I lati del cerchio, una saga familiare napoletana
Aurora Del Monaco rispolvera i propri ricordi antichi nel suo ultimo romanzo, in cui racconta la storia d’amore tra i suoi nonni, sullo sfondo della guerra di Libia
«Naturalmente, un manoscritto»: è questa l’epigrafe premessa alla prefazione del Nome della rosa di Umberto Eco. Si tratta di un antico topos letterario, fra i cui esempi più illustri si annovera nientemeno che il romanzo storico italiano per eccellenza: I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.
A dei manoscritti, stavolta autentici, è ricorsa anche la scrittrice Aurora Del Monaco per basarvi il suo romanzo I lati del cerchio. Una famiglia napoletana, pubblicato dalle Edizioni END. La vicenda narrata dall’autrice si basa su un saldo fondamento di verità, poiché riguarda due persone realmente esistite: i suoi nonni materni, Amelia Assante e Stanislao Smiraglia.
I lati del cerchio è essenzialmente il racconto della storia d’amore di Amelia e Stanislao, dal loro primo incontro nel 1900 fino alla morte di lui, avvenuta nel 1933.
Una grande fotografia, i ritratti e i cimeli del «tenente colonnello Smiraglia» fungono da madeleine per la memoria della scrittrice, che ricorda di aver visto quegli oggetti da bambina, in piena seconda Guerra mondiale, nella casa della nonna in via del Priorato 8, a Napoli. Molti anni dopo, queste lontane rimembranze si arricchiscono di una testimonianza inattesa: una cugina le porta a vedere un quaderno con la copertina di cartone a piccoli disegni marmorizzati, il dorso di tela verde e un’etichetta: «Lettere scritte al mio Stanislao 1900-1901». Da qui inizia il viaggio dell’autrice, la quale cerca le tracce dei nonni materni nei documenti, nelle memorie e nei libri, nei luoghi e in sé stessa.
Come accade in tutti i «componimenti misti di storia e d’invenzione» – per usare la formula manzoniana – anche nel caso del romanzo della Del Monaco i dati di fatto della biografia dei protagonisti si intrecciano con dialoghi ed evocazioni di stati d’animo ricostruiti, presumibilmente, mediante l’esclusivo ricorso alla fantasia.
Eppure le pagine più intense sul piano emotivo sono proprio quelle più felici. Per esempio, lo sbocciare dell’amore fra la signorina di buona famiglia e il giovane capitano è descritto con grande delicatezza e pudicizia; d’altra parte, l’autrice non rinuncia a far emergere i risvolti teneri e appassionati di quel sentimento.
L’empatia della scrittrice con i suoi personaggi percorre tutto il romanzo e ne irrobustisce la fluidità narrativa. Scorrono agevolmente, così, trent’anni di vita italiana visti con gli occhi di una famiglia numerosa, destinata a seguire le sorti, e i cambi di residenza, del padre e marito militare. Nel «nido» faticosamente costruito da Amelia e Stanislao a un certo punto si inserisce anche un intruso, peraltro incolpevole: un bambino, Carlo, avuto da Stanislao, prima del matrimonio, da una relazione con una donna di basso ceto e da lui riconosciuto. Questo figlio non verrà mai accettato da Amelia, anche se lei gli permetterà di conoscere i fratelli e di intrattenere con loro rapporti cordiali.
Intanto la carriera di Stanislao Smiraglia va avanti: in Libia, fra il 1911 e il 1912, combatte valorosamente sotto il comando dell’allora colonnello Armando Diaz, futuro «Duca della Vittoria». È quindi promosso tenente colonnello e gli viene conferita la decorazione di cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Ma, proprio quando la sua ascesa sembra non conoscere più ostacoli, un imprevisto fatale gli stronca la carriera.
Domenica 7 giugno 1914, festa dello Statuto, Stanislao viene invitato a un grande ricevimento dal sindaco di Gaeta, città in cui il tenente colonnello era stato trasferito per essere destinato al Comando degli stabilimenti militari distrettuali di pena. Durante la festa, un giornalista francese, parlando con un suo connazionale, azzarda un’osservazione ingiuriosa sul comportamento tenuto dai soldati italiani a Sidi Bilal e a Zanzur. Ne nasce un battibecco con Smiraglia che degenera in una sfida a duello. La tenzone si conclude con la vittoria dell’ufficiale: questi però, battendosi, contravviene alla legge che vieta i duelli. A Stanislao non resta altra via d’uscita che dimettersi dall’esercito, per essere congedato con onore.
Le conseguenze psicologiche dell’accaduto pesano duramente sull’ex militare: «Il suo mondo interiore» scrive la Del Monaco «si era isterilito. Nella sua vita non aveva più nulla per trasformare le cicatrici dell’anima in un impegno d’onore perché si era rotto l’equilibrio fra l’orizzonte esterno e il suo piccolo mondo familiare, rimasto unico rifugio per la sua malinconia».
Stanislao non si riprenderà più dal colpo subito: guarderà agli eventi successivi – la Grande Guerra e l’avvento del fascismo – come dall’interno di un banco di «nebbia di malinconia opaca e grigia». Morirà nel 1933, ormai privo di un’energia vitale che era stata risucchiata dalla corrosiva stanchezza di dover affrontare un’epoca che gli aveva reso estraneo il mondo.
Sul letto di morte del marito, Amelia troverà conforto fra le braccia di Carlo, il figlio sempre rifiutato, l’unico che, al contrario degli altri fratelli Smiraglia, sarebbe rimasto veramente solo dopo la scomparsa del padre.
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