Un bagno negli ’80 più fantastici. Ovvero, il futuro secondo i Muse
Con Simulation Theory il trio britannico allenta la carica rock e si lancia in una svolta retrofuturista che ammicca al synth pop e al cyberpunk
Forse non sarà l’album del 2018 da poco alle spalle. E le polemiche che ne hanno accompagnato l’uscita non hanno giovato.
Però, a un ascolto più sereno, Simulation Theory, l’ultimo album dei Muse, pubblicato dalla consueta Warner, è un prodotto che merita, a dispetto di tutte le critiche, specie quelle, piuttosto facili, di tradimento.
Al riguardo, sono state prese di mira la presunta svolta retrofuturista nell’immaginario e nel suono, che ammicca al synth pop e sacrifica un po’ troppo le chitarre.
Una critica, se si vuole speculare a quella rivolta nel passato recente (The Sencond Law e Drones) quando il trio inglese era accusato di aspirare a stilemi hard, a volte ai limiti del metal.
Se solo ci si prendesse la briga di sfogliare le vecchie annate delle riviste specializzate, ci si renderebbe conto con facilità che critiche simili furono rivolte ai Queen, per l’eccessivo camaleontismo con cui si divertivano a passare dall’hard al pop e persino alla dance, a volte nello stesso album (non si può non citare The Miracle, che iniziava con il quasi metal I Want It All e terminava con l’ultra dance Invisible Man).
Perciò, prima di puntare il dito su ipotizzate incoerenze e furberie commerciali, tra l’altro tutte da dimostrare, sarebbe proprio il caso di rispondere a due domande.
La prima: le tendenze elettroniche nella musica dei Muse ci sono sempre state oppure sono una scoperta recente?
Seconda domanda: gli ammiccamenti pop sono spuntati come brufoli improvvisi oppure Bellamy e soci li hanno sempre coltivati?
Le questioncine risultano retoriche: sì, i Muse sono passati con disinvoltura dall’elettrico all’elettronico sin dai tempi del mitico Absolution; sì, le ruffianate pop ci sono sempre state nel loro sound e non a caso alcuni hit sono diventati jingle pubblicitari.
L’unica differenza è che con Simulation Theory i tre britannici prendono di petto le due direzioni e mollano un po’ il rock. Forse più per cambiare aria che per sperimentare, visto che tutti i brani dell’album sono Muse al cento per cento, un dato che balza subito all’orecchio non appena si confrontino gli undici pezzi originali con le loro versioni bonus, più o meno riprocessate e remixate aggiunte all’edizione de luxe (che arriva a ventuno canzoni).
Né è troppo da criticare la scelta retrò di mescolare grafica e immaginario cyberpunk al pop elettronico: è il caso di ricordare che tutti i classici, cinematografici e letterari, del genere risalgono agli anni ’80 ed è fatale che il decennio di latta abbia lasciato un’impronta forte nell’immaginario fantascientifico. Un marchio con cui è obbligatorio fare i conti.
Ma procediamo con ordine. Il rock è quasi del tutto assente dall’opener Algorithm, che si sviluppa su un tema ipercampionato alla Alan Parson e percussioni elettroniche. Nulla di cui preoccuparsi, perché la voce di Bellamy, irregolare, falsettata e suadente, è quella di sempre. E canta una melodia piena di pathos, che emerge con prepotenza anche nella versione bonus. Il tutto per cantare un monito apocalittico sulla realtà virtuale che sembra ispirato sin troppo dalle opere di Evgenij Morozov.
È Muse in toto anche l’epica The Dark Side in cui la melodia sognante si libra sugli algidi tappeti dei sequencer, contrappuntati dai flash dei synth e dagli accordi della chitarra, che si lancia in un assolo dal sound fintissimo. Ma il pezzo rende anche nella versione alternativa, in cui il ritmo serrato è sostituito da arrangiamenti soffici, lenti e profondi. Ma i Muse non si accontentano e regalano ai fan una terza versione del pezzo, completamente strumentale, in cui la melodia è interpretata da una chitarra slide alla David Gilmour.
Pressure è un divertissment che attacca con un funky sghembo gestito dai synth ed evolve in un crescendo arioso in cui, finalmente, Bellamy lancia dei riff tosti con la chitarra opportunamente distorta da un fuzz box dai suoni esageratamente nasali. Ancora più divertente la versione alternativa del brano, in cui il terzetto è accompagnato da una banda musicale, un arrangiamento se si vuole più bizzarro che esalta le potenzialità pop del refrain.
Su una cosa si può concordare con i critici sin troppo ingenerosi di quest’ultima avventura dei Muse: Propaganda sembra davvero la versione hi tech del compianto Prince dell’era Parade. Ma con una chicca in più: l’assolo della slide guitar pieno di un retrogusto blues che non sarebbe dispiaciuto al Folletto di Minneapolis. Stesso discorso per la versione bonus, in cui la chitarra acustica diventa padrona della piazza con saporosi accordini funky.
La chitarra si prende una bella rivincita anche nella strampalata Break It To Me, dove un riff pesante e dissonante fa da collante a motivi proto hip hop e melodie al solito sognanti e magniloquenti con qualche accenno arabeggiante che non dispiace affatto. È solo nella versione alternativa, remixata dal guru neozelandese Sam de Jong che l’aspetto pop diventa prevalente: un modo come un altro per restare fedeli alla presunta svolta.
Something Human è una semiballad caratterizzata da una melodia ariosa e dal felice intreccio tra suoni acustici ed elettronica. Deliziosissima la versione alternativa, che si regge su un arrangiamento fingerpicking.
L’apocalittica Thought Contagion è un richiamo alle sonorità di The Resistance appena arricchite di elettronica. Stavolta la chitarra è padrona della piazza in toto e accenna persino a un breve assolo in cui rievoca le distorsioni lancinanti del migliore Tom Morello. La potenzialità rock del pezzo emerge alla grande nella bonus track, registrata dal vivo.
Get Up And Fight è un inno adolescenziale anni ’90 dalla struttura al solito particolare in cui al refrain da jingle segue un coro possente ed epico.
Blockades riprende i motivi parsoniani e li declina secondo la consueta ricetta del trio: melodie ariose, break intensi e carichi di pathos e cori esplosivi. Più un assolo cattivissimo di chitarra.
Con Dig Down si torna appieno nell’elettronica, in cui affoga una melodia dai marcati cenni soul, che rende bene anche nella versione alternativa per piano e chitarra acustica più coro gospel.
I titoli di coda toccano alla stralunata The Void, in cui la band sfodera tutto il suo repertorio di melodie malinconiche, crescendo ariosi e accenti epici. Per non farsi mancare nulla c’è anche la versione acustica per pianoforte e sintetizzatore che esalta l’aspetto più triste del brano.
Completissimo, innovativo quel che basta e a tratti avvincente, Simulation Theory è un album che merita molto di più dei giudizi ingenerosi sparsi dai contrapposti puristi del rock e del pop coalizzati apposta per dare addosso al trio. La svolta pop è più nei suoni che nelle composizioni. E ciò ribadisce che la specialità dei Muse è variare pur restando fedeli a un canovaccio. Spaziare a tutto tondo. Certo, è difficile immaginare i tre ragazzi del Devon tentare il black metal oppure darsi alla dance più sgallettata. Ma non si può mai dire…
Per saperne di più:
Da ascoltare (e da vedere):
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