Le procure accusano, Gentiloni molla Verdini
Il leader di Ala è nei guai e con lui trema la lobby toscana
Anche i nodi di Denis Verdini, il potente senatore-banchiere, sono arrivati al pettine. E il siluro lanciato dal Giornale che, con tono gongolante, ha commentato che «le fortune verdiniane stanno via via declinando» lo conferma.
In quest’espressione c’è aria di vendetta, che soffia da Arcore. Già: Verdini fu, nei lontani anni ’90, tra i primi a salire sul carro di Berlusconi. A dirla tutta, un po’ tardi per essere considerato un forzista della prima ora. Già repubblicano, il toscanaccio passò in Forza Italia quando si rese conto che il 16% preso con il Patto di Mariotto Segni non gli era servito a entrare in Parlamento e non gli avrebbe neppure potuto assicurare quella carriera politica che doveva essere funzionale al suo ruolo di astro nascente delle finanza fiorentina. C’è da dire che come forzista il Nostro è stato coerente: espressione dell’economia bancaria della sua zona, Verdini si è dato da fare, non appena eletto consigliere regionale azzurro della Toscana (1995), nella più spericolate sortite berlusconiane, tra cui il memorabile duello tra il garantista Giuliano Ferrara e l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro al Mugello.
Battaglia persa e un po’ obbligata, visto che il senatore-banchiere era socio al 15% del Foglio, fondato e diretto dal corpulento ex comunista ed ex socialista craxiano non ancora neoantiabortista passato con l’allora Cavaliere.
La battaglia, perdente per il corpulento giornalista, fu fruttuosa per Verdini, perché da allora il seggio in Parlamento a Verdini non gliel’ha contestato nessuno. Prima con i listini bloccati, perché i pochi voti censiti (poco meno di 3mila nei collegi dell’hinterland fiorentino) per le Regionali non avrebbero consentito al finanziere-monetarista di accedere ai palazzi romani. Poi con le posizioni blindate nelle liste del porcellum, che hanno semplificato molte cose ma, in questo caso, soprattutto la carriera di Verdini.
Le ultime mazzate, cioè la richiesta di 11 di carcere avanzata dal pm fiorentino Luca Turco e le richieste di risarcimenti multimilionari delle parti civili creditrici e della Presidenza del Consiglio, hanno appannato la stella del papà e autoproclamato leader di Ala. Se le cose gli andassero male, nel che non speriamo per garantismo e senso della decenza, Verdini si ritroverebbe costretto a combattere, forse fino alla Cassazione, come Nicola Cosentino, il suo ex collega azzurro degli anni d’oro. E, peggio ancora, dovrebbe pagare un centinaio di milioni alle parti civili: 48 milioni alla filiera di parti civili private guidate dal Monte dei Paschi di Siena e 42 milioni alla Presidenza del Consiglio per truffa sui fondi destinati all’editoria.
La vicenda, come molti ormai sanno (o almeno lo sanno i lettori e gli spettatori non del tutto narcotizzati dai bombardamenti mediatici a suon di femminicidi, starlette, gossip e cronaca nera spicciola) ha avuto inizio nel 2010, mentre la stella dell’ancora Cavaliere iniziava a declinare, col crac del Credito Cooperativo Fiorentino, di cui il finanziere-senatore era presidente. Allora l’astro di Renzi iniziava appena ad accendersi e un Bersani qualsiasi poteva tenerlo a bada. Dopodiché, forse, Verdini ha pensato bene di far leva sull’estabilishment toscano, da cui (e grazie a cui) l’ex sindaco di Firenze aveva iniziato la sua ascesa. Tant’è: nell’Italia delle autonomie e sin troppo garantista nei confronti di quelle autonomie che, arrivate alla metastasi, la stanno divorando, le solidarietà territoriali pesano più delle idee e dei progetti. Ed ecco che il Nostro, fedele a Berlusconi anche dopo la fine del Pdl, nel 2014 dopo un pranzo turbolento fondò Ala per passare con Renzi, arrivato al massimo del successo.
Difficile dire se Verdini, abile e spregiudicato, abbia aspettato che i tempi maturassero per consentire uno strappo premeditato da tempo oppure abbia giocato d’azzardo, come fanno i finanzieri incalliti quando praticano il trading. Ed è altrettanto difficile dire se l’emarginazione nei suoi confronti praticata da Gentiloni sin da subito sia dovuta al fatto che il neopremier avesse voluto per tempo prendere le distanze da scandali o ad altro. In quest’ultimo caso, al desiderio-necessità di ridimensionare il cosiddetto partito toscano cementatosi attorno alle banche della filiera tosco-veneta, come si è capito dalle recenti inchieste sulle crisi bancarie che rischiano di mettere in ginocchio il Paese e comunque lo consegnano mani e piedi ai potentati della finanza europea.
Per molto meno, Fini si prese l’epiteto di traditore quando ruppe l’idillio con l’ancora potente Berlusconi. Per qualcosa di meno un’analoga sorte era capitata ad Alfano, quando con Ncd aveva trasmigrato un po’ di notabili da destra a sinistra. Verdini, che stava facendo la stessa cosa dell’ex ministro dell’Interno, era passato per l’ultimo dei furbetti e ora rischia di rimanere con cerino in mano.
Di sicuro, la sua carriera politica, più efficace che brillante, ne uscirà compromessa mentre Ala si liquefarà progressivamente. Capita spesso, per fortuna, a chi fa politica senza idee, naufragate assieme al vecchio mondo laico, e fidandosi solo del binomio quattrini & potere.
La corsa di Verdini finisce qui? Forse. Ma le ambizioni dell’estabilishment che l’ha prodotto e lanciato non si fermano. E probabilmente è lì, in quei corridoi di palazzi antichi tirati a lustro, che si deve continuare a scavare.
8,278 total views, 8 views today
Comments