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La Sicilia nei tasti di un Maestro. Intervista a Vincenzo Parisi

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Il pianista e compositore racconta l’esperienza umana e artistica che lo ha portato a raccontare la sua terra con suoni delicati e un approccio minimale e profondo. Nel suo percorso impressionante c’è di tutto: dagli studi a Salisburgo al rock, suonato in giro per l’Europa

Quando si è bravi, ma bravi per davvero, esordire tardi non è un problema.

Lo dimostra la parabola artistica di Vincenzo Parisi, pianista e compositore siciliano di nascita e non del tutto milanese d’adozione, che ha esordito a maggio con Zolfo (Piano B Agency) una raccolta di otto perle strumentali cariche di atmosfera e piene di rinvii all’immaginario popolare della terra natia.

Un’immagine intensa di Vincenzo Parisi al piano (foto di Mario Conti)

Questa partenza matura si spiega con l’impressionante curriculum dell’artista, che si è diplomato al Conservatorio con la pianista Irene Schiavetta, ha approfondito i suoi studi nel repertorio contemporaneo con Massimiliano Damerini ed è stato allievo di Aquiles Delle Vigne al Mozarteum di Salisburgo. Studia tuttora composizione con Mario Garuti.

Per non farsi mancare nulla, il Nostro ha conseguito una laurea alla Bocconi e ha fondato, nel 2011, la rockband Kafka On The Shore, con cui ha suonato circa duecento date in tutt’Europa.

Serve altro per inquadrare questo artista dal profilo alto e complesso?

Ce lo dice lui direttamente.

Iniziamo con Zolfo. Com’è nato questo album e a cosa ti sei ispirato?

Zolfo è un viaggio alla ricerca delle mie radici, che cerca di unire un’approfondita indagine sulla musica e la cultura siciliana con tutte le influenze che essa ha subito nel corso dei secoli (arabe, spagnole, sefardite, bizantine) al mio personale sentire di uomo e musicista contemporaneo. Non è un disco folk, perlomeno non nell’accezione comune del termine: le melodie degli antichi canti popolari siciliani, che ho scovato in trascrizioni dal ’700 fino agli inizi del ’900 e in registrazioni degli anni ’50 di etnomusicologi come Alan Lomax e Diego Carpitella, sono intessute come in filigrana all’interno di un flusso di coscienza sonoro più tendente al minimalismo e post-minimalismo di matrice anglosassone. Prima di avventurarmi in terre musicali sconosciute, sentivo la forte necessità di conoscere i luoghi musicali da cui provengo.

Un primo piano pensoso di Vincenzo Parisi

Minimalismo e sicilianità: due bagagli importanti che provano, anche nel tuo caso, che un musicista non è solo il prodotto di studi ed esperienze ma anche di influenze ben precise. Ne vogliamo parlare?

Amo il minimalismo americano: La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass sono veri e propri idoli per me. Di recente, invece, ascolto molto John Adams, Arvo Pärt, David Lang e Louis Andriessen, a cui in particolare mi sento molto vicino per la forte valenza politica che conferisce alla pratica musicale. Non posso poi dimenticare Danny Elfman, del quale avevo trascritto a 16 anni parti delle musiche di Nightmare Before Christmas, e per farlo avevo quasi distrutto la Vhs a botte di play and rewind per riascoltare tutto, fotogramma per fotogramma, e fissare le note sul pentagramma. Durante la scrittura del disco ho ascoltato molto Radiohead e soprattutto Diamanda Galás, di cui devo la scoperta alla mia ragazza.

Nel tuo curriculum figurano non poche collaborazioni…

Grandi amici nel mondo della musica con cui ho avuto il piacere di collaborare sono Nicolò Carnesi, Gianluca De Rubertis, Chiara Castello, Lodo Guenzi, Francesco De Leo, Mattia Barro, Alan Rossi, il violinista Davide Laura. Attualmente collaboro stabilmente con Sandra Vesely, cantautrice eclettica di cui sicuramente si sentirà parlare molto in futuro, e di cui presto verrà pubblicato un ep di cui ho curato tastiere e synth.

Vincenzo Parisi in posa tra i suoi flight case

In questi mesi, durante i quali hai ultimato Zolfo, abbiamo dovuto combattere la pandemia. Tu hai fatto un concerto in streaming molto particolare e apprezzato. Ce ne vuoi parlare?

Al momento è la mia ultima esperienza concertistica. Lo streaming è un’esperienza abbastanza surreale perché la si possa definire concerto. Però allo stesso tempo ho avuto grande senso di vicinanza con le persone che mi seguivano, da tutta Italia, un momento che mi ha molto emozionato, tanto più che ero solo da settimane a vagare in casa tra il letto e il pianoforte. E in più la possibilità di suonare in pantofole, aspetto non trascurabile. Poi però alla fine del concerto, come alla fine di ogni concerto ben fatto, hai l’adrenalina che ti scorre nelle vene e vorresti uscire a incontrare amici o parlare col pubblico… Ma ti accorgi che al massimo puoi andare in balcone, e l’adrenalina se ne rimane lì, come sospesa.

Il presente è Zolfo. E il futuro?

Sto ultimando la scrittura del secondo disco, che spero di registrare entro la fine dell’anno e che segue un concept non meno folle di quello Zolfo. A lunga scadenza, vorrei approfondire la direzione d’orchestra. Più a breve termine, invece, cercherò di imparare qualcosa di più sulla musica elettronica e i sintetizzatori, un mondo che mi affascina molto.

(a cura di Andrea Infusino, foto di Manuel Coen, tranne quella altrimenti specificata)

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