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Quando il cinema scivolò nell’hard….

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Teniamo fuori dalla conta mostri sacri come Pasolini. Lui si avvicinò parecchio, fu tra i primi, alla rappresentazione esplicita del sesso su pellicola. Ma con l’hard lui c’entrava davvero poco. Troppa poesia nella sua trilogia della vita e, al contrario, troppa crudezza nella discesa agli inferi di Salò.

I nudi frontali, per usare la terminologia della censura, c’erano. Ma rispetto all’exploitation che intossicava il cinema italiano dei primi ’70 erano quasi casti, come se la poesia fosse l’antidoto ai bassi istinti.

Negli stessi anni la Svezia faceva i primi passi verso la pornografia, già sdoganata su carta (con riviste che arrivavano anche in Italia attraverso strane forme di contrabbando, nei doppi fondi delle valige di insospettabili viaggiatori) e prossima a passare sulla pellicola. Negli Usa, invece, il passo era stato fatto: con Gola Profonda dell’italoamericano Gerard Damiano (1973), prodotto grazie ai soldi della mafia, l’hard era stato sdoganato. Il film spaccò al botteghino, fu persino presentato a Cannes, e lanciò i suoi primi divi: Linda Lovelace, che a buon diritto fu la prima (e tragica) pornostar della storia e Harry Reems.

Era fatta, a dispetto della censura e delle autorità, che andarono giù pesante: i sequestri e gli arresti, subiti da Reems e Damiano, fioccarono, ma il film, diventato subito un cult, aveva aperto la strada a un filone dai destini miliardari, su cui avevano scommesso anche registi veri, come Radley Metzeger. Bastò un anno perché Russ Meyer, il regista delle supertettone, che pure aveva sfiorato quel confine indicibile, fosse superato e relegato nel vintage pop.

In Italia, invece, si era all’anno zero: la battaglia più pesante la sosteneva l’editoria cartacea, che veniva sequestrata ogni due per tre, con tanto di arresti.

E il cinema? Qualche sequestro c’era stato: toccò ad esempio a Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci, che in Italia fu bloccato quasi subito e divenne una sorta di leggenda metropolitana. Lo stesso Bertolucci passò altri guai quattro anni dopo per Novecento, che scatenò le ire di un altro pretore. Ma i tempi erano cambiati e la giurisprudenza si era ammorbidita non poco.

In Francia, dove pure la censura non era leggerissima, il confine fu varcato nel ’75 in seguito alla liberalizzazione del centrodestra di Giscard d’Estaing. La proiezione dei film degli americani Alex De Renzy e Lasse Braun aveva lanciato il filone, che fu subito ripreso, anche con una certa originalità, da una pattuglia di cineasti formatisi in altri settori, spesso con pretese di intellettualità: citiamo alla rinfusa José Bénazéraf, Jean Rollin, Francis Leroi, Jean Francois Davi, Claude Mulot, Claude-Bernard Aubert e Michel Lemoine. La loro griffe registica fu alla base di un porno molto contaminato e pieno di riferimenti intellettuali (o intellettualistici, faccia un po’ il lettore), per cui fu coniato il termine pornochic. Le sale a luci rosse, vero e proprio cordone sanitario per questo cinema, generarono le prime star: Claudine Beccarie e Sylvia Bourdon, a cui si sarebbe aggiunta, negli anni successivi, la statuaria Brigitte Lahaie. Fine ed elegante, l’hard francese, ebbe una perfetta circolarità col cinema normale, sia perché i registi, spesso col consueto aiuto degli pseudonimi, passavano dal normale al porno con una certa disinvoltura, sia per motivi fiscali: le pellicole hard erano ammesse, ma confinate in circuiti-ghetto e tassate per sostenere il cinema d’autore. Ciò agevolò la nascita di un monopolio nella produzione, occupato dalla Alpha-France, una sorta d’Istituto Luce dell’hard.

In Italia la battaglia degli aspiranti pornografi su celluloide fu soprattutto una guerriglia condotta a suon di furbate, perché lo scontro fu frontale in altri settori: come già detto l’editoria cartacea e le pellicole d’autore. La vera rivoluzione, invece, fu fatta dai tanti registi minori, autentici maestri del b-movie e specialisti nella riproposizione di filoni stranieri, costretti a giocare su più tavoli e ad affinare l’arte di arrangiarsi per sopravvivere in un’industria selvaggia.

Ciò spiega il paradosso di un cinema, il nostro, che puzzava di sesso sin dalla fine dei ’60 ma che non riuscì a fare il salto prima del 1980.

Che comunque qualcosa si stesse muovendo era chiaro sin dai primi ’70. Nel 1972, per fare un esempio, scoppiò un mezzo scandalo, per fortuna senza strascichi giudiziari, quando in un cinema di Genova fu proiettato La notte dei dannati, un horror gotico di Filippo Walter Ratti. Per un errore della distribuzione, nella sala ligure arrivarono le pizze della versione destinata al mercato estero, accresciuta da scene piuttosto forti per l’epoca (ma nulla che oggi non possa passare in prima serata con un bollino rosso). Stesso discorso per Grazie signore P… (1971), una commedia erotica di Renato Savino. Il film, piuttosto manierato e innocuo nell’edizione italiana, conteneva scene più esplicite nella versione destinata al mercato francese.

C’era poi chi giocava più sporco. Come Demofilo Fidani, che praticò un trucchetto in due suoi film: mandava alle commissioni censorie una versione castigata delle pellicole e poi, d’accordo coi distributori, inviava nelle sale una pizza extra di girato con scene più forti, che venivano proiettate in seconda serata, lontano dallo sguardo dei magistrati che periodicamente visionavano i film in cerca di qualcosa da sequestrare. Le due pellicole sono A.A.A. Massaggiatrice bella presenza offresi (1972) e Calde Labbra (1976), nella cui seconda versione la presenza di Claudine Beccarie garantiva il passaggio all’hard.

Una menzione a sé merita Renato Polselli. Il regista ciociaro, formatosi nel western e nell’horror, si infatuò della moda psicanalitica di quegli anni e sfornò una serie di pellicole contaminatissime e deliranti: La verità secondo Satana (1972), Delirio Caldo (1972), Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento (1973), Rivelazioni di uno psichiatra sul perverso mondo del sesso (1973) e Oscenità (1974). Tra i protagonisti di queste pellicole, oggi ricercatissime dagli appassionati del trash, la bella Barbara Calderoni, l’aitante Mickey Hargitay, già mister universo e marito di Jayne Mansfield,e il fascinoso Isarco Ravaioli. Anche in questi casi la doppia versione era una regola e, per Delirio Caldo e Rivelazioni…, gli esperti sostengono che l’edizione spinta fosse quella originale. Il più hard della sere resta Oscenità, che ebbe problemi con la censura e la distribuzione. Uscì nel 1980, con il titolo rimaneggiato Quando l’amore è oscenità. Ma non ebbe risonanza perché l’hard italiano era una realtà e lo stesso Polselli ci si era buttato a capofitto dirigendo un classico: Marina e la sua bestia (1983), interpretato da Marina Lotar, ex moglie di Paolo Frajese e icona del porno tricolore.

La palma del trash spetta ad Alberto Cavallone, altro precursore del porno ma suo malgrado. Il problema di Cavallone fu il contrasto tra le idee, ambiziosissime, e i mezzi, degni del Gruppo Tnt. Realizzò una serie di film sulla linea di confine dell’hard, tra cui si segnalano Zelda (1974), L’uomo, la donna e la bestia-Spell (Dolce mattatoio) (1977), Blue Movie (1978) e Blow Job (Soffio erotico) (1980). Con lui lavorarono alcune starlet dell’erotico spinto (Dirce Funari e Leda Simonetti) e l’afroitaliana Melissa Chimenti, stellina della dance tricolore e attricetta sexy dei tardi ’70.

Il vero rivoluzionario fu Aristide Massaccesi, conosciuto con il suo pseudonimo più famoso Joe d’Amato. Buon tecnico e regista di mestiere senza pretese artistiche, è considerato dai più come la risposta italiana a Roger Corman, per la sua capacità di girare film a getto continuo, a budget ridotto e in condizioni impossibili. Massaccesi capì, fin dai primi anni ’70, le possibilità commerciali del sesso esplicito su pellicola. E agì di conseguenza, a suon di inserti e doppie versioni, che tutt’oggi fanno impazzire i collezionisti. Tra le pellicole maledette si segnalano l’introvabile Diario di una vergine romana (1973) più alcuni episodi della serie Emanuelle, interpretata da Laura Gemser, icona sexy esotica del cinema italiano dei ’70: in particolare Emanuelle in America (1977) ed Emanuelle, perché violenza alle donne? (1978). Le scene hard per le edizioni estere erano insertate e interpretate da Marina Lotar, più qualche cameo di Karin Shubert.

I problemi in Italia erano di due tipi: era vietato girare film porno sul territorio nazionale ed era difficile reperire gli attori. Massaccesi superò gli ostacoli con una mossa elementare: andò a Santo Domingo con una troupe mista per girare in serie alcuni film, con e senza inserzioni e comunque contaminatissimi. Tra i suoi collaboratori si segnalano il gigantesco sceneggiatore e attore Luigi Montefiori (conosciuto con lo pseudonimo di George Eastman), Laura Gemser e Dirce Funari. Loro tre non girarono scene hard, sebbene la Gemser e la Funari fossero più che abituate ad andare oltre. La parte dura del lavoro toccava a Manlio Cersosimo, in arte Mark Shannon, figlio del magistrato che celebrò il processo a Verona ai gerarchi che avevano sfiduciato Mussolini, Annamaria Napolitano (che, secondo la leggenda metropolitana, era una studentessa tossicomane datasi al porno per bisogno), in arte Annj Goren, più una serie di figuranti reclutati sul posto, tra cui Lucia Ramirez, diventata icona, forse senza saperlo e suo malgrado, di questi film.

Con Sesso Nero (1980), che fu il primo film hard italiano, Porno Holocaust (1980), Hard Sensations (1980) e Le notti erotiche dei morti viventi (1980), girati, montati e distribuiti in sei mesi, Massaccesi aprì la breccia fatale: il porno si poteva produrre anche in Italia. E il resto fu conseguenza. Lui stesso, dopo aver esagerato in vari generi ma soprattutto nell’horror (tra i suoi film si segnalano Antropophagous e Buio Omega, considerati tra i più estremi del filone), si diede all’hard in via definitiva ed ebbe fortuna anche come talent scout, visto che esordirono con lui dei big come Rosa Fumetto, Rocco Siffredi ed Eva Henger. Ma, sotto la pressione dell’home video e del web, anche questo filone, nato tardi in Italia, era condannato: la deriva verso il videoclip era già annunciata. E certe scene (i notabili che si coprivano con un giornale per non farsi riconoscere in sala e le coppiette che usavano le sale a luci rosse per trasgredire) sarebbero rimaste solo un ricordo. Ma questa è un’altra storia.

 Saverio Paletta

Per saperne di più:

La storia dell’editoria italiana per adulti

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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