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Duonnu Pantu: il prete pornografo che sfidò l’arcivescovo

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La singolare disputa tra un sacerdote, famoso per i suoi versi spinti in vernacolo calabrese e le abitudini non in linea con i doveri canonici, e un alto prelato napoletano, massima carica religiosa della Cosenza seicentesca

La storia che state per leggere è a dir poco pruriginosa. Riguarda una singolare contesa seicentesca tra un arcivescovo nobile e potente e un prete pornografo e – parrebbe – piuttosto boccaccesco anche nei comportamenti pratici.

Ma è anche una storia dubbia, perché si regge su due elementi certi e su uno evanescente.

I fatti certi sono l’ambientazione e uno dei protagonisti: rispettivamente, Cosenza sotto la dominazione spagnola e Gennaro Sanfelice, alto prelato napoletano e arcivescovo della città calabrese dal 1661 al 1694.

Invece Domenico Piro è una figura dai tratti storici non verificati del tutto. Quel poco che si sa di lui deriva dal lavoro di alcuni studiosi che, a partire dai seicenteschi Elia D’Amato e Luigi Aceti, ne hanno ricostruito l’identità per sommi capi.

Un’immagine notturna del Duomo di Cosenza

Si sa che Piro fu un sacerdote e visse suppergiù durante l’arcivescovato di Sanfelice.  Ma i suoi contemporanei lo conoscevano come poeta dialettale e pornografo e, soprattutto, attraverso uno pseudonimo, tutt’oggi famoso: Duonnu Pantu.

Così famoso che per molti calabresi, specie over cinquanta, è sinonimo di erotomane, per dirla con un eufemismo…

A questo punto, è quantomeno scontato farsi qualche domanda. La prima: come hanno convissuto i due, il potente arcivescovo e il prete discolo, nella stessa arcidiocesi? Evidentemente non è stato facile. Tant’è che sono arrivati allo scontro. E com’è avvenuto quest’ultimo? Infine: ma lo scontro è avvenuto davvero?

Duonnu Pantu: l’osceno in giallo

È dovuto passare oltre un secolo e mezzo dalla morte di don Domenico Piro, avvenuta nel 1696, perché si iniziasse a far luce sulla biografia di questo singolare prete pornografo.

Il primo, importante, tentativo lo fa nel 1833 Luigi Gallucci, un medico di Aprigliano appassionato di poesia e lui stesso poeta vernacolare. Aprigliano è un paese enorme (oltre 120 kmq) situato tra Cosenza e la Sila. Proprio lì nasce, nel 1660, Domenico Piro.

Piro, a dispetto dell’uso spinto del vernacolo, non è un popolano: è figlio di un notaio e nipote di due sacerdoti, i fratelli Giuseppe e Ignazio Donato, anch’essi appassionati poeti dialettali. I tre, zii e nipote, alternano la somministrazione dei sacramenti e le pasquinate.

Un’immagine antica di Aprigliano (Cs), il paese natale di Duonnu Pantu

Infatti, sono conosciuti come i gapulieri, una vecchia espressione dialettale che sta per criticoni o strafottenti. Questo singolare collettivo di scrittura d’epoca si segnala a più riprese per i sonetti e i poemi osceni che produce a getto continuo. I più spinti sono firmati con lo pseudonimo Duonnu Pantu, che secondo Gallucci sarebbe, appunto, Piro. Su tutti spiccano La Cazzeide e La Cunneide, due poemetti che mescolano immagini superporno e riferimenti coltissimi, soprattutto alla mitologia greca.

Questi versi spariscono quasi del tutto alla morte del loro autore. Parrebbe perché, come riferisce lo studioso Giulio Palange nella sua prefazione alle Poesie di Duonnu Pantu (Cosenza, Mit 1977), i familiari avrebbero distrutto i manoscritti per evitare rogne.

Ed ecco che i versi pantiani finiscono nella tradizione orale. Passano di bocca in bocca e subiscono distorsioni. Più o meno la stessa cosa succede alla vita di Piro, che si riempie di aneddoti, alcuni inventati di sana pianta, altri che hanno un fondamento di verità. È vero, ad esempio, che don Piro finisce nelle celle di rigore vescovili un paio di volte: perché colto in flagranza durante un amplesso e per i suoi versi osceni. In entrambi i casi su ordine dell’arcivescovo.

La copertina dell’antologia poetica di Duonnu Pantu

L’arcivescovo napoletano

Parlare di nepotismo, nel caso di monsignor Gennaro Sanfelice, può essere il minimo.

Sanfelice è fratello minore di Giovanni Francesco, duca di Lauriano, e, soprattutto, cugino di Giovanni, a cui si lega e che inizia la carriera ecclesiastica prima (e meglio) di lui.

Forte di una laurea in Utroque Jure (cioè Diritto civile e canonico, l’equivalente dell’odierna Giurisprudenza), Gennaro prende la tonaca e arriva a Cosenza nel 1650, al seguito del cugino fresco di nomina come arcivescovo e ne diventa vicario.

Svolge questa funzione quel che gli basta per capire la città. Soprattutto, per capirne i nobili, i loro capricci e le loro prepotenze.

Palazzo Sanfelice a Napoli

Nel 1852 Giovanni Sanfelice torna a Roma su ordine del papa che lo invia a Colonia come Nunzio Apostolico. Tuttavia, mantiene la titolarità della sede cosentina, che è gestita da Gennaro come facente funzione.

Questa situazione dura fino al 1660, quando Giovanni muore e il papa conferma lo stato di fatto, cioè nomina Gennaro arcivescovo di Cosenza.

La situazione è senz’altro anomala: una famiglia monopolizza la massima carica ecclesiastica del territorio per mezzo secolo. Tuttavia, quando si parla di Sud (e di Calabria in particolare) ciò non deve meravigliare: i politici che lasciano in eredità posizioni di potere, collegi elettorali e incarichi a figli e nipoti sono all’ordine del giorno. In quanto a nepotismo, il Mezzogiorno continua a fare scuola.

Una volta diventato arcivescovo anche di diritto, monsignor Sanfelice inizia a dare diversi giri di vite. Innanzitutto, al clero secolare, a cui tenta di imporre regole morali più rigide (segno che certi comportamenti borderline fossero piuttosto diffusi). Poi all’aristocrazia cittadina, che pretendeva di continuare a spartirsi le nomine dei confessori e degli amministratori dei conventi. Infine all’Inquisizione, di cui limita la giurisdizione solo ai casi di eresia conclamata e intollerabile.

In particolare, l’arcivescovo mette uno stop definitivo alla persecuzione dei valdesi, iniziata circa un secolo prima con il terribile pogrom di Guardia Piemontese.

Lo sterminio dei Valdesi della Calabria

Insomma: Sanfelice non è solo un blasonatissimo rampollo della Napoli bene. È un uomo di polso consapevole del suo ruolo. E, con tutta probabilità, piuttosto tollerante, come dimostra la controversia con Duonnu Pantu.

Una galera tutta da ridere

La prima volta don Domenico Piro finisce in cella di rigore perché beccato a fornicare in chiesa. Di questa vicenda, più o meno confermata dagli studiosi, c’è traccia in due poesie attribuite a Duonnu Pantu: Lu mumuriale (la supplica) e La pruvista (la decisione).

Nella prima, si parla di un sacerdote, tale Douonnu Crapiuolu o Duonnu Crapiune (da notare il gioco di parole dialettale tra capra e crapula) che chiede all’arcivescovo di essere scarcerato e inviato ad Aprigliano, per stare lontano dai guai, dalle tentazioni e dalle chiacchiere.

Sì è vero, ammette, ho fornicato. Tuttavia, ciò che alle persone comuni è vietato, a noi iniziati è permesso. Eppoi le guardie mi hanno interrotto a furia di bastonate prima che finissi.

Protagonista de La pruvista, invece, è monsignor Sanfelice, che decide senz’altro di accontentare Duonnu Crapiune. Ma a due condizioni: che sia discreto in certe cose e, soprattutto, non parli con nessuno della scarsa virilità dei mariti delle sue amanti.

Un’altra antologia di poesie di Duonnu Pantu

Ipocrisia o tolleranza? Forse tutt’e due.

Ce n’è anche per la Madonna

Il secondo episodio carcerario finisce ancora di più in burla. Stavolta don Domenico è in cella per i versi osceni.

Al solito, manda la supplica all’arcivescovo, che puntualmente lo riceve e lo rassicura: a breve sarà liberato.

Probabilmente don Piro soffre di una specie di sdoppiamento, per cui non riesce proprio a contenere il suo mr Hyde: Duonnu Pantu.

Infatti, appena tornato in cella, il sacerdote monello ne fa una delle sue: prende un cartello, ci scrive sopra «si loca» e lo appende alla porta.

Sanfelice non si fa volare la mosca al naso: riconvoca Piro e gli chiede il perché della scritta. «Monsignore, visto che me ne vado, resta vuota, quindi si loca», è la risposta beffarda.

«Bene», replica l’arcivescovo, «ci resterete voi finché non arriverà il nuovo inquilino».

A questo punto, la sfida entra nel vivo e Pantu gioca un’altra carta. Il prigioniero si è accorto che nel cortile davanti alla cella si radunano tutti i giorni dei ragazzini.

L’ingresso dell’Arcivescovato di Cosenza

Li chiama, gli insegna dei versi e gli affida un compito: recitarli ogni sera sotto casa dell’arcivescovo.

Eccoli: «Monsignù, Monsignù, fùttete l’ossa/ lu vicariu allu culu e tu alla fissa/ vi ca si nun me cacci de sta fossa/ iu dicu c’hai prenatu la patissa» (Monsignore, monsignore… se non mi tiri fuori dico che hai ingravidato la badessa).

Dopo alcuni giorni di questo battage, l’arcivescovo cede. Ma non vuole capitolare. E fa una proposta a Duonnu Pantu.

La libertà in cambio di una poesia religiosa dedicata alla Madonna. Ma, per cortesia, niente volgarità.

La leggenda narra che Pantu abbia eseguito il compito più o meno alla lettera. Ma di questa poesia resta solo un verso, in cui il Nostro racconta a modo suo la verginità della Madonna: «E nzinca chi campau la mamma bella/ de cazzu nun pruvau na tanticchiella» (ossia: «Finché visse, la mamma bella…»). Già: alle tentazioni Pantu non sa resistere.

Ma c’è da dire che l’arcivescovo mantiene comunque la promessa. Il che fa pensare che anche Sanfelice si fosse divertito non poco.

Pantu e l’arcivescovo: notabili a confronto

Un nobile napoletano di alto lignaggio, con grandi addentellati nelle curie che contano e un prete paesano di buona famiglia.

Monsignor Sanfelice e Domenico Piro hanno un grosso punto di contatto: fanno parte entrambi, l’uno da altoborghese l’altro da prelato aristocratico, dello stesso scenario seicentesco. L’arcivescovo è il piano alto o, se si preferisce, il frontman. Il prete discolo è il sottopancia. O, per citare Ligabue, il protagonista di una vita da mediano.

Nobile figlio di nobile o prete figlio di notaio e nipote di preti poco cambia: si è sul medesimo asse verticale in posizioni di assoluto vantaggio perché, alla fin fine, non si è popolo.

Quindi il presunto ribellismo che vari studiosi, a partire dal compianto Sharo Gambino, credono di aver trovato nella pornografia di Duonnu Pantu è solo una pia illusione. Semmai, le pasquinate pantiane sono gli sfottò di chi ha confidenza col potere e ne gestisce una fettina in subappalto.

Sharo Gambino

Le cose cambiano poco anche oggi: tutte le società sono piene di critici tollerati dal sistema, di cui costituiscono la classica valvola di sfogo.

E le repressioni in cui don Piro sarebbe incappato? Fornicare in Chiesa (o in altro luogo di culto) è reato anche oggi secondo le normative laiche. Cambia solo una cosa: non si è arrestati dai gendarmi su ordine del vescovo, ma dalle forze dell’ordine e chiunque può denunciare.

E la presunta ipocrisia di monsignor Sanfelice? Sarebbe il caso di parlarne con gli esperti di Diritto canonico. Infatti, la dottrina derivata dall’attuale Codex Juris Canonici distingue tra continenza perfetta (comportamento obbligato per i sacerdoti) e castità (voto pronunciato dai monaci).

Al riguardo, il canone 277 impone la «dovuta prudenza nei rapporti con persone la cui familiarità può mettere in pericolo l’obbligo della continenza oppure suscitare lo scandalo dei fedeli».

Ma, prosegue la norma, «Spetta al Vescovo diocesano stabilire norme più precise su questa materia e giudicare sull’osservanza di questo obbligo nei casi particolari».

Insomma, l’arcivescovo, con Duonnu Pantu, ha fatto il suo…

Piro, Aretino e Baffo: tre zozzoni in versi

Semmai, a proposito di pornografia, è più interessante notare che la figura di Duonnu Pantu si colloca, a livello cronologico, tra Pietro Aretino, vissuto nella prima metà del ’500, e il veneziano Giorgio Baffo, nato a fine ’600. Del primo, Pantu riprende le intuizioni goliardiche ma le traduce in dialetto calabrese. Baffo, invece, rilancia il vernacolo e osa molto di più (grazie anche alla maggiore tolleranza politica della Serenissima) nella polemica politica.

La vera forza di don Domenico Piro sta nello sdoganamento del dialetto che ne fa uno dei primi vernacolieri dell’Italia moderna. Un aspetto notato di recente dal compianto Oscar Lucente, autore di Domenico Piro alias Duonnu Pantu (Edizioni Orizzonti Meridionali, Cosenza 1986).

L’ultima tentazione di Pantu

La leggenda attribuisce a Pantu una morte degna della sua vita. O, almeno, della sua poesia.

È il 1696.

Malato di tisi e sul letto di morte, il giovane sacerdote sente gli amici e i parenti bisbigliare in attesa del trapasso.

Piro si risveglia di botto e chiede beffardo: «Si parrati ’i cunnu miscatiminnici puru a mia» (cioè: se parlate di… fatemi partecipare).

Poi chiude gli occhi e raggiunge Sanfelice, morto due anni prima.

[Alla cara memoria di Totonno Chiappetta]

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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