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Caso Villella, ecco cosa stabilisce la Corte d’appello di Catanzaro

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Ecco i tratti salienti della sentenza che ha salvato il Museo Lombroso di Torino dalle pretese dei neoborbonici

«Andremo in Cassazione», ha tuonato dalle colonne di Repubblica il sindaco di Motta Santa Lucia Amedeo Colacino nel commentare la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catanzaro (presieduta da Teresa Barillari e composta dal relatore Antonio Rizzuti e dalla consigliera Angelina Silvestri) ha dato ragione al Museo Lombroso e all’Università di Torino sulla vicenda del cranio di Giuseppe Villella.

Villella è stato protagonista di una parabola biografica più unica che rara: prima presunto brigante (così, erroneamente, lo definì Cesare Lombroso), poi patriota del Regno delle Due Sicilie (così lo ha considerato la vulgata neoborbonica), infine semplice e sfortunato pastore (stavolta sulla base di dati di fatto ricavati dall’antropologa Maria Teresa Milicia dopo una ricerca faticosissima negli archivi di mezza Calabria), morto in carcere per reati contro il patrimonio, a cui era stato costretto dall’indigenza. E fu sfortunato anche dopo morto, perché il suo teschio ispirò a Lombroso la teoria dell’atavismo criminale. Storia nota che non ripetiamo per non tediare il lettore.

Semmai vale la pena di approfondire la decisione della Corte d’Appello, che deve ritenersi completa delle motivazioni. Anzi, ipermotivata, visto che i magistrati catanzaresi scavano piuttosto a fondo e mettono per davvero la parola fine a uno dei processi più bizzarri celebrati nei Tribunali calabresi.

Il primo aspetto importante è che il Museo Lombroso ha vinto solo nel merito perché la Corte d’appello ha respinto la richiesta di dichiarare incompetente il Tribunale di Lamezia, che aveva emesso l’ordinanza con cui si imponeva la restituzione del cranio a Motta Santa Lucia. Era l’unico formalismo tentato dalla difesa del Museo e dell’Università. Il resto è tutto sostanza. Vale a dire che il Museo ha vinto perché aveva ragione.

Il secondo aspetto da sottolineare è che i giudici d’appello hanno ritenuto insussistenti i motivi più ideologici del Comune e del Comitato tecnico scientifico “No Lombroso”. In altre parole, non contava ai fini del processo che la restituzione del cranio dovesse risarcire l’immagine sociale e morale di Motta Santa Lucia «considerata a lungo terra di briganti». Al più, questa motivazione, secondo i giudici di Catanzaro, sarebbe rafforzativa della volontà di riavere il cranio. Ma resta il fatto, proseguono i magistrati, che il Comune, e con esso il Comitato No Lombroso, non sono riusciti a specificare in che modo la dignità di Motta sarebbe stata lesa. Anche perché questa stessa rappresentazione di Motta come luogo d’elezione di briganti è essa stessa un’invenzione (tra le tante) di questa vicenda allucinante.

L’esito giudiziario coincide, a questo riguardo, con la verità storica. Di Villella non si favellava più da quando il Museo aveva chiuso i battenti parecchi anni fa e la conoscenza di Lombroso era diventata appannaggio di una cerchia ristretta di specialisti. Lo stesso Colacino, durante l’annuale raduno dei neoborbonici a Gaeta, aveva confessato candidamente di aver saputo del suo compaesano da Gennaro De Crescenzo, il leader del Movimento neoborbonico. Ma come? Aveva un patriota sotto casa e non lo sapeva? Aveva, tra i compaesani, la vittima per eccellenza del razzismo antimeridionale e lo ignorava? Meno male che è intervenuto De Crescenzo a colmare la lacuna… D’altronde, che questa pretesa, la più forte a livello ideale, fosse vaga lo avevano capito anche gli avvocati del Comune e del Comitato che, con pragmatica professionalità, si erano limitati a chiedere la restituzione del teschio a spese del Museo, quando, viceversa, avrebbero potuto chiedere un risarcimento del danno.

Il terzo aspetto, quello per cui il Museo è riuscito a sopravvivere alla vera e propria crociata ideologica combattuta per via giudiziaria, ha del paradossale. Il giudice Gustavo Danise del Tribunale di Lamezia aveva riconosciuto a Motta Santa Lucia la titolarità del cranio di Villella e il diritto di seppellirlo, con una conseguenza non da poco: la reliquia del pastore mottese cessava di essere un bene culturale, come tale di proprietà del Museo, e diventava una semplice parte di cadavere. Una vittoria beffarda, oltre che effimera, sia per il Comune sia per i “no Lombroso”: i resti di un eroe tornano a casa perché cessano di avere valore.

Ma il paradosso vero di questa parte della decisione del giudice Danise, fanno capire i magistrati di Catanzaro, sta altrove. Perciò non è inutile approfondire. Il giudice lametino, infatti, aveva ordinato la restituzione del teschio sulla base degli articoli 40, 42 e 50 del dpr 285 del 1990 (il regolamento di polizia mortuaria). L’articolo 42 stabilisce che i resti mortali utilizzati per studi scientifici devono essere restituiti al cimitero, una volta terminati gli studi. L’articolo 50, invece, stabilisce che i cadaveri debbano essere seppelliti nel territorio del Comune in cui il defunto era residente.

Inoltre, Danise aveva riconosciuto al Comune di Motta il diritto di seppellire i resti di Villella sulla base di una norma consuetudinaria che consente di indicare uno specifico sepolcro per uno specifico corpo.

Anche in questo caso, il verdetto dell’appello ha un aspetto beffardo: i giudici di Catanzaro, come già Danise, hanno applicato l’articolo 50 del dpr 85, ma con una conclusione che più opposta non si può ai desideri del Comune. L’articolo 50, infatti, riconosce che i resti umani debbano essere seppelliti nel territorio di residenza in vita, tranne che essi non abbiano già una loro, legittima destinazione. E questa destinazione c’è: secondo il Codice dei beni culturali, il teschio di Villella è bene culturale perché fa parte di una raccolta di tali beni, cioè della collezione privata che fu di Lombroso e che oggi è custodita nel Museo torinese. E poco importa che le teorie lombrosiane siano oggi ritenute non valide: l’importante è che siano esistite e abbiano lasciato traccia.

Vale la pena di riportare il passaggio della sentenza d’appello che davvero fa calare il sipario: «In effetti, ritiene la Corte che tale destinazione ad esposizione museale sia del tutto legittima, in quanto appare evidente l’interesse storico-scientifico della conoscenza di teorie scientifiche (e, quindi, dei reperti che sono stati oggetto delle indagini dei loro autori), come quella del Lombroso, che hanno avuto notevole eco ed importanza nel dibattito scientifico, per quanto siano, ormai, del tutto superate. Si può negare la validità di una teoria scientifica, ma non la sua esistenza e l’interesse generale a conoscerne gli aspetti».

Ecco, siamo davvero ai titoli di coda di questo bizzarro film, che sembra la caricatura picaresca di un thriller. Un modo più elegante di fare giustizia non poteva esserci.

Infine, la sentenza d’appello ha fatto giustizia di altre maldicenze, visto che ha certificato, seppure senza esiti processuali, lo status di discendente di Villella in capo alla signora Anna Rosaria Bevacqua, sostituita nel giudizio dal figlio Pietro Esposito, rappresentato dall’avvocata Letizia Di Valeriano del Foro di Tivoli. Ora nessuno potrà parlare di presunti discendenti.

La battaglia del Comitato “No Lombroso” si è impantanata a Catanzaro. La Corte d’Appello ha fermato, limitandosi ad applicare il diritto, una battaglia ideologica condotta sulla base di vari motivi (dalla presunta difesa dell’immagine del Sud, alla lotta antirazzista, passando per l’umanitarismo), che ora appaiono speciosi.

E, dopo la faticosa presa d’atto, iniziano le marce indietro. «Non vogliamo la chiusura del Museo, ma solo la sepoltura dei resti umani», ha dichiarato a Repubblica Domenico Iannantuoni, il presidente del Comitato “no Lombroso”. Evidentemente, lo Iannantuoni di oggi ha scordato quel che diceva lo Iannantuoni di cinque anni fa e quel che ancor oggi dicono molti dei suoi sostenitori.

Cosa resta di questa battaglia, in cui sono stati coinvolti, con un impegno degno di miglior causa, amministratori, politici, personaggi e enti di vario livello? Poco: giusto le spese legali, che la Corte d’appello ha dichiarato compensate e che, seppure in minima parte, graveranno sulle casse del Comune.

Ma resta soprattutto un monito: l’immagine del Sud non può essere riscattata da lotte immotivate come questa. Per fortuna, l’arsenale poco esplorato del meridionalismo ha risorse migliori e nessuna di queste ha a che fare con certe campagne d’odio, che una volta tanto hanno subito un salutare stop.

Saverio Paletta

Per saperne di più

La conclusione del processo davanti alla Corte d’Appello di Catanzaro

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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