanno rovesciato i regimi del Maghreb e del Medio Oriente e lasciato quei Paesi nel caos. A distanza di anni da questi avvenimenti è emerso il ruolo forte degli Usa dietro questi avvenimenti. Un ruolo più geopolitico che umanitario.
E forse Il Giornale non va troppo lontano dalla realtà quando ipotizza che nei venticinque punti della Carta dei gilet ci sia una manina americana. Già: Bannon (e chi dietro di lui) vedono nell’Italia un importantissimo laboratorio politico anti Ue. Ma l’Italia può solo mettere in crisi L’Ue e l’Eurozona, di cui non è tuttavia il punto di rottura. Questo può essere solo la Francia e, probabilmente, i gilet possono rilanciare l’euroscetticismo senza il carico negativo delle destre radicali (xenofobia, omofobia e intolleranza cultural-religiosa).
Per la seconda volta i rigurgiti rivoluzionari si tingono di un colore inedito: il giallo, che tra i tre colori base è stato finora il meno politicizzato. Sicuramente meno del rosso, che è nato come colore guerriero e aristocratico e poi è diventato il cromatismo simbolo della sinistra. Sicuramente meno del blu, che è il colore della destra.
Dopo i 5 Stelle, in via di imborghesimento progressivo, è il turno dei gilet? Sarà, ma questo giallo brilla poco comunque…
Per saperne di più:
La traduzione della Carta dei gilet gialli
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