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Sex and violence: una guida al cinema estremo, tra immagini becere e arte pura

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L’imponente ricerca di Roberto Curti e Tommaso La Selva su oltre un secolo di trasgressioni e violenze visive, dalla vecchia celluloide al digitale puro

Autorale e non. Raffinato e intellettualistico, oppure dozzinale e trash, spesso grottesco, sia ai piani alti, sia negli scantinati in cui sono confinati i b movie in attesa di ripescaggi e rivalutazioni filologiche, che spesso arrivano puntuali.

Cos’è che, a prima vista, accomuna registi alti come Pasolini, Bunuel, Jodorowsky, Robbe-Grillet, Borowczyk e via almanaccando, ad artigiani come Lewis, Meyer, Cavallone, Di Leo, Joe d’Amato (lo pseudonimo più noto di Aristide Massaccesi), passando per incompiuti come Jess Franco e Jean Rollin, in perenne bilico tra autorialità ed esigenze alimentari, istanze elevate e bassi istinti, spesso vellicati con efficacia?

Inoltre, qual è il fil rouge che lega certe divagazioni freudiane e le pulsioni libertarie di un Bertolucci alla prosaicità ultracommerciale, da cui, salve poche eccezioni (Lasse Braun, Radley Metzger e il filone ultrachic francese) scaturì il boom della pornografia?

La risposta la capirono in molti quando, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, l’emittenza selvaggia inondò i primi tv color di immagini e sequenze estreme, una più tosta dell’altra e tutte a orari, anche pomeridiani, oggi impensabili (chi vuole, comunque, può trasgredire lo stesso, grazie alle infinite possibilità dello streaming online): il connubio tra sesso e violenza.

Detto altrimenti: che fossero i sadici gerarchi del pasoliniano Salò o i più prosaici e macchiettistici personaggi di Garrone e Mattei, che fosse il sofferente e raffinato Dirk Bogarde nei panni di un sofferente ex ss diretto dalla Cavani o la pettoruta Dyane Thorne nei panni della feroce Ilsa, poco importa. Ciò che balzava evidente era che qualche sadico, con tanto di divisa (o senza, in certi casi fa lo stesso), abusasse, soprattutto sessualmente, dei propri prigionieri.

E Dracula? Mordeva comunque: ma i morsi di certi vampiri – come quello fighetto impersonato da Joe Dalessandro per Paul Morissey sotto la supervisione di Andy Wharhol e scusate se è poco – comminati a discinte e desiderose fanciulle, facevano impallidire le allusioni velate del vampiro interpretato dal compianto Christopher Lee, intento a dissanguare signorine virginali e sciape in costume vittoriano.

Il sesso e la violenza, non necessariamente in quest’ordine, come chiave di lettura trasversale a una buona fetta, per molti la più succulenta, della cinematografia mondiale? E perché no?

Si tratta solo di trovare un criterio efficace e convincente per unificare tanti, troppi generi e attraversare con coerenza le tonnellate di bibliografia critica accumulatesi in oltre cinquant’anni.

Ci hanno provato, in buona parte riuscendoci, due autori conosciuti agli appassionati di cinema: Roberto Curti e Tommaso La Selva. Il primo è redattore dello storico Blow Up e collabora a Il Mereghetti, il più ciclopico dizionario italiano del cinema. Il secondo, massmediologo, è una firma storica di Nocturno Cinema. Da quasi vent’anni i due hanno unito le forze per scrivere e riscrivere Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo, giunto nel 2015 alla terza edizione per i tipi della torinese Lindau.

Pubblicato per la prima volta a inizio millennio, quando certe tematiche, snobbate dalla critica-che-contava, iniziavano a essere sdoganate, anche a livello commerciale, Sex and violence è cresciuto a strati sotto l’incalzante spinta del web, che ha divulgate e rese fruibili certe prurigini, prima confinate al videoregistratore.

È un po’ come la fatica di Sisifo: fare e disfare, per inseguire in questo caso, una mole spaventosa di dati in continua crescita e sistematizzarli, con la maggior coerenza possibile, in una narrazione unitaria.

Le chiavi di lettura richiedono dei criteri. Curti e La Selva ne individuano uno nella dialettica con la censura. Quella americana su basi volontarie, iniziata col cosiddetto codice Hayes (un accordo di autoregolamentazione su ciò che si poteva mostrare tra le grandi case distributrici, i circuiti di distribuzione e le sale). Quella, clericoautoritaria, del regime franchista in Spagna. Quella cattobenpensante dell’Italia centrista. Quelle asiatiche e quelle latinoamericane.

Sulla base di questo primo criterio, che deriva dalla dialettica più generale tra potere politico e libertà d’espressione, si possono osservare due diversi atteggiamenti dei cineasti. Il primo, più commerciale, fu il rifiuto delle regole. Negli Usa, ad esempio, era piuttosto facile sottrarsi ai vari codici di autoregolamentazione (si consideri che la censura pubblica aveva comunque maglie più larghe, grazie a una giurisprudenza tendenzialmente liberalprogressista) ed entrare come antiautori nel filone dell’exploitation, come dimostrano, per fare due esempi, le carriere del già citato Lewis e di Roberta Findlay. Il secondo fu invece di contrapposizione più o meno frontale, culminata in opere volutamente trasgressive, in cui l’uso di immagini estreme serviva per esprimere metafore di dissenso e ribellione (come nel caso di Arrabal) o di satira (come nel cinema di Makavejev) verso il potere o nei confronti di certa mentalità borghese repressiva della sessualità (Borowczyk, Zulawsky, Russell, ecc.). Allo scontro frontale, molti autori di b movie, che non beneficiavano dello status di artisti a prescindere, preferirono il progressivo aggiramento della censura: così fu per molti cineasti spagnoli che si diedero all’horror e ne fecero una metafora per tutte le prurigini possibili, e per i registi italiani, che giravano i propri film in più versioni.

Un secondo criterio riguarda il rapporto tra cinema (e le sue manifestazioni più estreme) e la cultura che lo produce. I casi più curiosi sono quelli giapponese e brasiliano. Nel primo, in cui la violenza abbondava sin dagli anni ’50, il sesso è stato trattato con cautele curiose, di cui vi sono tuttora strascichi importanti (e caratterizzanti) nei due filoni dei pink movies e dei roman porno: le scene spinte, anche se esplicite, sono sempre censurate, da venti anni a questa parte con i caratteristici pixel, mentre il sangue regna incontrastato. Il Brasile, invece, ha vissuto la curiosa contraddizione di aver anticipato, col cospicuo filone del cosiddetto Boca trash molte tematiche salienti della pornografia, ma di aver creato un proprio filone hard con ritardo, anche considerevole, rispetto ad altre culture. In compenso, ha recuperato il tempo perduto a colpi di estremismo visivo.

E si potrebbe continuare.

Un terzo criterio, individuato dai due autori, è nei rapporti tra cinema e altre attività creative e altri media.

È il più difficile da approfondire e va dato atto a Curti e La Selva di aver scavato con efficacia anche in questa direzione (si pensi al ricco approfondimento sul fumetto per adulti in Italia).

E si potrebbe continuare a lungo.

Sex and violence è un volume corposo e composito, in cui l’aspetto enciclopedico è ben bilanciato con l’analisi critica, grazie a una scrittura cristallina e a una capacità di collegare gli aspetti specialistici, cioè cinematografici in senso stretto, con quelli storici e sociali più unica che rara. Da leggere e da consultare, sia per gli specialisti, che potranno scoprire tra le righe delle sue seicento e rotte pagine le classiche cose nuove, sia per i semplici appassionati, che troveranno, nero su bianco, una spiegazione al perché certe visioni galeotte risultino trasgressive ancora oggi che si è davvero visto di tutto.

Raccontare il cinema attraverso il binomio proibito di sesso e violenza è un’impresa infinita, visto che questi due ingredienti sono degli evergreen gettonatissimi e, oggi, sdoganati. C’è da credere che i due critici dovranno approntare quanto prima una nuova edizione.

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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