Feltri e lo stupro: una riflessione
Il direttore editoriale di Libero interviene con un articolo pesantissimo sulla vicenda tragica della Terrazza Sentimento. La sua provocazione ha dato fastidio a molti, ma è ben contestualizzata in un processo mediatico in cui emerge più il contesto pruriginoso che il dramma della vittima. E sorge un sospetto: non è che il giornalista ha solo detto in maniera dura ciò che tanti pensano ma non osano neppure sussurrare?
Vittorio Feltri è intervenuto su Libero con un editoriale ultrascorretto al limite del trash sull’ultimo tormentone della cronaca-spettacolo: lo stupro Genovesi.
Feltri lo abbuiamo letto abbastanza a lungo da dire che “ci fa” e lo fa con la grande sincerità di chi conosce bene i propri lettori e i loro gusti.
Non c’è da meravigliarsi, allora, che il racconto della vicenda squallida e terribile della “Terrazza Sentimento” assuma, sotto la penna del giornalista ultralumbard, toni e colori quasi boccacceschi, in cui il confine tra vittima e carnefice si assottiglia e l’aspetto drammatico sfuma tra doppi sensi e insinuazioni degne del Pitigrilli più ispirato.
Feltri, se non lo si fosse ben capito, non parla a tutti, come d’altronde non lo fa nessuna grande firma: si rivolge a una fetta di lettori-spettatori di indirizzo e mentalità piuttosto conservatori, tra i quali non poche donne.
Questa fetta, che è senz’altro una “maggioranza silenziosa”, non sempre tollera il Catechismo Politicamente Corretto di indirizzo progressista tipico di certe élite o di minoranze comunque rumorose.
Di questo Catechismo forniscono esempi abbondanti gli interventi indignati e banalotti dedicati da Gianmichele Laino su Giornalettismo (leggi qui) e da Teresa Mura su Nextquotidiano (leggi qui) all’editoriale pepato di Feltri.
Già, scrive Feltri con la consueta sfrontatezza: «Quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele? Tanto più che Alberto godeva della fama da mandrillo. Sarebbe stato meglio rimanere alla larga di costui».
Ecco, invece, come reagiscono i due critici.
Laino si limita a una sfilza di interrogativi retorici: «Possiamo leggere queste affermazioni su un giornale che viene stampato nel 2020? Che ancora una volta prova a mettere in secondo piano la violenza sessuale rispetto al consumo della cocaina? Che mostra una donna come veicolo del piacere, come misuratore della libido?».
Mura, invece, si lancia in considerazioni piuttosto frettolose e ovvie: «A questo punto poteva risparmiarsi l’eufemismo del titolo e chiamare la diciottenne, che va ricordato è una VITTIMA degli abusi, in un altro modo, quello che probabilmente ha in testa». E ancora: «Siamo ancora al se l’è cercata su una prima pagina di un giornale. Chissà se Feltri ha letto come si sente la ragazza dopo essere stata trattata da colpevole».
Tutta l’umana comprensione per Michela, che di sicuro non se l’è cercata. Ma il punto reale è un altro: il processo a carico di Genovese è già iniziato. In maniera senz’altro irrituale, cioè sui media, ma non per questo meno efficace.
La vittima (ricordiamoci che Michela, a quel che finora risulta dall’inchiesta in corso, ha subito abusi sessuali, sequestro di persona e sevizie) ha testimoniato sui media – e, da ultimo, nel salotto serale di Barbara D’Urso – il proprio dramma dopo che Genovese ha provato in tutti i modi a scaricare le proprie colpe sulla cocaina, di cui ha ammesso l’uso e l’abuso.
La dinamica è processuale al cento per cento. L’offensore cerca di limare il più possibile la propria colpevolezza e di fatto fa passare un messaggio: la vittima è vittima ma non così vittima (e c’è da scommettere che nell’eventuale dibattimento voleranno le pezze). Al contrario, la vittima racconta la sua tragedia per far capire, attraverso la propria situazione psicofisica, che violenza ci fu e fu violenza piena.
Niente di più e niente di meno di quel che farebbero gli avvocati e il pubblico ministero davanti al giudice.
E Feltri, in tutto questo? Si è semplicemente allineato in parte alle tesi della difesa e in parte ha fatto leva su un sentire diffuso, che, a volerlo approfondire, è tutt’altro che maschilista. Non è maschilista la critica della corruzione sociale e dei vizi. E non a caso la vecchia volpe ha concentrato il tiro sulla polverina bianca, che nelle feste di Genovese girava a fiumi. Non è sessista la tirata d’orecchi ai genitori, con cui Feltri ha chiuso l’editoriale contestato. Già: perché una ragazzina da poco maggiorenne frequentava l’attico del cumenda mannaro (andare tre volte in un luogo significa frequentarlo) senza troppi problemi?
È inutile tirar fuori i Massimi Sistemi del Verbo Progressista per una vicenda che riguarda essenzialmente due persone: il carnefice e la sua vittima.
La domanda vera è: perché, ancora nel 2020, c’è tanta attenzione morbosa per queste storie squallide?
Forse perché c’è il sesso di mezzo e, ricordano tanti colleghi illustri, il sesso è una delle tre “s” del giornalismo. Ma anche le altre due, i soldi (quelli di Genovese) e il sangue (quello delle ferite fisiche di Michela) sono ben rappresentate in questa storiaccia. Che però – e per fortuna! – non finisce col morto e lascia presagire colpi di scena succosissimi, sia per i colpevolisti a prescindere sia per chi tenta di sminuire le colpe del riccone (speriamo solo che gli eventuali innocentisti abbiano il pudore di tacere).
Il ricco in mutande, ma anche senza, e travolto dai suoi vizi è uno spettacolo che, almeno dai tempi di Caligola, fa presa su un certo immaginario collettivo in cui la pruderie e l’invidia sociale coesistono in perfetto equilibrio.
E che dire dell’eterna Cappuccetto Rosso, che si riaffaccia nelle vesti di una modella giovane e – questo sì – ingenua, la quale voleva solo attraversare il bosco?
Il problema è proprio questo: il bosco, cioè un superattico con vista sulla Milano bene, che l’incauta Cappuccetto ha tentato di attraversare senza nessuno che le dicesse «attenta al lupo».
Feltri, in questo gioco delle parti, è solo un Grimm malevolo che dice in maniera cruda ciò che molti pensano ma, per paura dei Bacchettoni del Politicamente Corretto, tengono per sé. Le fiabe, tutte le fiabe, hanno una loro morale, che prima o poi si vendica. Stavolta ci siamo accorti che i drink di ciò che resta della “Milano da bere” sono diventati tossici da un pezzo.
La tragedia di Michela diventa un monito per tutte le Michele di questo mondo: adesso è toccato a lei. Ma attenzione: c’è sempre un lupo pronto a sbranare i sogni e la giovinezza di chiunque. E non si può proprio dare torto a Feltri quando afferma: stare alla larga. Dai boschi, aggiungiamo noi, se non ci si sa guardare dai lupi che immancabilmente li abitano.
Saverio Paletta
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Questo articolo, ridondante e becero, poteva solo scriverlo un uomo di mezza età.
Egregia Mira (ricostruisco il Suo nome dall’indirizzo e-mail allegato al suo messaggio),
Ho ricevuto critiche, anche più pesanti della Sua, per il commento all’affaire Genovese.
Me ne faccio una ragione: non scrivo per compiacere tutti (che sarebbe tra l’altro impossibile), ma mi illudo di stimolare la riflessione in chi ha il tempo e la pazienza di leggermi.
Perciò mi permetta una domanda: non sarebbe il caso di dissentire nel merito di quel che ho scritto?
La mia età anagrafica, invece, non Le interessa. Piuttosto: riservi a qualcun altro lezioni di stile e di deontologia. Mi sa che in tanti ambientini politically correct c’è fin troppa gente che ne ha bisogno.
E la prossima volta, se mai ce ne sarà una, abbia la compiacenza di firmarsi.
Grazie comunque per l’attenzione
Saverio Paletta