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Do you remember Alessandro Bozzo?

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A cinque anni dal suicidio del giornalista calabrese, esce “L’altro giorno ho fatto quarant’anni”, un racconto romanzato, a tratti artefatto, e poco convincente delle vicende che determinarono la scelta terribile del giovane cronista

A chi vive a Cosenza o al Sud o, più semplicemente, s’interessa dei problemi dell’informazione, non è sfuggita la vicenda, tragica e per vari aspetti ancora non del tutto chiarita, di Alessandro Bozzo.

Cosentino doc (era originario di Donnici, una frazione antica e ancora demograficamente consistente della città calabrese), Bozzo è stato per oltre dieci anni un giornalista di punta della cronaca regionale. Cronista tuttofare dallo stile essenziale e tagliente, era quel che si dice una firma.

Alessandro Bozzo

Bozzo finì la sua vita con un colpo di pistola alla tempia il 15 marzo del 2013. Dei vari problemi legati a questo gesto tragico, ne è emerso uno solo in sede giudiziaria: come ha accertato il 14 settembre 2016 una sentenza di primo grado del Tribunale di Cosenza, Alessandro fu vittima della violenza privata del suo editore, l’imprenditore Piero Citrigno.

Altro non c’è da aggiungere, sia perché tuttora la sentenza è sotto Appello della Procura cosentina, che ritiene non congrua la condanna a quattro mesi inflitta all’ex editore, sia perché il resto della storia, com’è da più parti trapelato, sarebbe stato determinato da altri fattori.

I quali, è doveroso aggiungere, non sono mai emersi a livello mediatico, forse anche per il sacrosanto rispetto nei confronti di chi resta.

Giusto un dettaglio per meglio delineare la verità processuale – l’unica, ripetiamo, davvero utilizzabile – su tutta la faccenda: delle varie accuse mosse a Citrigno la più grave, cioè l’istigazione al suicidio, è stata archiviata prima di arrivare al dibattimento in cui hanno testimoniato molti colleghi e amici di Alessandro.

Eppure, nonostante la condanna modesta, che probabilmente finirà in prescrizione, la sentenza sul caso Bozzo è destinata a fare non solo giurisprudenza ma anche storia. Magari in combinazione con un’altra sentenza di condanna in primo grado, inflitta sempre dal Tribunale di Cosenza allo stesso Citrigno e al suo ex socio Fausto Aquino a fine 2017 per la bancarotta fraudolenta di Calabria Ora, il giornale in cui lavorava Alessandro. Anche su questo verdetto pende l’Appello.

Le due decisioni giudiziarie fanno luce sui meccanismi di scatole cinesi su cui si è retta molta editoria, non solo calabrese, e, allo stesso tempo, denudano i meccanismi, a volte davvero violenti, del controllo padronale sulle testate.

Proprio per questi motivi, l’idea di rievocare la storia e la figura di Alessandro Bozzo è più che opportuna: la sua tragedia va ben oltre la cerchia degli affetti più stretti e tocca alcuni problemi salienti della professione giornalistica.

Forse non a caso, Lucio Luca, giornalista siciliano di lungo corso ora in forza a Repubblica, ha tentato di raccontare tutta questa brutta storia in L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana Editore, Milano 2018), un romanzo dedicato al giornalista cosentino e al suo suicidio, scritto sulla base dei diari dello stesso Alessandro, degli atti giudiziari e delle testimonianze di amici e colleghi.

La copertina di L’altro giorno ho fatto quarant’anni

Raccontare il tutto in maniera credibile e convincente anche per i lettori non calabresi non è facile. E Luca, infatti, ha sbagliato il bersaglio e i modi. Non è una questione di fonti o del loro uso, perché tutte, a vari livelli e ciascuna a modo suo, sono credibili (anche se la critica delle fonti è quantomeno doverosa da parte di un giornalista).

Il problema, semmai, riguarda la scelta di campo.

Indeciso, forse anche per ragioni editoriali, tra la cronaca – che sarebbe stata opportuna, visto che l’iter giudiziario è ancora in corso – e la narrativa, il giornalista di Repubblica si è tuffato in un compromesso poco plausibile (e ancor meno bello): il romanzo biografico.

In altre parole, l’autore si è limitato a oscillare tra i due poli senza toccarne nessuno in maniera convinta e ha optato per la verosimiglianza, che è una strada piena di insidie e trabocchetti. E infatti Luca c’è cascato più volte: non basta scrivere un libro a prova di querela, magari con l’ausilio di un quotato studio legale (puntualmente citato nei ringraziamenti) per rendere un servizio alla verità. Né basta una certa abilità a suonare le corde degli affetti e dell’indignazione per rendere credibile ciò che non lo è: nessuna verità diventa più vera solo perché urlata o abbellita.

Lucio Luca

Il romanzo biografico, in questo caso, avrebbe dovuto dare consistenza all’aspetto umano della vicenda. Rendere vivo Alessandro.

Invece Luca restituisce al lettore – soprattutto al lettore che l’ha conosciuto – una caricatura dello sfortunato giornalista.

L’io narrante di Alessandro Bozzo, che disegna la trama del libro come una discesa costante e inarrestabile nei gorghi del malessere e della depressione, risulta poco realistico: una specie di John Wayne ’i nuavutri.

Alessandro, semmai, somigliava a Jocker – non il personaggio di Batman ma il soldato che fa da io narrante a Full Metal Jacket di Stanley Kubrick – che invece si divertiva a caricaturare proprio John Wayne.

Ironico, dissacrante e strafottente, l’Alessandro reale non si prendeva mai sul serio, detestava le pose eroiche e definizioni come schiena dritta, che invece gli viene messa in bocca ogni due per tre. Inoltre, sempre a proposito di verosimiglianza, Alessandro non fumava più da un bel pezzo prima di uccidersi. Che senso ha allora attribuirgli l’abitudine di fumarsi una paglia, cioè una sigaretta di tabacco sfuso? Forse Luca voleva spiaccicare meglio addosso al personaggio un’immagine da duro che al massimo fa sorridere?

Ma questi sono solo dettagli. La ciccia è altrove.

Si prendano ad esempio i giudizi espressi da Alessandro sui vari direttori di Calabria Ora (cioè Paride Leporace, l’attuale direttore della Lucana Film Commission, Paolo Pollichieni, attuale direttore de Il Corriere della Calabria, e Piero Sansonetti, attuale direttore de Il Dubbio). È vero, al riguardo, che Alessandro covava risentimenti e rancori (tipici dei giornalisti bravi che non si percepiscono adeguatamente valorizzati o, peggio, si sentono abbandonati a sé stessi). Ma la confusione è tale da non far capire a chi il giornalista si riferisse come direttore assente nella prima parte del libro. Tanto più che l’unico target certo risulterebbe Sansonetti, a cui si allude col nomignolo di Disossato nella seconda parte del libro.

Sempre a proposito di pure invenzioni calate nella verosimiglianza, non può sfuggire che la vicenda del Cinghiale, ultimo sussulto del quotidiano calabrese prima della sua chiusura, è del tutto decontestualizzata: è riferita, infatti, a una storia e a un periodo completamente diversi da quelli raccontati nel libro.

Infatti, il blocco delle rotative di Calabria Ora per fermare una notizia scomoda avvenne quasi un anno dopo la tragedia di Alessandro e sotto la direzione di Luciano Regolo (ex direttore di Novella 2000 e ora condirettore di Famiglia Cristiana) e questa notizia riguardava la Sanità e non l’edilizia popolare, come invece riportato nel libro.

Ancora una volta è lecito chiedersi: a che pro? Forse per trasformare Alessandro, attribuendogli un ulteriore colpaccio di cui non aveva bisogno, nella sintesi del giornalista eroico calabrese?

E non finisce qui: fa più che sorridere, ad esempio, l’idea che il trasferimento al desk di un cronista d’assalto fosse considerata una specie di punizione. Occorre ricordare a Luca e raccontare ai meno esperti di faccende redazionali, che per la stragrande maggioranza dei giornalisti stare al desk, cioè impaginare e titolare essenzialmente pezzi altrui, è il modo più sicuro di essere pagati in maniera meno indecente dei cronisti che rischiano per i famosi spiccioletti al rigo. E occorre ricordare che una dote molto apprezzata nei redattori è stata a lungo la capacità di sostituirsi ai grafici, cioè di costruire le pagine in proprio e, persino, di modificare i formati fotografici.

Questa prassi, non contemplata dai manuali di giornalismo né dai contratti collettivi, è molto usata tuttora nei giornali locali (e ciò spiega come mai tanti quotidiani di provincia siano autentici centoni di refusi e orrori orto-grammaticali). Ad Alessandro, semmai, va riconosciuta la bravura di aver saputo fare cronaca e, contestualmente, impaginare in maniera decorosa il lavoro altrui.

Ma quest’aspetto, evidentemente, sfugge all’autore, sin troppo impegnato a stupire e a indignare.

Stesso discorso sulla storia del padrone in redazione: molte testate hanno vissuto o vivono la medesima anomalia di editori troppo presenti. Inutile e ozioso, quindi, attribuire al solo Citrigno comportamenti che hanno avuto in molti a vari livelli (si pensi che parecchie testate, specie in Calabria, sono gestite da service, in cui piccole agenzie di proprietà di singoli giornalisti gestiscono tutto… di cosa parliamo?). E si potrebbe continuare.

È opportuno fermarsi qui, non prima di aver posto un altro interrogativo: a che pro riportare le vicende private di Alessandro? Forse per scaricare sul solito editore mannaro anche i malesseri intimi della sua vittima? Di più: è giusto che chi resta e avrà l’età per capire solo tra qualche anno sappia da un libro fatti e chiacchiere che dovrebbero essere raccontati e ricordati con ben altra delicatezza?

No, questa non è una rievocazione, ma una riesumazione, neppure fatta bene.

L’altro giorno ho fatto quarant’anni non rende un bel servizio a nessuno. Non alla memoria di Alessandro, che ne esce distorta e caricaturata. Non al giornalismo calabrese, trattato per l’ennesima volta con atteggiamento coloniale dai professionisti delle testate che contano. Né, infine, alla letteratura giornalistica, perché in questo libro non c’è né il sostantivo né l’aggettivo del genere. È un tabloid di duecento pagine.

Il riferimento al formato scandalistico per eccellenza non è un caso: il tipografo di Calabria Ora, che per un certo periodo è stato egemone nell’editoria periodica calabrese, stampava solo in questo formato. E, forse senza neppure volerlo, ha creato una stigmata per tutta l’editoria del profondo Sud: tanti tabloid e un solo lenzuolo, insufficienti tutti sia a diffondere le verità sia, più prosaicamente, a coprire le vergogne.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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