Da Giorgi a Riina, gli strani scandali dell’antimafia di carta
Due parole sulle polemiche facili contro i sanlucoti e la sentenza della Cassazione
Ma il male non si sradica con le chiacchiere
Cosa scriverebbero Sciascia e Gambino se fossero vivi?
Quando due giganti come Leonardo Sciascia e Sharo Gambino erano ancora vivi i boss vivevano in galera come in un hotel a cinque stelle e comandavano, serviti e riveriti dai loro compagni di gattabuia, più di quando erano a piede libero.
Allora c’erano le polemiche, anche infuocate, ma senza parossismi.
Oggi ci si scandalizza per meno. I vicini di casa baciano le mani (già: baciamo le mani) al boss Giuseppe Giorgi mentre sfila tra i carabinieri che lo hanno preso dopo 23 anni di latitanza? Scoppia lo scandalo, con tanto di malcelate accuse a sfondo etnico ai cittadini di San Luca, considerati “mafiosi dentro” da tanta stampa che tenta di tamponare la crisi dell’editoria con massicce dosi di antimafia.
Peggio che peggio per la vicenda di Totò Riina, già capo dei capi di Cosa Nostra e ora malandato 86enne e, secondo i suoi avvocati, più che prossimo a tirare le cuoia. Nel caso di Totò ’u curtu, già interprete delle tendenze più terroristiche e “radicali” della Mafia, lo sdegno è stato maggiore: a tanti non è andata proprio giù che la Cassazione abbia dato ascolto ai legali del superboss e abbia detto al Tribunale di sorveglianza di Bologna di rifare il compito e di trovare motivazioni migliori per tenere dentro il sanguinario ma impotente vegliardo.
Molte di queste reazioni sono rispettabilissime. In particolare, lo sono quelle dei figli del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, una delle vittime più eccellenti dello stragismo mafioso. Tutto il resto, dispiace dirlo, sa di “posa”.
E qui è il caso di lanciare una provocazione: se i boss potessero chiedere una percentuale in diritti d’autore a tutti gli editori che hanno pubblicato libri e riviste su di loro e hanno fatto fior di quattrini sulle loro biografie, le mafie ora sarebbero considerevolmente più ricche. Se i boss potessero chiedere un piccolo obolo per ogni gerbera gialla venduta, il narcotraffico rischierebbe di calare grazie ai nuovi e più sicuri introiti.
L’episodio di San Luca e la decisione “scandalosa” della Cassazione ci restituiscono l’immagine della mafia e della mafiosità come realtà complesse, difficili da contenere nei canoni di quell’enorme romanzo western in cui si è risolta la narrazione dei fatti criminali. Qui i buoni, lì i cattivi. E al diavolo le sfumature. Le sfumature che, invece, sarebbero piaciute a Sciascia e Gambino, che si divertivano a scrutare in quegli interstizi della realtà inaccessibili ai giornalisti e, si scusi la citazione, ai professionisti dell’antimafia. Non ci si riferisce, si badi bene, ai magistrati e ai carabinieri che rischiano la pelle e fanno l’antimafia vera, ma ai tanti mafiologi della legalità che spuntano come i funghi dopo certe catture eccellenti.
Evidentemente, a loro riesce difficile immedesimarsi nella gente di San Luca che, abbandonata da tutti, spesso non ha alternative che identificarsi in un boss. E riesce difficile, a tanti che sono digiuni di cultura giuridica, capire che forse la Cassazione ha ricordato che non basta dire Riina per evocare il male assoluto ma che Riina è un detenuto come tutti gli altri e che anche le belve come lui in uno Stato di diritto hanno dei diritti e che, infine, i Tribunali di sorveglianza devono motivare bene la decisione di far morire qualcuno in cella anziché a casa. Si consenta, al riguardo, una piccola nota maligna: nei riguardi della Cassazione si sarebbero dovuti lamentare anche i parenti di quei mafiosi di piccolo calibro morti di malattia in galera perché le procedure sono state più lente delle malattie.
Banale garantismo? Proprio no. Semmai è il rifiuto della mentalità da curva Sud che non può invadere un campo così delicato. Il giochetto “garantisti contro giustizialisti” non funziona più perché impedisce di capire tante cose e perché fa comodo a certi “peccatori” e a chi se ne approfitta.
Troppe le chiacchiere e l’inchiostro sprecati. Altrettante le carriere politiche e intellettuali, altrimenti impensabili, decollate grazie a queste tifoserie. E ora, nonostante tutto questo spreco, non si riesce ancora a capire come si vive a San Luca e che a 90 anni forse si può avere qualche baciamano ma è difficile comandare. Non ha perso lo Stato, che, anzi, ha messo le manette a Giorgi e tiene ancora in pugno Riina. Ha perso la cultura, ecco tutto.
«Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo», dice don Mariano Arena al capitano Bellodi nel passo immortale de “Il giorno della civetta”. Don Mariano lodava il contegno educato e rigoroso del carabiniere che trattava comunque il suo detenuto come un cittadino e non come una bestia. Capire non è garantismo. È solo civiltà. E la civiltà non sta negli scaffali “specializzati” dove le agiografie dei capibastone contendono lo spazio a certi libri scritti con toni che scandalizzerebbero gli inquisitori più feroci di certo medioevo. Né sta negli obbiettivi di certe telecamere o sulle poltrone di certi talk show.
La mafia è una cosa troppo seria per il circo mediatico a cui si sta riducendo l’informazione. È l’avversario che si nutre delle debolezze, morali ed economiche, della civiltà, che arretra puntualmente quando lo sdegno si tramuta in rabbia e questa suppura in rancore. Comprendere tutto questo sarebbe già un bel passo, che non conviene ai facili nuovi professionisti dell’antimafia.
Saverio Paletta
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