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Dai briganti al best seller. Intervista a Carmine Pinto

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La Guerra per il Mezzogiorno, l’ultimo saggio dello storico salernitano è diventato un caso letterario: uscito a maggio è arrivato alla terza edizione alle porte dell’autunno. Difficile capire i motivi di tanto successo per un testo corposo e non facile. Ma l’autore si dà una risposta: c’è una grande domanda di storia…

Non parleremo solo di brigantaggio, perché la notizia vera su La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti – il corposo volume dedicato da Carmine Pinto, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Salerno – alle vicende complesse e tragiche del Mezzogiorno postunitario, è un’altra.

Carmine Pinto

Uscito a maggio per Laterza, il libro ha esaurito nel giro di pochi mesi due tirature ed è arrivato alla terza edizione, a dispetto dell’argomento non facile, della mole (512 pagine) e del prezzo (circa 28 euro). Non pervenute le copie vendute in e book, ma tutto lascia pensare che potrebbero essere molte.

A ciò si devono aggiungere le numerosissime presentazioni svolte un po’ dappertutto ma, dato l’argomento, soprattutto al Sud. Con numeri importanti: circa 30 date già svolte, diverse decine in programma (in tutta Italia). Roba che, in altri settori, non riuscirebbe neppure a un cantante neomelodico con stuolo di ragazzine al seguito.

Certo, La guerra per il Mezzogiorno non è il classico pero dall’albero: è uno studio profondo, argomentato bene e scritto meglio che esce in un momento importante del dibattito culturale.

Di fatto, il libro di Pinto mette una pietra tombale su dieci anni di polemiche iniziate in occasione delle celebrazioni del 150esimo dell’Unità nazionale grazie all’esplosione virulenta del cosiddetto revisionismo antirisorgimentale.

La copertina de La guerra per il Mezzogiorno

Una vicenda nota su cui è inutile dilungarsi. Ma tutto questo dimostra che la Storia è ancora in grado di creare immaginario, appassionare e dividere.

Oggi è difficile parlare di best seller persino nell’editoria commerciale. Ma La guerra per il Mezzogiorno è comunque un piccolo record. A voler fare un paragone, è come vedere un album jazz in una top ten. Al di là dei meriti oggettivi del libro, c’è un motivo particolare per questo successo?

L’argomento è decisivo. Scegliere il tema non è indifferente. Il pubblico ha le sue passioni e i suoi orientamenti autonomi. Ad esempio guerre, battaglie, biografie di personaggi simbolici sono da sempre in cima alle preferenze dei lettori. Il brigantaggio è solo un piccolo esempio. Esisteva una forte aspettativa e la vicenda stessa si presta ad un racconto affascinante. Il brigantaggio in realtà è solo un aspetto dell’ultima guerra tra meridionali. Una epoca che ha marcato l’incontro tra le province napoletane e l’Italia unita. Si è sviluppata in uno scenario affollato di re e capi di Stato, generali e banditi, cardinali e popolani, rivoluzionari e artisti, capace di produrre miti di lunga durata, basta pensare ai racconti Carlo Levi o di Giovanni Russo.

Storia e divulgazione. Un grande maestro di giornalismo, Montanelli, accusava gli storici di «non saper scrivere». Cioè di esporre con poca chiarezza. E, a rileggere alcuni classici, questo giudizio tranchant non appare sbagliato. Ancora oggi è così?

Gli storici scrivono per la comunità scientifica e per il pubblico. A volte le due cose coincidono. Certo, è evidente la necessità di un maggiore protagonismo della comunità degli storici. Un tema di recente oggetto di un dibattito sulla crisi della disciplina a livello internazionale. Un problema vero ma che non va sopravvalutato. C’è una grande domanda di storia, visibile in fiction, romanzi, rievocazioni, programmi televisivi, pagine social, eventi pubblici, festival. Ma da sempre gli storici hanno offerto risposte importanti: si pensi a giganti della storiografia come Jacques Le Goff o Jean-Pierre Vernant, per verificare che ricerca di altissimo livello e scrittura di successo non sono incompatibili. Infine non va dimenticato che, anche se gli storici sono bravi e raccontano con chiarezza, serve pure un palcoscenico dove farlo, e questo non è scontato. Per rafforzare il filo tra storici di professione, studiosi appassionati e grande pubblico ci sono almeno altre due frontiere importanti: la scuola, che non deve raffreddare l’entusiasmo per la storia di qualità; le istituzioni, che possono investire sulla ricerca di alto profilo.

Una sala affollata per la presentazione de La guerra per il Mezzogiorno

La Guerra per il Mezzogiorno si basa su una combinazione ben riuscita di varie chiavi di lettura: una senz’altro storiografica, una sociologica e, infine, una di tipo politico. Tuttavia, è un libro di storia che parla di storia, la spiega come si deve ed evita faziosità e ideologismi. È possibile oggi parlare di storia senza cadere nella trappola dell’ideologia?

Ideologia è forse una definizione forte. Siamo di fronte, non solo in Italia, al fenomeno diffuso, ma tutt’altro che nuovo, dell’uso di materiali del passato per legittimare posizioni del presente. Negli ultimi decenni questo processo si è moltiplicato per tanti fattori: la diffusione della cultura superiore; la disponibilità di tempo libero; la scomparsa delle appartenenze ideologiche; la forza dei media e dei social network. Senza contare che oggi è facilissimo stampare un libro o produrre un video su YouTube. Questo fenomeno non va interpretato con atteggiamenti precostituiti. Lo storico può accettare la sfida della democratizzazione della storia, separando la divulgazione di qualità dalla falsificazione strumentale del passato. Lo studioso deve contrastare la partigianeria, la selezione faziosa di fonti, testimonianze, scritti (e la loro rielaborazione) funzionali solo a giustificare posizioni politico-culturali o protagonismi del palcoscenico mediatico.

Da un certo punto in avanti, la Questione Meridionale è stata egemonizzata dagli studi di impostazione gramsciana. In particolare, ha fatto scuola la lettura di Franco Molfese, secondo il quale il brigantaggio sarebbe stato una sorta di proto-lotta contadina. Invece, La Guerra per il Mezzogiorno dimostra che non è così.

La questione meridionale e il meridionalismo sono state espressione di un tale arcipelago di proposte e analisi, delle scienze sociali e del sistema politico, che è del tutto impossibile ricondurle ad una matrice unica. Crispi o Massari, Spaventa o Nicotera, durante le discussioni che accompagnarono la guerra di brigantaggio, non avevano certo visioni comuni. Per non parlare delle generazioni successive, da Pasquale Villari a Gaetano Salvemini, da Antonio de Viti de Marco a Manlio Rossi Doria fino al confronto sulla Cassa per il Mezzogiorno o sulle leggi speciali. Gli studiosi cattolici, marxisti, socialisti democratici, laici sono stati parte di questo confronto. Il brigantaggio mostra la stessa complessità, basti pensare alle riflessioni di maestri come Giustino Fortunato o Giuseppe Galasso. Diverso è il terreno del discorso pubblico: il mito del bandito sociale ha avuto un certo successo nell’Italia degli anni Sessanta-Settanta. Non è un fenomeno solo italiano (pensiamo solo alla rappresentazione del bandito nel capolavoro di Sam Peckinpah, Pat Garrett e Billy the Kid, del 1973). È stato facile adattarlo al mito del brigante che ruba ai ricchi per dare ai poveri, ma ovviamente non ha nulla a che vedere con la realtà. Era un modo di rielaborare una certa visione dell’Italia e del Mezzogiorno, che ci è utile molto più per capire quegli anni del Novecento, che l’Italia del 1861.

Pinto durante una presentazione del libro

Un altro aspetto particolare del libro è la cosiddetta parità delle armi: viene concesso uguale spazio ai vinti, cioè alla corte borbonica in esilio, e ai vincitori. Le ragioni e i comportamenti di entrambi sono pesati con grande realismo e con una certa imparzialità. Quest’attitudine è un’eccezione o inizia a essere una norma nella nostra storiografia?

Quello che mi interessava raccontare era un conflitto politico, ideologico, militare di cui il brigantaggio fu solo una delle espressioni, rilevante però al punto da dare il nome alle vicende di quegli anni. La guerra vide la mobilitazione di attori politici con progetti di stato e visioni della società contrapposte. Volevo raccontare una storia con un punto di partenza e uno di arrivo, i cui risultati erano chiari, ma senza assegnare primati a un gruppo o una visione particolare. Ho cercato di ricostruire le forze in campo da angolazioni autonome, il vissuto dei civili e dei combattenti, il ruolo della guerra delle idee e degli interessi. È una storia parallela, sia sul piano cronologico che tematico, che cerca di tenere insieme le vicende e le prospettive di unitari italiani, borbonici e briganti. Una forma di narrazione funzionale alla ipotesi di una guerra conseguenza dell’incontro tra la rivoluzione nazionale italiana e l’antico conflitto civile meridionale iniziato alla fine del XVIII secolo. Uno scontro che finì per intrecciare e risolvere insieme la questione italiana e quella napoletana.

Molto revisionismo si basa sul cosiddetto mito della sconfitta, che è quasi un classico di parecchio storytelling politico. Hanno senz’altro iniziato i borbonici alla fine del Regno delle Due Scilie, hanno proseguito i neofascisti, in particolare i reduci di Salò, e persino certa sinistra non è immune da questo complesso. A questa carrellata si sono aggiunti anche i neoborbonici…

Gli sconfitti sono affascinanti. Annibale o Robert E. Lee sono ancora oggi tra i più ammirati protagonisti delle loro epoche. Le società, gli storici, gli scrittori assegnano ai perdenti un ruolo, a seconda del contesto in cui si rielaborano le vicende e dei materiali offerti dal passato. La spedizione di Sapri, un disastro politico-militare, diventò nel giro di pochi anni un mito del Risorgimento italiano per la personalità di Carlo Pisacane, ma anche per il fascino incredibile dell’impresa. Insomma la storia stessa dei perdenti è tutt’altro che indifferente nella successiva rielaborazione. Per i borbonici che avevano combattuto per decenni contro una parte rappresentativa ed influente del loro stesso Stato ed erano stati abbandonati da buona parte delle istituzioni napoletane nel 1860, non era facile costruire una memoria mitica. I partigiani delle Due Sicilie combatterono la loro guerra di idee, ma non avevano a disposizione i giganti del nazionalismo italiano o della rivoluzione ottocentesca, pensatori come Mazzini o Mancini, Cattaneo o Cuoco, per non parlare dell’esercito di scrittori, artisti e musicisti che assegnarono al discorso unitario un così grande successo nell’Italia risorgimentale. Così, quando in tempi recenti si sono cercate nel passato le fonti del borbonismo politico, non c’erano materiali disponibili al di fuori dei risentimenti e dei rimpianti degli sconfitti del 1861.

Nel libro si assume una posizione molto netta nei confronti del brigantaggio, che va in direzione contraria ad altre narrazioni tornate di moda in tempi recenti: l’eroe romantico, il partigiano fedele al re, il bandito sociale ecc. Perché queste letture non reggono più?

I briganti non scrivevano. Le loro voci dal passato sono deboli. Ho cercato di comprenderli ricostruendone la storia e l’immaginario. Non bisogna però cadere in facili retoriche. Il brigantaggio era un fenomeno secolare nella società meridionale (come in tutte le società rurali). Spesso aveva assunto colori o ruoli politici, nei momenti di maggiore frammentazione sociale o di crisi delle istituzioni. Nel decennio post unitario il brigantaggio ebbe molteplici volti, per le permanenze di mentalità dell’Antico regime o del passato controrivoluzionario, quanto per la frattura determinata dalla rivoluzione nazionale. Gli aspetti politici e criminali erano intercambiabili, assorbendo spesso le lotte tra fazioni e le fratture sociali. Molti leader furono abili combattenti ma anche spietati criminali. Nonostante questo non emerse mai un progetto politico capace di competere con il nazionalismo liberale unitario o di proporre una bandiera sociale al mondo rurale.

Ma queste concezioni dei briganti, considerati da alcuni criminali e da altri eroi, sembrano essere tornate in auge in tempi e contesti tragicamente recenti: si pensi alla guerra civile dell’ex Jugoslavia, in cui sono riemerse figure che sembravano inghiottite dalla storia: i cetnici, gli ustascia e via discorrendo. O al Kossovo, in cui i guerriglieri albanesi sono stati considerati eroi nazionali a dispetto dei loro legami con organizzazioni criminali. È possibile un paragone col nostro brigantaggio?

Credo che dobbiamo lasciare i briganti nella loro epoca, senza utilizzarli per le nostre dispute sul Mezzogiorno contemporaneo o sui Balcani del Novecento. Erano espressione di un preciso contesto storico e sociale dell’Italia ottocentesca, non hanno nulla a che vedere con il nostro mondo o con il Novecento.

Oltre alle vendite, colpisce il numero delle presentazioni. Un tour imponente. Il che indica che c’è un pubblico di appassionati all’argomento.

Sicuramente c’è un pubblico molto vasto ed interessato. Un dato evidente da tempo, basta pensare anche al successo di fiction degli anni Ottanta come l’Eredità della priora o, più semplicemente, alla quantità di ricostruzioni storiche diffuse nel Mezzogiorno. C’è qualcosa di molto più importante, che non riguarda solo questa parte del paese. Il territorio italiano è disseminato associazioni storiche cittadine, istituti di storia del Risorgimento, Società di Storia patria, gruppi di ricostruzione che svolgono un lavoro immenso, meritorio e, soprattutto di assoluto valore civile. E non sono solo istituzioni tradizionali. Su Facebook e altri social c’è un piccolo esercito di appassionati studiosi e cultori di storia, non solo ottocentesca, spesso capaci di analisi filologiche e riflessioni storiografiche notevoli. Si tratta di un patrimonio e di una frontiera con cui la storiografia accademica (e non solo) ha la possibilità di costruire un terreno considerevole di confronto e di lavoro.

È possibile tracciare un identikit del lettore tipo de La guerra per il Mezzogiorno?

Conoscere i lettori è una esperienza affascinate. A parte colleghi e specialisti, in presentazioni, conversazioni sulla rete o nelle liste private ci sono professionisti di ogni tipo, docenti di scuole, ricercatori, studenti, pensionati. E tanti che non hanno neppure bisogno della laurea per coltivare passioni e ricerche. Insomma la linea comune è questa attenzione, massiccia, verso la nostra storia e, in questo caso, verso le lotte politiche e le grandi passioni dell’Ottocento italiano e meridionale.

Una delle critiche rivolte dal mondo accademico ai cosiddetti revisionisti antirisorgimentali consiste nel fatto che si tratta nella quasi totalità di storici non professionisti. E in effetti, i principali autori di questo filone sono giornalisti. Perciò il vero problema è: la cassetta degli attrezzi di uno storico è un’esclusiva quasi iniziatica oppure anche i giornalisti possono produrre buona storia?

Conosco tanti autori, giornalisti e non, bravissimi nel raccontare storie, ricostruire vicende. La famosa cassetta è variabile, non sempre deve avere gli stessi strumenti e, soprattutto gli stessi obiettivi. Non c’è dubbio che in tanti possono produrre buona storia, se dotati di strumenti adeguati e se vogliono privilegiare la narrazione libera rispetto a quella partigiana. Gli esempi positivi sono tanti.

Divulgazione e ricerca: sono concetti diversi e richiedono metodi e impostazioni diverse. Eppure La guerra per il Mezzogiorno combina bene i due aspetti: dice cose nuove e lo fa con un’impostazione chiara. Non è che, alla fin fine, sia solo una questione di linguaggio e di chiarezza?

Raccontare la storia in forme comprensibili, accattivanti e coerenti nella narrazione è decisivo per parlare con il pubblico. Però insisto, il tema è decisivo, così come l’organizzazione del lavoro e la profondità della ricerca.

I revisionisti antirisorgimentali, comunque la si pensi, hanno un merito: hanno riaperto questioni dimenticate e costretto gli storici a impegnarsi a fondo di nuovo su determinati argomenti e a prestare attenzione al pubblico. È così? Ci saranno altre ricerche di Pinto su questo argomento?

Tutti gli stimoli del discorso pubblico hanno delle ragioni costitutive che vanno comprese, indagate, discusse. E sicuramente questo lavoro non termina con un libro. Siamo in una fase di interessante rinnovamento teorico della storia politica. Si intreccia con la storia culturale e sociale senza barriere concettuali, per non parlare della fine della separazione tra diverse discipline. Ci sono nuovi itinerari e molte piste per ampliare, scoprire e spiegare tante pieghe dell’Ottocento italiano e del Mezzogiorno risorgimentale. Allo stesso tempo, se il giornalismo, i media, i social offrono nuove occasioni per produrre l’evento, per fare storia in modo sempre più efficace, la crescente attenzione del pubblico è una occasione irripetibile per migliorare la qualità della ricerca e le possibilità della divulgazione.

(a cura di Saverio Paletta)

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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