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Caos arabo-American style. Seconda parte

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Anche dietro le primavere arabe c’è Canvas, una fondazione creata a Belgrado su ispirazione americana per abbattere Milosevic. I metodi non violenti sono diventati, grazie agli attivisti serbi e agli insegnamenti di un ex berretto verde e di un professore di filosofia, un’arma. Che funziona solo a metà: ha destabilizzato i vecchi regimi ma, anziché promuovere la democrazia, ha aperto la porta ai gruppi integralisti

Cosa ci fa un professore di filosofia americano, noto per il suo pacifismo ad oltranza, assieme a un ex colonnello dei marines? Chi dei due ha convertito l’altro al suo credo? Nel caso di Gene Sharp, filosofo, teorico della disobbedienza civile e dei metodi non violenti, e di Robert Helvey, veterano del Vietnam, militare di lungo corso e teorico delle tattiche di guerriglia e di controinformazione, si può parlare di influenza reciproca. Già: la guerra delle informazioni e il pacifismo si somigliano più di quanto non si creda e dalla somiglianza dei metodi alla comunanza degli scopi il passo è breve.

Sharp nel 1983 fonda a Boston l’Albert Einstein Institute, una specie di scuola per «lo studio e l’uso della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo» ed Helvey, per dirne una, vi insegna, a partire dall’inizio del millennio, una materia piuttosto particolare e di sicuro gradita al fondatore dell’istituto: Teorie della resistenza non violenta. Ma anche da pensionato Helvey continua a servire bene la patria, perché la sua specialità, maturata in oltre trent’anni, è molto gradita all’estabilishment militare: infatti è docente anche presso la Army Defense Intelligence School, istituita, appunto, presso il servizio segreto militare.

Tanto impegno – non solo teorico visto che Helvey per anni ha organizzato azioni clandestine e si è coperto di gloria in Indocina – non poteva non sfociare in un manuale considerato un classico: On Strategic Nonviolent Conflict: Thinking about the Fundamentals. I contenuti? Manco a dirlo, una serie nutrita di consigli pratici su come rovesciare le dittature, se possibile senza neppure sparare un colpo.

L’assonanza teorica con Sharp, considerato una specie di Gandhi postmoderno, non potrebbe essere più forte. Infatti, anche il prof dell’Ohio è autore di un classico: From Dictatorhip to Democracy, un super best seller tradotto in trenta lingue.

Questa bibbia dei nonviolenti 2.0 è il testo sacro di Otpor e Canvas, il movimento politico e la fondazione creati a Belgrado da Srda Popovic e da altri 12 studenti universitari. Il movimento Otpor esordì nel 2000 con una serie di azioni di piazza pacifiche e non violente che diedero la spallata finale a Slobodan Milosevic. Proprio quest’esperienza, basata sugli insegnamenti di Sharp, ha ispirato le iniziative di Canvas, concepito come un’estensione internazionale di Otpor, dapprima nei paesi dell’ex impero sovietico e poi nel mondo arabo mediterraneo.

Ma un pugno di studenti, per quanto ben intenzionati e traboccanti di ideali, non poteva organizzare tutto questo popò di roba da solo. Soprattutto, non poteva mettere a punto con tanta chirurgica precisione un metodo che ha funzionato per oltre 10 anni, dalle rivoluzioni colorate dell’Europa dell’Est e del Caucaso, alle cosiddette primavere arabe d’inizio decennio. L’aiutino viene dagli Usa. In particolare dalla Cia: nel 1999 l’allora numero uno dell’agenzia spionistica più famosa del mondo, George Tenet, apre un ufficio in Bulgaria, proprio per sostenere le opposizioni serbe a Milosevic. Qualche settimana dopo l’azione si sposta a Budapest, in particolare nei locali del lussuosissimo Hotel Hilton, dove (indovinate?) Bob Helvey impartisce un addestramento intensivo alla lotta non violenta agli attivisti di Otpor.

Queste notizie sono il classico segreto di Pulcinella, visto che l’intervento della Cia viene diramato dal Monitor di Sofia e il corso intensivo all’Hilton è divulgato invece dal New York Times. Ma tant’è, già nel 1991 Alan Weinstein, uno degli uomini a cui Reagan aveva dato il compito di riorganizzare la politica estera americana aveva parlato chiaro: «Molto di quello che facciamo veniva fatto 25 anni fa di nascosto dalla Cia». Più esplicito di così, il messaggio non poteva essere. Nel mondo post guerra fredda, che si apprestava a diventare unipolare, il segreto non serve più per ingerirsi negli affari di altri stati sovrani e l’arte di rovesciare gli avversari dall’interno, magari sobillando le folle si trasforma in un’elegante operazione di marketing.

Il metodo messo a punto da Otpor e divulgato da Canvas un po’ in tutto il mondo riflette alla grande questa nuova mentalità: i moti di piazza diventano flash mob colorati, in cui gli attivisti vestono tutti allo stesso modo (ricorda qualcosa la rivoluzione arancione dell’Ucraina?), i simboli sono semplici (si pensi al pugno chiuso esibito da Otpor a Belgrado, che poi è ricomparso nel 2011 in Egitto o alle rose apparse nel 2003 in Georgia), nomi e slogan elementari. Tutti o quasi gli attivisti sono reclutati tra giovani privi di esperienza politica e i moti di piazza avvengono sempre o quasi in occasione di importanti appuntamenti elettorali, il più delle volte tramite un’organizzazione capillare, come è avvenuto in Ucraina e in Egitto.

I motivi delle rivolte, che si sono sempre svolte in maniera pacifica, sono i più svariati, tuttavia in nessun caso i rivoltosi hanno preso di petto i regimi a cui si opponevano, bensì sono partiti da pretesti (ad esempio, l’eccessivo caro vita in Tunisia). La contrapposizione frontale contro l’estabilishment al potere, spesso già screditato di suo, è sempre stata un esito delle tensioni della piazza, mai un punto di partenza nella lotta.

Il metodo Belgrado ha funzionato sin troppo bene. Al punto che gli attivisti di Canvas hanno preso il posto degli specialisti statunitensi nel divulgare le tesi di Sharp e di Helvey tra gli aspiranti rivoluzionari. Gli americani apprezzano, eccome, l’impegno e la dedizione alla causa della democrazia di Popovic e soci. E li rimpinzano di quattrini: nel 2000 il New York Times rivela che Otpor avrebbe ricevuto, a partire dal 1998, alcuni milioni di dollari da benefattori statunitensi. Tra queste somme, danno piuttosto nell’occhio i 237mila dollari donati nel 2000 dal National Endowment for Democracy, il fondo stanziato annualmente dal Congresso di Washington per promuovere la democrazia nel mondo. E c’è chi si spinge oltre, come l’associazione Freedom House, che assume Aleksander Maric e Stanko Lazendic, due stretti collaboratori di Popovic, come consulenti per i movimenti giovanili in Ucraina e Bielorussia.

Dall’Europa e dall’Asia ex comuniste ai regimi arabi mediterranei, il passo è stato breve, visto che le teorie e i metodi di Sharp sono risultati graditi sia ai repubblicani dell’era Bush che ai democratici dell’era Obama.

Forse risale al 2007 la decisione di attaccare i paesi arabi moderati. In quell’anno i ricercatori della Rand Corporation, il centro studi di Santa Monica legato al Pentagono e alla Casa Bianca, mette assieme un corposo dossier intitolato Building Moderate Muslim Networks, in cui promuove una specie di guerra delle idee per rafforzare la società civile e dare un ruolo ai musulmani moderati prima che i regimi autoritari (quelli di Mubarak, Ben Ali, Gheddafi e Assad) siano rovesciati dagli integralisti, va da sé, ostili agli Usa. La tesi, elaborata per l’amministrazione Bush, viene presa piuttosto sul serio anche dallo staff di Obama. E il metodo è quello di Canvas.

Ma sulle presunte ingerenze gli americani mettono le mani avanti attraverso le dichiarazioni di Stephen McInerney, il direttore del Pomed (Project on Middle East Democracy): «La rivoluzione è una loro scelta», spiega McInerney al New York Times, «Noi non li abbiamo finanziati e aiutati per scatenare la protesta, li abbiamo sostenuti nello sviluppare le capacità organizzative e di mobilitazione». Le stesse cose che diceva Popovic, nel frattempo diventato deputato in Serbia. Ed ecco che, in questa logica, anche gli alleati, cioè i leader dei regimi abbattuti durante le primavere arabe, diventano sacrificabili.

Peccato solo che il metodo sia praticato alla grande da altri soggetti, il Qatar e l’Arabia Saudita, pieni di quattrini ma poveri di democrazia. Approfittando delle crepe dai rivoluzionari 2.0 nel Maghreb e nel Medio Oriente, i gruppi tradizionalisti (Fratelli Mussulmani) e integralisti si sono fatti spazio grazie ai petrodollari degli emiri e hanno trasformato tutti i territori in zone di caccia in cui far proseliti tra le popolazioni stremate dalla crisi e radicalizzate dal malcontento.

Gli apprendisti stregoni hanno rotto le barriere e dal caos rischiano di nascere nuovi ordini, ben più pericolosi per l’Occidente, dei vecchi regimi destabilizzati. Come uscirne? Chiedetelo a Canvas.

Per saperne di più

Vai alla prima parte

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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