Caos arabo-American Style. Prima parte
Le primavere arabe hanno trasformato il Medio Oriente in una polveriera. A distanza di sei anni dai moti di piazza che hanno rovesciato i regimi dei Paesi mediterranei il bilancio dei morti è pesantissimo e il fallimento politico palese. Dalla Tunisia alla Siria c’è stata un’unica regia con base a Belgrado, come era già avvenuto nello scorso decennio nei territori dell’ex Urss. I risultati sono uguali: Paesi destabilizzati e collassati in preda a guerre civili cruente. Morale: la democrazia non è avanzata di un passo e l’egemonia Usa è sempre più contestata. Valeva la pena? Vi raccontiamo la storia di un nuovo metodo di golpe, sperimentato a Belgrado, rodato nel Caucaso e perfezionato nel Mediterraneo con costi umani e politici pesantissimi.
L’unica rivolta araba più o meno riuscita è stata quella tunisina. Un gioco da ragazzi: dapprima il temuto Julian Assange o chi per lui diffonde attraverso WikiLeaks un bel dossier (senz’altro fondato) sulla famiglia del presidente Ben Alì, il leader del Partito socialista Neo Destur che ha egemonizzato il paese nordafricano sin dagli anni ’80 (e i maligni sussurrano che dietro il golpe con cui Alì depose il suo predecessore Habib Bourghiba ci fosse lo zampino di Craxi, ansioso di attrarre la Tunisia nell’orbita italiana), poi scoppiano le rivolte et voilà, in pochi mesi il regime, privo di sostegni nell’opinione pubblica internazionale e bollito dagli scandali, è andato.
Al suo posto ha preso piede un sistema multipartitico, dietro al quale gli addetti ai lavori intravedono lo zampino del Qatar, che non è certo il massimo a democrazia. In compenso, la Tunisia di oggi è un po’ meno sicura, visto che l’accresciuta libertà ha dato campo libero agli attentatori, suicidi e non, e la crisi economica che nel 2010 ha dato il via alla rivolta non è superata.
Molto peggio è andata all’Egitto: la cacciata di Hosni Mubarak, padre padrone del paese sin dai primi anni ’80, non ha portato la tanto sospirata democrazia né, peggio ancora, ha innalzato il livello di libertà degli egiziani. Cacciato Mubarak, l’Egitto ha attraversato un periodo di profondi disordini malgestiti dalla presidenza debole di Mohamed Morsi, incapace di gestire la presenza dei Fratelli Musulmani. Risultato: il golpe dell’esercito che ha portato al potere l’ex capo dello Stato Maggiore dell’esercito Abd al-Fattah al-Sisi che per restituire stabilità all’antico regno dei faraoni ha ripreso i metodi, secondo molti anche peggiorandoli, del deposto Mubarak. In altre parole, l’Egitto ha pagato, in termini di repressioni e di vite umane, un conto salatissimo per passare da una dittatura all’altra.
Ma c’è chi sta peggio.
Ad esempio la Libia, passata dall’eccessiva stabilità del deposto (e ammazzato) Gheddafi a una situazione non troppo diversa rispetto a quella della Somalia, per cui è stata coniata l’espressione Collapsed State, Stato collassato.
A tacere della Siria, trasformata da stato sovrano a teatro di contese altrui, che hanno trasformato la feroce guerra civile in un braccio di ferro internazionale in cui è entrato a gamba tesa anche l’Isis.
Il continuo bombardamento mediatico, costellato da non poche ipocrisie (ad esempio il senso di critica e di ostilità perenne solo nei confronti dell’intervento russo a favore di Assad) ha lasciato in tutti questi casi solo due tracce: l’immagine dei rivoltosi che inneggiavano alla libertà e alla democrazia e poi le riprese delle macerie fumanti.
Per capire di più occorre riavvolgere la moviola. Con un’avvertenza: in ciò che stiamo per dire non c’è dietrologia perché non ce n’è bisogno. Ci limitiamo solo a mettere assieme le date e i dati di facile consultazione.
Iniziamo dalla cronologia. Le primavere arabe scoppiano a partire dal 2010 e a partire dalla Tunisia, il paese più facile da destabilizzare e ristabilizzare. Da lì, a macchia d’olio e con una singolare sincronia, i moti di piazza si trasmettono all’Egitto, alla Libia e infine alla Siria. Il 2010, tra le altre cose, è anche il giro di boa della prima amministrazione Obama. È solo una coincidenza oppure è possibile rintracciare lo zampino degli Usa al di fuori delle consuete supposizioni sui ruoli giocati dalla Cia e dalla Nsa in tutte queste vicende?
Parlavamo di notizie in chiaro e di facile reperibilità. Infatti, a rivolta egiziana avvenuta Aljazeera intervista Muhammad ‘Adil, uno dei fondatori del movimento 6 Aprile, che causò il defenestramento di Mubarak, e protagonista dei moti di piazza Tahrir. Con molta schiettezza ‘Adil ammise di essere andato a Belgrado a seguire i corsi di Canvas e di essere tornato in Egitto carico di materiali audiovisivi e di manuali in lingua araba da diffondere tra i propri compagni di lotta.
Fermiamoci qui il tempo necessario a rispondere a una domanda semplice. Cosa è Canvas? Questo nome, che ricorda un termine della programmazione per il web, in realtà è un acronimo che sta per Center for applied non violent action and strategies. In pratica, una sorta di scuola per rivoluzionari non violenti. Il Canvas, cuore e cervello slavo ma nome anglosassone, è stato fondato da Srda Popovic, un ex studente dell’Università di Belgrado, un anno dopo la cacciata dell’ex presidente serbo Slobodan Milosevic. Intendiamoci, dopo il disastro del Kossovo e dell’intervento Nato che ne seguì, Slobo era bollito. Solo che serviva un’altra spallata. A dargliela provvide – indovinate? – Popovic, che nel 1998 aveva fondato assieme a 12 colleghi un movimento chiamato Otpor. Nome semplice, alla lettera vuol dire resistenza, e simbolo di un’efficacia elementare: un pugno chiuso stilizzato. Per quanto ridotto al lumicino, Milosevic, abilissimo a giocare la carta dell’orgoglio nazionale serbo, godeva ancora di una residua popolarità. Infatti, alle presidenziali del 2000 rischiava di arrivare al ballottaggio. Se non c’è arrivato è stato grazie all’impegno di Otpor che organizzò in quattro e quattr’otto una serie di manifestazioni di piazza.
Il resto è storia nota. La ripetiamo solo per far capire che allora Popovic, attraverso Otpor, aveva messo a punto un metodo che, grazie alla fondazione Canvas, si sarebbe ripetuto più volte in diverse zone calde. Soprattutto in quelle dell’ex impero sovietico, che gli Usa di Clinton, si apprestavano a trasformare in espressione geografica.
Proprio nell’area caucasica Popovic e i suoi avrebbero svolto, all’inizio del millennio, un formidabile tirocinio che li avrebbe portati a diventare un punto di riferimento della politica estera Usa e dei rivoltosi del mondo arabo.
Niente dietrologie neppure in questi casi: parlano i dati. Vediamoli.
Ne 2003 inizia la serie di rivoluzioni colorate che avrebbe smantellato la Csi. Si comincia dalla Georgia, dove i consulenti serbi ispirano il movimento di resistenza civile Kmara (che tradotto significa Basta). La continuità con Otpor è palese anche nel simbolo delle rivolte, il celebre pugno chiuso. A fare le spese della rivolta è il presidente Shevardnadze, filorusso ed ex ministro degli esteri sovietico dell’era Gorbacev. Accusato di brogli elettorali, Shevardnadze è costretto a dimettersi dalla pressione della piazza. Al suo posto entra il filo occidentale Mikheil Saakashvili. Ha trionfato la democrazia? Proprio no. La Georgia apre di notto all’economia occidentale e aderisce alla Nato. Però si destabilizza. Al punto di perdere due pezzi: l’Ossezia del Sud, diventata indipendente dopo la guerra del 2008, e l’Abkazia, coinvolta nel conflitto tra Ossezia e Georgia. Le due regioni sono di fatto sotto il protettorato russo.
Nel 2004 tocca all’Ucraina. A livello tattico la celebre Rivoluzione Arancione è un vero capolavoro per Popovic e i suoi, che perfezionano il metodo inaugurato contro Milosevic nelle Presidenziali ucraine in cui il filooccidentale Viktor Juscenko è quasi in parità con il filorusso Viktor Janukovic. Il movimento arancione Pora (È ora). Scende in piazza e accusa Jushenko di brogli. Le elezioni sono annullate e Jushenko vince la nuova consultazione elettorale. Vince la democrazia? Sarà. Ma nel frattempo chi ci guadagna sono gli Usa, che grazie ai buoni uffici della premier Julija Timosenko ottengono accordi favorevoli sulle forniture di gas e accerchiano la Russia, visto che Ucraina e Georgia si alleano. Il processo di destabilizzazione dell’Ucraina è iniziato allora, in quel lontano 2004, in cui è stata aperta una profonda spaccatura tra la parte russa e quella ucraina della popolazione.
L’ultimo successo del metodo Canvas nell’ex Urss risale al 2005, in occasione delle Presidenziali del Kirghizistan. Vittima dei moti di piazza organizzati dal movimento KelKel (Rinascita) è il presidente uscente, va da sé filorusso, Askar Akaev, che, accusato dei soliti brogli, è costretto a fuggire in Russia. Stravince il filo occidentale Kurmanbek Bakiev e la base militare Usa a Manas quasi raddoppia di entità e di organico.
Torniamo ai quattro paesi arabi destabilizzati nel 2004. L’unico per cui si hanno prove certe dello zampino di Canvas è l’Egitto: risulta, al riguardo, che nel 2011, poco prima che scoppiasse la rivolta del 25 gennaio, il manuale di Popov fosse stato scaricato dal web oltre 15mila volte. E che, tra i rivoltosi, circolassero addirittura anche copie in lingua inglese del manuale già utilizzato a Belgrado da Otpor. Bastano questi elementi a provare la regia statunitense nella destabilizzazione del Medio Oriente? Ovviamente no. Ma ci sono altre prove, che divulgheremo a breve. Per ora, vi lasciamo con altre due domande. La prima: quali sono i rapporti tra il gruppo di Popov e gli Usa? La seconda: a che titolo Popov e i suoi fanno parte della strategia della politica estera americana, in particolare di quella democratica? E con che mezzi Canvas è stato supportato?
Per saperne di più
9,499 total views, 2 views today
Comments