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Lettera aperta (e seria) ai neolaureati della Normale

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Valeria Magnaghi, Virginia Spacciante e Virginia Grossi sono diventate le star di luglio assieme ai colleghi con cui hanno inscenato una protesta più simbolica che concreta durante le loro sedute di diploma. Ma nel loro discorso restano punti deboli, nodi irrisolti e tanta, troppa ingenuità…

Care Valeria e Virginie, cari tutti,

Avete avuto coraggio e siete stati sinceri, nella vostra seduta di diploma: non dev’essere stato facile puntare il dito sulle storture del sistema accademico che, lo avete detto voi, vi ha comunque rese quel che siete: detentori di diplomi che valgono due lauree.

Specie nell’attuale sistema, in cui una laurea in lettere continua a valerne mezza.

E non dev’essere stato facile ammettere che avete preparato e letto quel discorso partendo da una posizione di oggettivo privilegio.

La Normale di Pisa

Alcuni di voi proseguiranno senz’altro il percorso di ricerca, che potranno sviluppare più all’estero che in Italia (come capita troppo spesso e in troppi settori agli aspiranti accademici più dotati).

Altri, invece, dovranno sporcarsi da subito le mani nel mondo del lavoro, dove li attendono le tante mortificazioni del sottomansionamento e del precariato.

Siete state brave, voi tre che ci avete messo la faccia, e tutti gli altri, che non si sono tirati indietro dal metterci la firma.

Ma siete stati anche ingenerosi e, in qualche passaggio, avete sbagliato bersaglio.

Soprattutto, ne avete sbagliato uno, su cui vi siete ostinati perché – grazie pure a un pregiudizio ideologico un po’ duro a morire – lo avete visto più grosso e quindi facile: il pensiero “neoliberale”, la cui applicazione al mondo accademico devasterebbe ogni forma di cultura a causa dell’aziendalizzazione del sapere e della ricerca.

Il vostro bersaglio è grosso, ma, a vederlo più da vicino, risulta piuttosto astratto: evoca pensieri economici sovrapposti a dottrine politiche o personaggi lontani, come, ad esempio, George Soros, che di sicuro non sa neppure della vostra esistenza.

Il problema non è il neoliberalismo (che chi scrive preferisce definire liberismo), con il suo carico di valori protestanti – l’iperefficienza e la competitività esasperata – di non facile applicabilità in un Paese cattolico come il nostro.

Baroni universitari

Il problema è fatto di persone e comportamenti concreti, di cui si sono occupati a più riprese vari giornalisti che, come chi scrive, probabilmente sorridono della vostra ingenuità.

Valeria, nella sua parte di discorso, ha parlato di un processo (per voi senz’altro involutivo) durato tredici anni, durante il quale in Italia si sarebbe fatta la classica “carne da porco” con la cultura, accademica e non.

Chi vi scrive, per il solo fatto di avere il doppio delle vostre primavere, può dire con serenità che il processo ha avuto un corso decisamente più lungo, di almeno trent’anni. Tutto è cominciato negli anni ’90, con l’istituzione delle autonomie universitarie, che seguiva a ruota quelle delle amministrazioni locali. Poi è proseguito lo scorso decennio, con il regime di “libera concorrenza”, che ha dato il via alle università online, le quali fanno una concorrenza spietata alle istituzioni “fisiche” proprio nei vostri settori.

Adesso si è nella fase ulteriore, che voi forse non siete riusciti a osservare a dovere: la sostanziale privatizzazione del mondo universitario.

Ma fatevi la vera domanda: cosa è rimasto in piedi tra un passaggio e l’altro? Non si teme di sbagliare nel rispondervi che sono rimaste in piedi le baronie, costituite, nell’ordine, da legami di sangue, di potere, di sesso (non manca mai e, secondo alcuni maligni, negli ambienti accademici ce ne sarebbe troppo…), di cordata e, infine, ideologiche, per il poco che l’ideologia conta oggi.

A partire da Felice Froio, autore del vecchio e pregevole (e purtroppo insuperato, se non dai fatti) “Le mani sull’Università”, ci sono almeno una ventina di giornalisti d’inchiesta che hanno fatto ciò che avrebbe dovuto fare un istituto o una facoltà di Sociologia funzionante a dovere: il tagliando a questa baronia, erede della cosiddetta “nobiltà giacobina” che prese il posto dei vecchi potentati a partire dal ’68.

Ovviamente, non senza essersi accordata prima con essi: quando c’è in ballo il potere vero, nessuno fa la rivoluzione. Soprattutto chi l’annuncia di più e a voce più alta.

Ed ecco, che, anche sotto questo aspetto, il vostro discorso sembra ingenuo: credete davvero che il problema dell’Università, inclusa la vostra, sia l’incapacità di colmare le distanze sociali?

Queste le produce la società stessa: c’è chi nasce ricco, povero, intelligente o stupido. Quindi le istituzioni di alta cultura si ritrovano queste differenze tal quali. Chi vi dice che sia davvero il loro compito mitigarle?

Aula universitaria

Una volta, forse, lo era. E non a caso l’articolo 34 della Costituzione – che avevate in testa e forse davanti agli occhi ma non avete mai citato – recita, tra le varie: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Questa bellissima norma è stata interpretata all’italiana: si è posto l’accento sul «privi di mezzi», spesso a discapito del «capaci e meritevoli». E si è legittimato un sistema in cui tanti pagavano tutto e altrettanti studiavano sottocosto o gratis a spese dei primi. O dello Stato, il quale ha finanziato più (e questo da sempre) le strutture “accessorie” che dovevano provvedere al welfare universitario che la ricerca.

E, a proposito di ricerca, non è vero che questa sia in calo: l’Italia non ne ha mai prodotta tanta, proprio perché le classi politiche, dal fascismo in avanti, si sono concentrate più sul cosiddetto “ascensore sociale” che non sulle prestazioni di élite.

Tuttavia, il sogno di dare tanto alla maggior parte di persone possibile, si è infranto sui dati che inchiodano tutta la didattica italiana.

La vostra Normale non è un’università di una zona disagiata del Profondo Sud. È un’istituzione elitaria che concorre con sue pari. Logico che vi chiedano di far ricerca, anche astrattissima, e di far finta che il mondo quasi non esista.

D’altronde, la vita reale è diventata feroce e competitiva su tutto e in tutti gli ambienti, a partire dai call center outbound e, al riguardo, vi ricordo che qualche mese fa è morta una giovane operaia tessile, vostra coetanea proprio dalle vostre parti. Perché dovreste essere esentati voi – che per accedere alla Normale avete subito persino i test del dna – da questa concorrenza? Voi vi candidate a essere una élite, la vostra sfortunata coetanea no.

Non può mancare, a questo punto, un passaggio sull’impegno sociale, che assieme al welfarismo a oltranza ha contribuito al declino dell’università italiana e all’affossamento del vostro settore. La verità è che le aule universitarie, dal ’68 in avanti, hanno traboccato di indottrinamento politico camuffato da impegno sociale e civile. E questo lo paghiamo oggi (e lo paghiamo tutti) con un enorme collasso cognitivo e con una produzione culturale zoppa e incompleta.

Voi non dovreste accusare il “sistema”, che si è aziendalizzato perché doveva procurarsi i soldi anche da sé, ma fare i conti in tasca a chi vi predica merito e produttività a tutti i costi A chi, lo avete detto voi, vi ha buttato in acqua prima che imparaste a nuotare. Queste persone sono all’altezza di ciò che predicano?

Migranti nei campi (a proposito di sfruttamento…)

Se sì, hanno applicato su di voi le regole che altri hanno applicato su di loro. Altrimenti, avete ragione voi e la loro è solo “retorica del merito”, buona a indorare la pillola dello sfruttamento intellettuale, che è grave come quello “manuale”, per cui tanti immigrati crepano sottopagati nei campi e nei cantieri.

È comprensibile la prudenza con cui non avete fatto nomi: stavate per diplomarvi e nessuno mette a repentaglio tanti sacrifici. Eppoi, fare i nomi non è roba da accademici bensì da giornalisti.

Voi avete puntato il dito con timidezza. Ed è già molto, perché nella generazione di chi scrive, si ingoiava di tutto: libretti tirati in faccia, insulti durante gli esami, ingiustizie manifeste, mattoni illeggibili spacciati per testi e prassi d’esame “contra legem”.

Rispetto a voi, accedevamo di più all’Università, ma ci laureavamo in meno. E non eravamo i più bravi e capaci, ma i più coriacei e resilienti: sapevamo che nella società avremmo trovato un posto migliore col “pezzo di carta”. Per voi non è così: accedete di meno a vi laureate di più e con voti più alti, grazie a una didattica “su misura” e comunque più semplificata.

La verità, a voler tirare le somme, è che l’ingenuità è un vostro merito e un nostro torto, perché avete a che fare con questo sistema per colpa della generazione di chi vi scrive. Noi potevamo chiedere (e forse ottenere) un sistema più giusto, con meno incrostazioni “assistenziali” e quindi meno costoso per tutti. Non l’abbiamo fatto, perché ci siamo cullati nel mito dello yuppismo in cui eravamo cresciuti.

E i risultati sono questi.

È superfluo, forse, mettervi in guardia da una cosa: vari politici cercano (lo dimostra il dibattito social) di mettere il “cappello” sulla vostra lamentela per farne una protesta. Attenti che non vi trasformino in “sardine” accademiche. Quelle vere si sono fatte inglobare, dopo aver contribuito a frenare i populismi. Voi fareste di peggio: puntellereste il sistema che criticate.

Criticate pure, allora. Ma fatelo con coerenza e nella maniera giusta.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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