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Immigrazione, prima che l’emergenza diventi la nostra catastrofe

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L’Italia sbatte i pugni in Europa: era ora!

L’ultimatum: anche gli altri accolgano, sennò chiudiamo i porti

Ma l’Ue fa orecchi da mercante: continuate così e vi daremo più soldi

Sarà pure antipatico, Marco Minniti, ma in quanto a sicurezza non gli si può insegnare nulla. Soprattutto, non è uno che agisce a caso. Anzi.

Il dramma dell’emigrazione, che ha decuplicato le proprie cifre ed è passato in pochi giorni dall’ordine delle migliaia alle decine di migliaia non può essere preso più sottogamba né, come finora si è fatto, trattato nei termini di quell’umanitarismo a prescindere che ha beneficato pochi, soprattutto tra i migranti, e su cui hanno lucrato in troppi in una gara a chi fa peggio.

Minacciare la chiusura dei porti alle navi non italiane cariche di migranti (e la stoccata nei confronti delle Ong è finalmente chiara e, ci si perdoni, liberatoria dopo anni di retorica buonista), inviare un ambasciatore all’Ue con l’incarico, finalmente, di sbattere i pugni sul tavolo, rinegoziare le condizioni dell’accoglienza, a cui l’Italia è stata costretta dall’ipocrisia e xenofobia degli altri, non è un cedimento alle paure profonde del paese. È il minimo che si potesse fare.

Minniti e, con lui, tutto il governo Gentiloni, sono quelli che rischiano di più in questo frangente pesantissimo: a differenza di Brunetta – il primo a tuonare dai banchi dell’opposizione nel momento in cui l’emergenza iniziava ad assumere le sembianze della catastrofe – loro hanno troppo da perdere. Hanno, ad esempio, chi gli morde i talloni alla sinistra e i gruppi di affari che finora hanno prosperato sull’emergenza con cui fare i conti. Hanno troppo da perdere, insomma, senza tante possibilità di poter recuperare a destra.

Certo, non possiamo fidarci della loro buona fede. Ma sul loro cinismo e sul loro senso della realtà possiamo mettere la mano sul fuoco. La ricreazione umanitaria, più volte disturbata dai fattacci e dal malcontento delle popolazioni ospitanti, è davvero finita. Ed è tempo di rendersi conto che senza la sicurezza, nostra e dei migranti, nessuna accoglienza è possibile. Ogni malessere ha i suoi sintomi e ogni sintomo ha le sue cause: xenofobia e razzismo sono i sintomi del malessere provocato dalla mancanza di filtri all’ingresso per i migranti. Quei filtri, per capirci meglio, adottati da tutte le grandi democrazie e che solo noi, per il provincialismo e l’opportunismo che caratterizza tutti i “piccoli”, abbiamo applicato tardi e male.

In questo contesto, non deve inquietare il cambio di rotta, non solo aerea, di Minniti, ma la risposta dell’Ue, arrivata per bocca del commissario per le migrazioni Dimitris Avramopoulos: «Aumenteremo gli aiuti all’Italia, ma tutti abbiamo un dovere umanitario a cui non possiamo sottrarci». Morale: la Grecia (a proposito di Avramopoulos) non vuole accogliere, perché le sue coste sono l’unica voce attiva nell’economia più disastrata d’Europa; la Spagna, che sta molto meglio, è lo stesso paese che nell’era Zapatero metteva la moratoria all’accordo di Schengen e, mentre il resto d’Europa si riempiva di migranti, prendeva a calci i marocchini a Gibilterra. Come a dire: socialisti in casa, ma fascisti per il resto. Per tacere della Croazia e degli altri paesi ex comunisti, dove il popolismo di destra radicale e neofascista suggestiona gran parte dell’opinione pubblica.

Il messaggio del commissario europeo è stato pesante: continuate così che vi diamo più soldi. Cioè, continuate ad affidare ai privati, difficili da controllare (come rivelano i recenti scandali calabresi) quanto i migranti la gestione dell’accoglienza. Cioè, continuate ad accogliere e noi vi paghiamo purché ci leviate le castagne dal fuoco.

La controproposta italiana, per cui chi salva deve accogliere, squarcia invece il velo di troppe ipocrisie. Vogliamo scommettere che se passasse la nostra richiesta, molti governi conterebbero fino a dieci prima di concedere il diritto di battere bandiera alle navi di molte Ong?

L’Italia, ma soprattutto molta sinistra italiana, ha finora dato l’esempio peggiore che si possa dare nelle crisi: quello della debolezza, a cui non è estranea la corruzione che serpeggia in parecchi settori della nostra economia. E finora abbiamo visto i risultati prodotti da questo sistema: imprenditori destinati a fallire in condizioni di mercato rianimati dai fondi per i migranti (e tra loro c’è persino chi tenta di mollare la Sanità privata per convertirsi al nuovo business), la consueta rete delle coop, rosse e bianche, che si è estesa più dei porcini in una fungaia in autunno, settori interi del mondo agricolo che si apprestano a mettere da parte ogni preoccupazione legale e sindacale, per tacere delle mafie, che lucrano a monte e a valle del fenomeno.

Vogliamo davvero continuare così e cedere l’ultimo scampolo di sovranità, quello a cui non rinunciano neppure gli Stati federali americani e i Lander tedeschi, alla sicurezza altrui? 

Saverio Paletta

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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