Caso Sallusti, una riflessione a freddo
La Cedu ha condannato l’Italia per l’ingiusta detenzione del direttore de Il Giornale. C’è chi esulta e chi, invece, resta freddo. Ma davvero questa vittoria di Pirro, che si riduce solo a un risarcimento, può dare speranze ai giornalisti italiani? C’è da dubitarne…
Sul verdetto, a dir poco salomonico, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per l’ingiusta detenzione di Alessandro Sallusti, si sono sfogate un bel po’ di opinioni.
Piuttosto asciutte le agenzie stampa, che si sono limitate a riportare il vedetto della Cedu, più sulla base della lettura del comunicato stampa della Corte che sull’analisi attenta della sentenza.
E questa attitudine, tutta italiana, al minimalismo, ha motivato i titoloni con cui molte testate hanno commentato la decisione, tanto urlati quanto inconsistenti.
Niente carcere per i giornalisti è l’esempio più diffuso.
E si è arrivati a due estremi: da un lato la freddezza con cui Il Fatto Quotdiano ha diffuso la notizia (e ha ricordato, tra l’altro, la fondatezza delle accuse nei confronti dell’ex direttore di Libero), dall’altro l’esultanza della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, dovuta al fatto che la sentenza comunque va nella direzione desiderata dalla categoria ma ancora non attuata in Italia, cioè l’eliminazione del carcere per i giornalisti.
In questo caso, tuttavia, non vale il detto per cui la “verità sta nel mezzo”.
Ma procediamo con ordine.
Innanzitutto, rispondiamo a una domanda banale: perché dire Niente carcere per i giornalisti è più inconsistente dei titoli che si danno di solito alle cronache sportive di provincia?
È presto detto: la previsione del carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa è piuttosto astratta. Detto altrimenti, i giornalisti in Italia non vanno in carcere e i casi recenti di giornalisti finiti davvero in galera per diffamazione si contano sulle dita di una mano.
Non a caso, la Corte di Cassazione considera il carcere una sanzione eccezionale da riservarsi a fatti davvero gravi.
I problemi reali per i giornalisti sono la facilità con cui fioccano le querele e la connessa esosità dei risarcimenti. Lo testimoniano l’enorme quantità di querele che intasa le cancellerie delle Procure (e ora anche gli uffici della Polpost) e le somme richieste in risarcimento dalle parti civili (con tariffari che vanno spesso da un minimo di 50mila euro a un massimo di un milione).
Al punto che, senza troppo cinismo, si può dire che per molti subire qualche mese di galera risulterebbe preferibile al ritrovarsi nella condizione di debitori a vita di un querelante. Un altro paradosso? Proprio no, perché non sono poche le testate, soprattutto di provincia, che devono una buona parte dei non pochi loro problemi economici ai risarcimenti.
Torniamo alla diffamazione e a Sallusti: in che modo questa decisione potrebbe dare un po’ di sollievo alla maggior parte degli operatori dell’informazione che, a differenza del direttore de Il Giornale, non godono della fiducia di editori danarosi e della tutela di studi legali ultraspecializzati? Essenzialmente per la conferma del rifiuto del carcere ai giornalisti rei della sola diffamazione e per l’idea che la pena debba comunque essere proporzionata ai danni inflitti con il reato. Soprattutto quest’ultimo principio potrebbe essere applicato benissimo anche alle pretese risarcitorie. Il classico poco che è meglio che niente.
Altrimenti saremmo costretti ad affermare che la sentenza ha beneficato il solo Sallusti, forte di una caparbietà e di tutele inottenibili dalla stragrande maggioranza dei giornalisti, molti dei quali finiscono sotto processo per semplici errori professionali.
Che il reato commesso dall’allora direttore di Libero sia invece doloso ci sono invece pochi dubbi, diminuiti dalla sentenza della Cedu.
Infatti, recita testualmente la sentenza:
«In particular, it cannot consider arbitrary or manifestly erroneous the assessment carried out by the national authorities, according to which the articles published by the applicant had attributed behaviour to G.C. involving a misuse of his official powers».
Il che, tradotto alla meno peggio, significa:
«In particolare, non può essere considerata arbitraria o manifestamente erronea la decisione presa dalle autorità italiane, secondo le quali gli articoli pubblicati dal ricorrente [cioè da Sallusti, ndr] avevano attribuito a G.C. [Giorgio Cocilovo, il giudice tutelare, ndr] un uso improprio dei suoi poteri ufficiali».
Ma c’è di più:
«Moreover, the Court observes that the case involved a minor and also contained defamatory statements against the parents and the doctors».
E cioè:
«Inoltre, la Corte osserva che nel caso era coinvolta una minorenne e che conteneva dichiarazioni diffamatorie nei confronti dei genitori e del medico».
In pratica, e a dispetto della ricostruzione parziale (e interessata) de Il Giornale, secondo la Cedu i magistrati italiani sono stati nel giusto.
A questo punto è doverosa una sommaria ricostruzione della vicenda.
Nel 2007, l’anno in cui Sallusti dirigeva Libero, si era sviluppata una corposa polemica a favore del diritto alla vita, polemica confermata dalla candidatura in Parlamento, l’anno successivo, di Giuliano Ferrara alla guida di un movimento dichiaratamente antiabortista. Non entriamo nel merito, ma ci limitiamo a descrivere il quadro in cui è maturata la disavventura giornalistica di Libero e del suo direttore.
Il 17 febbraio 2017 La Stampa pubblica un articolo riguardo una ragazzina di Torino finita all’Ospedale dei Bambini di Torino in seguito a un aborto a cui sarebbe stata costretta dai propri genitori col presunto beneplacito del giudice tutelare.
Nel giro di poche ore, arriva la smentita del Tribunale piemontese: la bambina, si apprende dal comunicato aveva abortito di sua spontanea volontà con l’aiuto dei genitori e il giudice tutelare si sarebbe limitato a prenderne atto.
Questa seconda notizia viene battuta dall’Ansa e rilanciata dai principali Tg nazionali, dal Corriere della Sera e da Repubblica.
Ciononostante, il 18 febbraio Libero dedica due articoli al caso: il primo, intitolato Il giudice ordina l’aborto. Le legge è più forte della vita, è firmato Dreyfus ed è il classico commento giornalistico sulla vicenda; il secondo, firmato A. M. e intitolato Costretta ad abortire dai genitori e dal giudice, sembra invece una cronaca, piuttosto tardiva.
In entrambi i casi, il quotidiano di Sallusti tratta la vicenda senza aggiungere fatti nuovi e, quindi, senza superare la smentita.
La traversia giudiziaria del giornalista comasco, partita in seguito alla denuncia del giudice tutelare Giorgio Cocilovo, inizia e finisce proprio per questi motivi e si svolge in tre fasi, dall’esito tutto sommato scontato tranne che per la galera.
Nel processo di Primo grado, terminato a Milano il 20 marzo 2009, Sallusti viene riconosciuto colpevole di omesso controllo, ai sensi dell’articolo 57 del Codice penale e di diffamazione aggravata ai sensi dei primi due commi dell’articolo 595 del Codice penale e condannato a pagare 5mila euro di multa, 10mila di risarcimento e 2.500 di spese. È la sentenza più garantista della vicenda, visto che i magistrati di Milano non menzionano neppure il carcere.
Le cose vanno diversamente in Appello, dove invece Sallusti subisce il 17 giugno 2011 una condanna decisamente più pesante: un anno e due mesi di detenzione, triplica il risarcimento (che passa da 10mila a 30mila) e mantiene la multa di 5mila euro. Con una motivazione aggiuntiva piuttosto importante: vittima, secondo i magistrati d’Appello, non è solo il giudice tutelare, ma anche la ragazzina.
La Cassazione conferma il verdetto d’Appello il 26 settembre 2012. E per Sallusti, nel frattempo diventato direttore de Il Giornale, inizia la detenzione. Non in carcere, ma a casa della sua compagna, l’imprenditrice ed esponente politica del centrodestra Daniela Santanchè.
Vi trascorrerà una quarantina di giorni perché il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano commuta la detenzione in una pena pecuniaria di 15.532 euro.
Nel frattempo, avviene un colpo di scena che per i dietrologi potrebbeessere inquietante: due giorni dopo il verdetto degli Ermellini, Renato Farina, all’epoca deputato del Pdl e collaboratore storico di Sallusti rivendica la paternità del corsivo firmato Dreyfus.
Anche Farina, lo ricordiamo per banale dovere di cronaca, aveva qualche guaio: era stato radiato dall’Ordine dei giornalisti in seguito all’emersione (avvenuta in seguito al caso Abu Omar) della sua, parrebbe ben pagata, collaborazione coi Servizi Segreti. Proprio questa situazione di Farina ha procurato a Sallusti un altro problema: la sospensione dall’Ordine per tre mesi per aver consentito a Farina di collaborare a Il Giornale. Una vicenda, c’è da dire, che si è sgonfiata da sé, perché in realtà Farina, come ha poi riconosciuto la Cassazione, si era in realtà dimesso prima di essere radiato ed è stato riammesso nell’Ordine nel 2014.
Torniamo alla decisione della Cedu. A scorrerne bene la sentenza, redatta tra l’altro in un inglese cristallino ben lontano delle contorsioni linguistiche a cui ci hanno abituati i giuristi nostrani, si capisce benissimo che il collegio presieduto da Linos-Alexandre Sicilianos non ha lenito di una virgola le responsabilità riconosciute a Sallusti dai magistrati italiani. Anzi, un passaggio della sentenza dà il carico:
«The Court agrees with the Government that the applicant failed to observe the ethics of journalism by reporting information without first checking its veracity».
E cioè:
«La Corte concorda col Governo [italiano, ndr] sul fatto che il ricorrente non ha osservato l’etica del giornalismo riportando informazioni senza prima verificarne la veridicità».
In buona sostanza, la Cedu si è limitata a condannare lo Stato a risarcire 12mila e rotti euro a Sallusti per i ventuno giorni di ingiusta detenzione. Ma solo quelli.
Per il resto, ha riconosciuto sia la base legale su cui è stata irrogata la condanna, sia, soprattutto, la legittimità di questa normativa che, nel caso di Sallusti non ha solo tutelato la reputazione di un magistrato ma anche quella di una ragazzina e dei suoi genitori.
È allora il caso di cantare vittoria solo perché la Cedu ha semplicemente fatto il proprio dovere dichiarando una volta di più illegittima la previsione del carcere per la diffamazione, che è poi il reato classico dei giornalisti. Non altrettanto ha fatto per altri reati commissibili a mezzo stampa, ad esempio l’istigazione all’odio o l’incitazione alla violenza.
«Vi brindo in faccia», ha commentato il direttore de Il Giornale dopo la sua vittoria, che senza troppa retorica si può definire di Pirro.
Ma il problema non è di tifoserie né di concezioni estreme (ed astratte) della libertà di manifestazione del pensiero di cui l’uso scorretto dei social offre testimonianze a dir poco agghiaccianti.
Il problema, ripetiamo, riguarda la vita normale dei giornalisti normali, pagati poco e tutelati meno a livello legale.
Se questa sentenza dovesse dare l’avvio a incursioni più incisive nella nostra giurisprudenza sciatta e caotica, potremo davvero applaudire tutti.
Altrimenti, l’unico che può brindare è Sallusti. Ma il giornalismo c’entra poco: lo ha detto la Cedu.
Per saperne di più:
La sentenza della Cedu sul caso Sallusti
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