Ma di quale Resistenza parliamo?
Anche quest’anno le celebrazioni del 25 aprile hanno scatenato polemiche, a dispetto del lockdown dovuto alla pandemia. È il momento di fare il punto con una riflessione spassionata
Lo confesso con un po’ di candore: non ho partecipato alla Festa della Liberazione virtuale né, tantomeno, ho cantato “Bella Ciao”.
Allo stesso modo, mi sono ben guardato dal cantare “Le donne non ci vogliono più bene”, l’inno dei ragazzi di Salò, anche nella convinzione che porti un po’ sfiga coi suoi toni in cui si mescolano goliardia e decadenza in dosi indigeste.
Ho voluto come sempre chiamarmi fuori dai toni enfatici da stadio con cui ogni anno si eterna il meccanismo, ormai più mediatico che politico, di questa celebrazione.
E non perché non sia convinto che col 25 aprile non sia arrivata la libertà. Anzi.
Al contrario di quanto ha scritto con la consueta efficacia Marcello Veneziani, non credo che la festa del 25 aprile sia divisiva. Al contrario, è la festa che celebra la fine di una sanguinosissima guerra civile. È la festa con cui si celebra la seconda unità nazionale del Paese, che si presentò a quella data diviso in due: da un lato la Repubblica Sociale Italiana, il tragico (e ormai inconsistente) esperimento finale con cui Mussolini cercò di resuscitare il fascismo delle origini, e il Regno del Sud, che rivendicava la continuità dello Stato.
Due Stati-fantoccio, che sopravvivevano entrambi sotto la tutela ingombrante o peggio, padronale (nel caso dell’occupazione tedesca) delle armi altrui. Ecco, il 25 aprile ci ha liberato da tutto questo.
Ma non accetto i cori da stadio, né la pretesa di insistere in un ricordo omologato e omologante. Soprattutto, mi sono stufato di quel gioco delle parti fatto di rimpalli polemici, in cui gli eredi degli eredi del neofascismo cercano di rintuzzare gli eredi degli eredi del comunismo a botte di citazioni di Giampaolo Pansa.
E mi sono stufato del fatto che alcune associazioni, rappresentative di una minoranza, si attribuiscano ancora il ruolo di custodi della memoria collettiva, da interpretarsi a senso unico, e, soprattutto, tentino di riaprire certe ferite dell’immaginario collettivo che pure si era tentato di cauterizzare sin dagli anni ’80.
Al riguardo, mi permetto di richiamare una vecchia tavola rotonda organizzata da Storia Illustrata, in cui si confrontarono quattro protagonisti del biennio ’43-’45: Giorgio Bocca, grandissimo giornalista ed ex partigiano di Giustizia e Libertà, l’immenso Indro Montanelli, che visse quel biennio con la divisa “badogliana”, Oreste Del Buono, il comunista che non fece la Resistenza perché prigioniero dei tedeschi, e Giorgio Almirante, l’indimenticato segretario del Msi che raccontò con rara lucidità la sua esperienza di repubblichino.
«La Resistenza fu tante cose», commentò Bocca durante quel dibattito bello e civile. E di sicuro non furono tutte cose belle, come lo stesso giornalista avrebbe ricordato qualche anno più tardi ne “Il Provinciale”, la sua autobiografia scritta col piglio nervoso e lo spirito cinico tipici di tutte le grandi firme.
Il movimento resistenziale fu teatro di contrapposizioni feroci tra gruppi, persone e visioni del mondo, che si combattevano anche in maniera cruenta, come testimonia l’infame eccidio di Porzus, sotto il collante dall’antifascismo.
Di sicuro c’è una Resistenza che ricordo con piacere e con orgoglio: fu senz’altro quella dei giellisti, in cui riviveva un certo spirito patriottico di estrazione risorgimentale. E poi quella degli osovani, che difesero il Nordest non solo dall’esercito tedesco ma anche dalle mire, non meno fameliche e sanguinarie, dei partigiani di Tito, alleato nominale ma nemico sostanziale del nostro Paese.
Senza questa Resistenza sarebbe finita davvero male. Senza questi reparti, costituiti da militari “sbandati” che si resero protagonisti di azioni spericolate ed eroiche, non avremmo avuto nessuna credibilità in un tavolo della pace in cui i nuovi alleati pensavano soprattutto a come depotenziare l’Italia, annettendosene qualche pezzo (la Francia) oppure limitandone drasticamente il ruolo di potenza marittima (la Gran Bretagna).
Già: non fummo subalterni solo ai tedeschi.
Senza questa Resistenza non saremmo stati in grado di dare garanzie ai nostri veri liberatori, cioè gli Usa, che dopo la guerra avremmo iniziato un cammino di libertà e democrazia. La stessa libertà e democrazia di cui hanno fruito anche gli ex repubblichini.
Se ci sono dubbi, vi invito a pensare a cosa è accaduto a quei Paesi che non svilupparono movimenti resistenziali autoctoni: mi riferisco ai Paesi dell’Europa dell’Est e alla Germania. Nei primi, i movimenti resistenziali, foraggiati quasi esclusivamente dal Comintern, divennero quinte colonne e furono praticamente fagocitati dall’Armata Rossa prima e dal Patto di Varsavia poi, Alla seconda, che fu priva di Resistenza, andò peggio: fu spartita tra le superpotenze e restò divisa per quarantacinque anni.
La Resistenza cattolica, liberale, liberalsocialista, repubblicana e persino monarchica, che gestì una guerriglia durissima senza tuttavia causare danni ai civili, fu per l’Italia un toccasana, allo stesso modo in cui la Resistenza guidata dal governo ombra di de Gaulle lo fu per la Francia: ci salvò dal destino di passare da potenza coloniale a colonia.
E a chi sostiene il contrario, magari sotto l’influsso di qualche visione sovranista che ha poco a che fare con la realtà, mi permetto di consigliare il ripasso di qualche buon testo di storia contemporanea.
Lo stesso non si può dire per le brigate “Garibaldi”, che hanno finito di logorare a sinistra il nome del grande eroe dopo che il fascismo lo aveva logorato a destra: le continue azioni fratricide contro i partigiani delle formazioni non comuniste e i colpi di mano nei teatri urbani, che sapevano più di terrorismo che di guerriglia, non depongono a loro favore.
Non depone a loro favore, soprattutto col senno del poi, anche la loro subalternità alle linee guida, che provennero prima da Mosca, poi da Belgrado e infine di nuovo da Mosca.
Non depone a loro favore la mattanza praticata, a guerra finita, contro civili inermi, che comunque avrebbero meritato almeno un processo prima di essere messi a un muro.
Non depone a loro favore la pretesa di egemonizzare lo storytelling di tutto il movimento resistenziale, identificando la Resistenza con la democrazia.
Al riguardo, mi permetto una precisazione: la Resistenza propiziò senz’altro la nascita della democrazia nel nostro Paese, ma non fu un fatto democratico.
Fu l’impresa di una minoranza costituita in parte da ex militari che continuarono a combattere e in parte da gruppi provenienti dal movimento operaio sotto l’egemonia del Pci. In entrambi i casi, la storia del popolo che si sarebbe sollevato in armi è una favola. Il popolo, quello vero, fu preso nel mezzo: rimase a guardare o, alla peggio, a subire.
Per questo, a settantacinque anni di distanza da quelle tragedie, appaiono irritanti certe pretese di egemonia, con cui si continua a dividere lo studio e la ricerca storica tra tifoserie opposte, feroci e spesso ugualmente stupide.
Soprattutto, trovo intollerabile che una sparuta minoranza, rappresentata da alcune associazioni insista ancora con le benedizioni e le scomuniche. Magari sulle note di “Bella Ciao”, cantata come neanche un prete farebbe con un’omelia.
A dirla tutta, la Resistenza che mi piace, e che è risultata utile (e perciò importante) al nostro Paese, non cantava “Bella Ciao”.
E neanch’io.
Saverio Paletta
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