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Scritte a Locri: ma l’indignazione ha davvero senso?

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Ma siamo sicuri che le abbiano fatte i mafiosi?

Chi ha scritto «meno sbirri» ha voluto esprimere disperazione

Il riferimento a don Ciotti fa capire che anche l’antimafia militante in Calabria segna il passo

Non è una provocazione gratuita, giuro. Né è un tentativo di attirare l’attenzione cavalcando un tema di attualità. “Stando sulla notizia”, per dirla nel gergo degli scribacchini.

È solo uno sfogo di panza. E lo esterno da addetto ai lavori che ha lavorato con passabile onestà, intellettuale innanzitutto.

Lo dico subito: se fossi stato un 25enne, 30enne o, peggio ancora, ultraquarantenne disoccupato o sottoccupato di Locri avrei scritto le stesse cose che qualche anonimo ha scritto, appunto, su un po’ di pareti – pubbliche e importanti – di Locri.

«Più lavoro e meno sbirri». Embè? E che male c’è? Semmai c’è un errore: tutti questi “sbirri”, e ripeto l’espressione con tutto il rispetto e l’affetto che il nipote di due Carabinieri può provare per le forze dell’ordine, in Calabria non ci sono, visto che i rappresentanti degli uomini in divisa lamentano in continuazione (e a ragione) di essere in sottonumero.

Queste frasi non le scrivono i mafiosi, e sul punto ha ragione Gratteri. Né, probabilmente, le scrivono personaggi borderline che sperano di cattivarsi i favori di qualche mammasantissima. No: fino a prova contraria, queste frasi sono il frutto della disperazione di chi vive in territori dove lo Stato c’è poco, previene poco e, quando ci riesce, si limita a reprimere.

Non è retorica citare al riguardo il vecchio Giacomo Mancini, che invece considerava le tute blu, cioè gli operai e i lavoratori, quindi il lavoro duro e onesto, l’unico vero antidoto alla mafia.

La mafia, diceva don Mommo Piromalli, uno che di mafia se ne intendeva, «esiste perché non funziona la giustizia civile».

Già: qualcuno dei giornalisti che calano in Calabria ha mai provato a fare una visita a qualche Giudice del Lavoro o a farsi un giro in qualche Ispettorato del Lavoro per rendersi conto degli abusi quotidianamente perpetrati a danno di chi prova a darsi da fare il meno disonestamente possibile?

Mi dispiace per don Ciotti, che mi ispira simpatia e che non meritava l’epiteto di “sbirro” come non lo meritano i tanti poliziotti, carabinieri e finanzieri che fanno il proprio lavoro in cambio di stipendi minimi e a rischio della vita. Però c’è da dire che l’antimafia “culturale” in Calabria può essere irritante. E mi permetto di spiegare perché.

Fate un semplice gioco: prendete dieci ordinanze di altrettante operazioni antimafia in altrettante zone della Calabria, prendete il numero degli indagati e dividetelo per quello degli abitanti. Otterrete il cosiddetto “quoziente di mafiosità” della zona in questione, che vi dirà quante persone sono a rischio mafia in una determinata area. Ed è sempre altissimo, più che in Sicilia e in Campania. Non per merito della ‘ndrangheta, che quando viene colpita seriamente si rivela debole come le sue sorelle, ma per demerito della società civile, che è più debole che altrove.

Ricordate il famigerato ddl “Lazzati”? No? Ve lo rinfresco. Era quel disegno di legge elaborato e promosso da un anziano magistrato, il giudice Romano De Grazia, con cui si provava a punire non solo i mafiosi che inquinavano (e inquinano) la politica, ma pure i politici che inquinavano (e inquinano) la mafia, riproponendone vizi e abusi in maniera, se possibile, peggiorata. Questo ddl, proposto nel lontano ’93, al crepuscolo della Prima Repubblica, è stato approvato, tra l’altro in maniera monca, a fine 2010, durante il collasso della Seconda.

Eppure era l’unica proposta di legge antimafia proveniente dalla Calabria e redatta da un calabrese di spessore. In quei diciassette anni, lo dico e ribadisco da testimone oculare, le associazioni antimafia non c’erano o, se c’erano, dormivano e il giudice De Grazia ha dovuto condurre praticamente da solo la sua battaglia per ottenere una vittoria a metà. Vittoria non sua, ma della società civile contro una classe politica impreparata, insufficiente e collusa che è la prima causa delle condizioni del Sud, profondo e non.

Mattarella, che a Locri ha detto parole ispirate e forti contro le mafie, ha mai seguito in prima persona una campagna elettorale da quelle parti? Ha mai visto che succede in tante imprese? Ha mai indagato le condizioni di vita di un precario, condannato a baciare le pile al politico o al boss (fa lo stesso) per non fare la fame peggio di quanto già non la faccia?

E don Ciotti, che non meritava l’offensività di quell’epiteto, ha mai riflettuto che anche in Calabria le associazioni antimafia spuntano come i funghi, elargiscono premi, spesso prendono fondi pubblici e promuovono qualche carriera e nulla più?

A seguire alcune cronache che riferiscono di brogli presunti e inerzie reali, verrebbe da dar ragione a don Luciano Liggio, un altro che di mafia se ne intendeva, quando disse a un giornalista: «Se esiste l’antimafia vuol dire che esiste anche la mafia».

Ecco, qui da noi la situazione è questa. Grazie all’antimafia, quella stigmatizzata a suo tempo da Leonardo Sciascia, si fa carriera: in politica, nelle redazioni, nel notabilato che conta. E pazienza se poi – ad articoli scritti, a pene irrogate e ad urne chiuse – le cose non accennano a cambiare.

Nonostante tutto, spero che quelle brutte frasi, brutte nei confronti degli “sbirri” che rischiano la pelle e in quelli di chi l’antimafia la pratica per davvero, le abbia scritte davvero qualche mafioso o qualche fiancheggiatore: vorrebbe dire che la mafia è più stupida di quel che è.

Ma, ad occhio, quelle frasi esprimono solo disperazione. Ed è il caso di riflettere, più che di indignarsi. Prima che un’intera regione, in cui lo Stato si è spesso identificato con quei “colletti bianchi” che sono le propaggini “colte” della criminalità, varchi l’infame – e cortissima – soglia che dalla disperazione porta alla rassegnazione.

Saverio Paletta

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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