Niente primati ma fabbriche "vere", l’industria al Sud prima dell’Unità
Esce la seconda edizione del classico di Angelo Mangone, un testo onesto sullo sviluppo del Mezzogiorno, lontano dalle sirene neoborboniche
Nel 1976 l’ingegnere tarantino Angelo Mangone pubblicò un testo di storia economica nel quale si dava conto dello stato dello sviluppo dell’industria meridionale – Sicilia esclusa – alla vigilia dell’Unità. Come egli stesso scrisse nella prefazione, il saggio cercava di quantizzare i vari aspetti del problema, «riportando prezzi, costi, remunerazioni, calcolando il numero di addetti per settore ed il relativo valore aggiunto, inquadrando infine questi dati in una disamina del reddito globale del suddetto Mezzogiorno continentale».
I risultati raggiunti in L’industria del Regno di Napoli. 1859-1860 (questo è, appunto, il titolo del testo) indussero Mangone a concludere che buona parte della «storia ufficiale» avrebbe riportato, riguardo all’ultimo periodo della vita dello Stato borbonico, soltanto giudizi, polemiche, fatti distorti, affermazioni dettate dalla propaganda di parte unitaria e liberale dell’epoca; laddove il successivo interesse dei grandi scrittori meridionalisti si sarebbe per lo più rivolto allo studio e all’approfondimento dei problemi dell’agricoltura meridionale.
Eppure lo stesso autore del volume fu costretto a riconoscere il contributo recato, in anni precedenti, da studiosi come Petrocchi, Arias, Carano-Donvito, Milone, Betocchi e Vocino circa l’argomento da lui trattato, che quindi non poteva dirsi sconosciuto alla storiografia, né tantomeno negletto da essa, magari per oscuri complotti politico-culturali. La bibliografia essenziale del saggio di Mangone riporta, in effetti, i sopradetti nomi alla fine del libro, insieme all’indicazione – per la verità troppo generica – di «Archivio di Stato [di] Napoli», senza ulteriore individuazione di fondi e di serie archivistiche. Poche, e di natura non bibliografica, sono le note al testo, che contengono in genere qualche piccolo chiarimento o approfondimento.
La trattazione, dopo un rapidissimo excursus intorno alla storia della protoindustria nello Stato napoletano, si sofferma sull’azione propulsiva esercitata dal governo di Ferdinando II di Borbone ai fini dello sviluppo industriale del paese, nonché sulle politiche economiche promosse dal medesimo sovrano e dal suo successore Francesco II. Segue un capitolo dedicato alla consistenza, alle caratteristiche, alla struttura e alle prospettive dell’industria del Regno continentale, relativamente al biennio 1859-1860. Tiene dietro una vera e propria rassegna dei vari comparti: il metalmeccanico, il tessile, le industrie della carta, del vetro e cristallo, estrattiva e del tabacco, chimica, delle pelli e del cuoio; le industrie alimentari, dei materiali da costruzione, ceramiche, edilizie, manifatturiere in genere.
Il libro si conclude, infine, con l’analisi delle conseguenze determinate dall’annessione e dall’impatto con il Nord sull’apparato produttivo meridionale e dell’involuzione che, a detta dell’autore, il processo di sviluppo industriale al Sud subì a causa della filosofia economica dello Stato unitario, ma anche della politica doganale e fiscale «scelta dai governi di impronta settentrionale». In appendice è collocata la ristampa anastatica di un interessante opuscolo: Parole dell’avvocato Scipione da Vincenzo Staffa di Casal Trinità sulla invenzione della macchina trebbiatoria del signor Don Graziano Staffa, edito a Bari nel 1856.
Il lavoro di Angelo Mangone è senza dubbio onesto e accurato. Lo evidenzia a buon diritto il figlio Fabio, storico dell’architettura, nell’affettuosa e partecipe Nota preposta alla seconda edizione del libro pubblicata dall’editore napoletano Grimaldi nel novembre del 2017, allorché ricorda che il saggio del padre, all’epoca della sua uscita, accese un notevole dibattito, entrando presto e con autorevolezza nelle bibliografie (fra l’altro, nel vol. V de Il Regno di Napoli del compianto Giuseppe Galasso).
A differenza di molte altre opere di matrice “revisionista”, L’industria del Regno di Napoli non si limitava a un mero elenco di vicende e cifre decontestualizzate, ma tentava di inserire i dati riportati all’interno di un ampio e suggestivo quadro interpretativo, fornendo anche delle proiezioni sulle possibilità autonome di sviluppo nel Mezzogiorno ipotizzabili qualora il corso della storia fosse stato diverso.
Sta qui il punto di forza della monografia di Mangone, ma probabilmente anche il suo elemento di maggiore debolezza. Accade pure in questo caso ciò che avviene in tanta produzione storiografica alternativa, anche pregevole sul Meridione: il Sud preunitario viene concepito come un’entità a sé, quasi scollegata dal mondo circostante e dalle sue tumultuose dinamiche storiche. L’autore ha certamente ragione nel rivendicare, nel passato come nell’oggi, l’opportunità di concepire strategie di sviluppo differenti a seconda delle vocazioni ambientali e produttive dei territori. Tuttavia, forse non tiene sufficientemente conto del fatto che ogni realtà umana e naturale è condizionata – e non potrebbe essere diversamente – dalla grande storia e dalla grande politica, e deve necessariamente fare i conti con esse. Anzi, la capacità di rispondere positivamente a queste sollecitazioni costituisce proprio una prova della validità di un modello economico in un dato momento storico.
Siffatte considerazioni, peraltro, non vanno a discapito dell’utilità e della permanente validità dell’attività di studioso di Angelo Mangone. Al contrario, l’ingegnere e storico tarantino si dimostra lucidamente profetico quando respinge con dovizia di argomenti le sirene di un rozzo antimeridionalismo, destinato ad avere triste fortuna nei decenni successivi, che vedeva e vede negli abitanti del Mezzogiorno dei tipi umani sprovvisti di attitudini imprenditoriali e produttive, per una sorta di maledizione di origine culturale, quando non addirittura etnica e genetica.
Non si può non plaudire, quindi, all’iniziativa editoriale della prestigiosa casa Grimaldi e della Fondazione Il Giglio, che ha finanziato la riedizione dell’opera di Mangone nel quadro di una pluridecennale e meritoria attività di riscoperta e riproposizione di testi antichi e rari sulla storia del Sud. Unico appunto è l’inserimento delle integrazioni volute dall’autore, nonché di alcune correzioni, all’interno di pagine ribattute al computer – con qualche errore di troppo – e interpolate nella riproduzione fedele del testo originale; l’accostamento finisce per creare un certo effetto di disordine e di trascuratezza che forse si sarebbe potuto evitare.
Decisamente infelice, invece, la decisione di affidare l’introduzione di questa seconda edizione a Gennaro De Crescenzo, leader dei cosiddetti neoborbonici. Nelle sue roboanti quattro paginette e mezzo il De Crescenzo, come al solito, rende lode non già all’autore del saggio prefato, ma sostanzialmente a se stesso e alla presunta attività culturale svolta dal movimento che presiede. Per far questo, tra l’altro, si abbandona a un compulsivo copia e incolla, invocando a sostegno delle sue fanfaluche autori come John Davis: le pagine dello storico inglese vengono così travisate attraverso una citazione estrapolata da un discorso assai più complesso, problematico e, soprattutto, irriducibile ai vani soliloqui neoborbonici. De Crescenzo non ci risparmia nulla del consueto repertorio neosudista, a cominciare dalla stantia e cialtronesca polemica contro gli accademici. Costoro da oltre un secolo e mezzo avrebbero propinato «storie (spesso vere e proprie storielle molto simili alle leggende) senza alcun fondamento e frutto semplicemente di una retorica risorgimentalista superata e spesso ancora da superare». Il conducator dei neoborbonici non tiene evidentemente in alcun conto gli apporti che lo stesso Mangone onestamente riconosce, come abbiamo visto, sin dalle prime pagine della sua monografia.
Non solo: secondo uno schema ormai noto e smascherato, il De Crescenzo fa mostra di discettare di storia per parlare, in realtà, di politica, riuscendo a dire insensatezze nell’uno e nell’altro campo. Lo dimostra, tanto per fare un esempio, l’accenno ai «primati di Pietrarsa, Mongiana o Castellammare», città che sarebbero diventate oggi, anche grazie a Mangone, «simboli di storia e di orgoglio». Insomma: la consueta retorica da stadio, giustamente disapprovata – a suo tempo – da Alessandro Barbero.
Che più?
Benedetto Croce si distingue per le sue riflessioni sulla teoria e sulla storia della storiografia, Ernesto Sestan per l’ampiezza degli interessi d’indagine, Federico Chabod per le ricerche sulle origini dello Stato moderno.
Gennaro De Crescenzo si distingue per una rada capigliatura.
Lorenzo Terzi
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