Neoborbonici, all’Unical la riscossa degli storici
In un recente dibattito all’Università della Calabria gli storici prendono posizione sulla fake history lanciata nel dibattito pubblico dai “revisionisti” antirisorgimentali sulla scia dei libri di Pino Aprile
Sudismo, terronismo, borbonismo e neoborbonismo. Se n’è parlato all’Università della Calabria l’8 novembre, in un convegno intitolato Il borbonismo. Genesi, diffusione, discorsi e linguaggi.
In altre parole, si è parlato della produzione letteraria di Pino Aprile, Lorenzo Del Boca e vari autori minori che hanno adattato i motivi e le tecniche tipici del revisionismo più spinto ed improbabile al Risorgimento, presentato come una guerra di conquista con annesso genocidio delle popolazioni conquistate.
Detto con più chiarezza, di quella narrazione variegata, picaresca e sanguigna (anche nel senso del sanguinaccio) con cui alcuni ambienti politico-culturali hanno tentato di cavalcare il malcontento del Sud.
Una nuova questione meridionale, rilanciata con modi e canoni politically uncorrect? Proprio no. Soltanto trash. Che, come molto altro trash, ha goduto di una larga diffusione.
Per fortuna le teste d’uovo riunitesi all’Unical hanno evitato le disquisizioni socio-antropo-psicologiche (tipiche degli accademici quando vogliono scansare le polemiche) e hanno preso il problema di petto. Era ora, visto che le tesi terron-sudiste hanno iniziato a entrare nelle università del Sud, inclusa la stessa Università calabrese, grazie spesso alla malaccorta collaborazione di alcuni esponenti del mondo accademico.
Introdotti da Francesco Raniolo (docente di Scienza politica) e da Marco Rovinello (ricercatore di Storia contemporanea), che hanno fatto gli onori di casa, sono intervenuti Carmine Pinto e Gian Luca Fruci, docenti di Storia contemporanea, rispettivamente presso le università di Salerno e Bari.
I due storici, occorre ricordare, sono stati in prima fila nel dibattito esploso nell’estate 2017 sulla cosiddetta giornata della memoria dedicata alle vittime meridionali del Risorgimento, voluta dagli ambienti neoborbonici e incautamente proposta da un fronte articolato e trasversale di parlamentari e consiglieri regionali, in cui hanno spiccato i grillini per aggressività e incultura.
Fruci e Pinto si sono lanciati in un debunking degno del miglior David Puente per impatto ed efficacia ma di gran lunga più alto nei concetti e nel linguaggio.
Infatti, i due studiosi hanno aggredito in maniera efficace i temi portanti degli ambienti suddisti. In particolare, hanno letteralmente smantellato l’uso a dir poco disinvolto delle fonti operato dai sedicenti revisionisti.
Ma procediamo con ordine.
Carmine Pinto, autore del primo intervento, ha raccontato la genesi del cosiddetto patriottismo borbonico, ovvero la resistenza, politica (armata e non) e culturale, animata dalla ex casa regnante e dalla sua corte dall’esilio romano, sotto la protezione dello Stato Pontificio e con l’appoggio di vari potentati europei, nei riguardi del neonato Regno d’Italia.
Il periodo caldo di questa resistenza coincise con l’esplosione del brigantaggio in Campania, Basilicata e Puglia (dove alla violenza si accompagnò in effetti una politicizzazione velleitaria).
«Tutte le dinastie degli Stati preunitari», ha spiegato Pinto, «elaborarono una sorta di contropropaganda nei confronti dello Stato unitario, ma nel solo caso dei Borbone quest’attività prese la forma di una lotta politica organizzata, che per un determinato periodo, all’incirca fino al 1867, ebbe anche le caratteristiche di una resistenza armata». Quest’ultima, l’equiparazione del brigantaggio a una resistenza, è l’unica concessione del prof salernitano al gergo neoborbonico.
Ma il punto chiave dell’intervento di Pinto è stato un altro: la produzione ideologica della corte borbonica in esilio e dei suoi fiancheggiatori.
«Nel quindicennio successivo all’Unità, fu prodotta una mole enorme di pubblicazioni, di quasi seicento volumi, tra libri e opuscoli». Le firme più importanti di questa bulimia editoriale riemergono tuttora nell’album di famiglia neoborbonico e suddista: Giacinto de’ Sivo e Pietro Calà Ulloa.
I motivi chiave di questa letteratura, prodotta per scopi contingenti di lotta politica, sono quelli tipici delle culture dei vinti, di cui un esempio più recente è offerto dalla pubblicistica dei reduci di Salò: l’indipendenza di un regno, concepito come una sorta di Paradiso Perduto, la perdita di quest’indipendenza, dovuta all’invasione dei piemontesi, concepiti come nemici e saccheggiatori, e all’azione dei traditori, identificati a seconda dei casi nei fuoriusciti, nella nobiltà infedele e nei ceti medi emergenti.
La narrazione borbonica, che poggiava su motivazioni nostalgiche finì negli anni ’70 dell’Ottocento, quando i poteri che avevano appoggiato i Borbone in esilio (le alte gerarchie ecclesiastiche, le dinastie europee legate all’assolutismo e al legittimismo, ecc.) si dissolsero.
Ma c’è di più: «Questa narrazione», ha concluso Pinto, «ebbe un’efficacia piuttosto marginale, perché non fu in grado di dare un fondamento politico alle rivendicazioni del Mezzogiorno». Infatti, «a queste rivendicazioni diede una forma precisa il nazionalismo italiano, i cui esponenti elaborarono la Questione Meridionale, nel quadro delle nuove istituzioni».
Questa, in estrema sintesi, la genesi del borbonismo.
Gianluca Fruci ha ripreso il discorso dove Pinto lo ha lasciato. Il suo intervento, pieno di garbata ironia e intitolato Neverending Story del neoborbonismo (con palese omaggio alla bella fiaba moderna di Michael Ende) è dedicato alle cause e ai modi del travaso operato dai neoborbonici a partire dagli anni ’90 delle tesi politiche degli sconfitti del Risorgimento.
La prima causa è politica e Fruci l’ha identificata nel tracollo del vecchio sistema dei partiti, che avevano, ciascuno a modo suo, introiettato le tesi del Meridionalismo classico «che è declinato assieme ai soggetti politici che avevano contribuito a tenerlo in vita anche nel XX secolo».
In questo spazio si è fatto largo il neoborbonismo, anche sulla spinta di un’innegabile esigenza politica, motivata dal passaggio in secondo piano del Sud nell’agenda delle forze politiche che hanno preso il posto del vecchio sistema.
Fruci non è entrato nel merito di questa risposta (tra l’altro la fragilità di certe tesi è palese e non necessita di approfondimenti) ma ha analizzato i modi di questa bizzarra recezione e, va da sé, li ha smontati uno a uno.
Il primo punto della decostruzione del prof di Bari è relativo alla cosiddetta untold story, cioè all’affermazione per cui la vera storia del Risorgimento, inteso come una serie di soprusi e massacri sfociati nel genocidio dei meridionali, non è mai stata raccontata oppure è stata tenuta nascosta.
Fruci ha fatto letteralmente a pezzi questa tesi, che è un palese corollario della teoria del complotto, citando una mole impressionante di documenti, anche cinematografici e musicali: «Film e sceneggiati, come L’eredità della priora, la produzione musicale di artisti come gli Stormy Six o Eugenio Bennato, e il filone editoriale di successo dello scrittore lucano Carlo Alianello testimoniano che certe tesi sono sempre circolate e nessuno le ha mai censurate. Anzi, la Rai ne ha addirittura valorizzate alcune». Alianello, addirittura, fu il primo a usare la parola genocidio riguardo alla vicenda di Pontelandolfo. La prova della mancata censura sta anche nel fatto che «queste tesi sono ricomparse nelle mozioni con cui la ex ministra Nunzia Di Girolamo e vari esponenti, nazionali e locali, del Movimento 5 Stelle hanno chiesto l’istituzione del Giorno della memoria».
Dopodiché Fruci ha sciorinato le perle borbonizzanti che infarciscono queste mozioni, degne di un bestiario vecchia maniera: c’è chi considera Tomasi di Lampedusa (l’autore de Il Gattopardo) e il filosofo-giornalista Marcello Veneziani degli storici. E, peggio ancora, c’è chi cita Pino Aprile come autorevole fonte culturale (il senatore grillino Sergio Puglia).
Il secondo punto su cui Fruci si è soffermato è quello del linguaggio: «Nel riprendere i temi tipici della narrazione antirisorgimentale, i neoborbonici si sono serviti di suggestioni modernissime, come il genocidio e la Shoah. In pratica, hanno operato una novecentizzazione della storia dell’Ottocento». Un metodo evidente soprattutto in Terroni di Pino Aprile, in cui la strage Pontelandolfo è equiparata a quella di Marzabotto e i bersaglieri sembrano i precursori delle SS.
«Discorsi vecchi per progetti nuovi», ha chiosato lo studioso. Progetti che con la cultura, forse, hanno davvero poco a che fare, aggiungiamo noi.
Il sottinteso di questa Neverending Story ha dei risvolti satirici involontari: è la critica a personaggi improvvisati che finiscono nel trash quasi inconsapevolmente. Per dirla con una metafora, sono persone che, incapaci di allestire i musei, si sono improvvisate antiquari ma restano, nei casi migliori, rigattieri.
Nel contesto del dibattito dell’Unical, è sembrato quasi un fuor d’opera l’intervento di Giuseppe Gangemi, ordinario di Scienza politica presso l’Università di Padova.
I cognomi sono raramente delle coincidenze nell’editoria e nel mondo della cultura. Infatti, Gangemi, che vanta origini calabresi e le mantiene nella sua ostinata inflessione, è il fratello maggiore dello scrittore Mimmo, che ha raggiunto il successo trasformando in cifra letteraria la calabresità postmoderna. In altre parole, romanzando la ’ndrangheta e la vita nel profondo Sud. C’è da dire che i fratelli Gangemi sono più che vicini agli ambienti terronisti e, in particolare a Pino Aprile.
Giusepppe, in particolare, è tenuto in considerazione più che particolare da Aprile e dai siti web neoborbonici, quasi fosse una sorta di Gianfranco Miglio, ma in sessantaquattresimo e di nuavutri.
Mimmo, invece, fiancheggia (o ha fiancheggiato) gli stessi ambienti in maniera più sfumata, dato che il suo appeasement più visibile col terronismo è la partecipazione ad Attenti al Sud il libro collettivo scritto assieme ad Aprile, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro ed edito nel 2017 dalla solita Piemme.
Questa premessa serve per capire i toni, decisamente più ideologici che scientifici, dell’intervento del prof di Padova, che ha partecipato al dibattito in videoconferenza.
Infatti, Giuseppe Gangemi ha inanellato una serie di perle e, tra una perla e l’altra, ha ripetuto i mantra suddisti.
Prima perla, primo mantra: «Ho potuto apprezzare il lavoro di molti ricercatori volontari sui domicili coatti applicati ai meridionali che, assunsero le forme di una deportazione». Inutile dire che, secondo il prof, questi domicili non sarebbero mai stati studiati o approfonditi a dovere. Sarebbe il caso di ricordare che i domicili coatti, che oggi sopravvivono come misure cautelari (divieto ed obbligo di soggiorno) sono stati largamente praticati fino agli anni ’80. Non è il caso di scendere nei dettagli, tra cui si cita la polemica dei mafiologi, secondo cui questa pratica avrebbe contribuito ad esportare le mafie. Ci si limita a ricordare solo che questi argomenti sono trattati nella Storia criminale, che ha prodotto una forte letteratura. Ci si augura che Gangemi l’abbia compulsata prima di esternare. Altrimenti, detta così, sembra la ripetizione pedissequa di quelle parti di Carnefici (Piemme 2016) in cui Aprile riciccia l’argomento.
Seconda perla, secondo mantra: Lombroso e il lombrosismo. Gangemi, in questo caso, si è limitato a ripetere i luoghi comuni dei neoborbonici, in particolare di quelli legati al cosiddetto Comitato tecnico-scientifico “no Lombroso”, secondo cui il celebre scienziato veronese sarebbe l’antesignano del pregiudizio antimeridionale. Non pago, il Nostro è andato oltre e ha tracciato collegamenti improbabili sulla lettura del fenomeno mafioso tra Lombroso e Gaetano Mosca.
Non sarebbe, al riguardo, il caso di ricordare che Lombroso e Mosca, politicamente agli antipodi (Lombroso era socialista, Mosca era conservatore) appartenevano al positivismo e i tratti comuni erano metodologici? Inoltre, a proposito di lettura del fenomeno mafioso, vale la pena di ricordare che la concezione moschiana è simile a quella del giurista Santi Romano, a cui non risultano addebitabili forme di pregiudizio antimeridionale…
In tutto questo, Gangemi ha scordato di menzionare il ruolo pesante del siciliano Alfredo Niceforo (a proposito di lombrosismo…) nella genesi del pregiudizio antimeridionale. Ma tant’è: Gangemi è sembrato più intenzionato a difendere il discorso neborbonico che a discutere a livello scientifico. Ad ogni buon conto, l’Herr Professor ha annunciato la prossima pubblicazione di un libro per un piccolo editore in cui dovrebbe approfondire queste chicche. Non resta che aspettarlo al varco, visto che le parole volano e il web evapora ma i libri restano.
Val la pena di concludere con una citazione di Fruci, dedicata «ai tanti giovani storici che, a dispetto della precarietà economica e lavorativa in cui sono costretti a operare, sono impegnati in ricerche importanti, che promettono grandi risultati». Già: il futuro della cultura sono loro e non scrittori dal successo sproporzionato ai meriti.
E, a proposito dei neoborbonici, non si può proprio dar torto ad Antonio Polito che recentemente ha dichiarato di preferire i neomelodici: anch’essi sono trash e producono musica da bancarella o da McDonald’s. Ma loro non intossicano nessuno. Al contrario di chi usa argomenti avariati e li cucina male.
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Gentile Sig. Paletta sarebbe opportuno ricordare ai lettori e commentatori, che nel Regno d’Italia dal 1861 era possibile pubblicare, in piena libertà di stampa, commenti già allora critici verso l’Unità d’Italia. Altrettanto non si può dire negli stati preunitari. I signori che scrivono certi commenti, se possono farlo, lo devono a chi si è battuto per certi valori in passato (dal Risorgimento, alla Resistenza, agli Anni di Piombo). Certi combattenti oggi non li vedo, tranne che nelle critiche scritte su internet. Un cordiale saluto
Quest’articolo ripete il mantra infinito delle tesi risorgimentaliste. Ti consiglio vivamente di leggere un po’ di letteratura internazionale sulla storia del sud e sulla sua subordinazione al nord.
Egregio Ferraro,
abbiamo già compulsato molta letteratura, italiana e internazionale. A me pare che il mantra lo recitino più i revisionisti.
Faremo comunque tesoro dei Suoi consigli: non sia mai che non ci sia qualche epigono di Aprile e De Crescenzo (meglio mi sento: di Ciano) anche all’estero.
Non ci perdoneremmo di essercelo fatto scappare!
Grazie per l’attenzione,
Saverio Paletta
Gentile Saverio Paletta,
visto che non ha idea della letteratura a cui mi riferivo le menziono (un po’ alla rinfusa, è veo, ma sufficente per iniziare a studiare) , qualche testo sul sud, sulla colonizzazione del sud, sulla demoninazzione del sud.
John Dickie, ‘The South as other: From liberal Italy to the Lega Nord’, The Italianist, 14 (1994), pp. 124–40
G. Gribaudi, ‘Images of the South: The Mezzogiorno as seen by Insiders and Outsiders’, in R. Lumley and J. Morris (eds), The New History of the Italian South: The Mezzogiorno Revisited, Exeter, University of Exeter Press, pp. 83–113.
D. Mack Smith, Documentary Falsification and Italian Biography in T. C. W. Blanning and D. Cannadine (eds.), History and Biography: Essays in Honour of Derek Beales, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 173-187.
John A. Davis, Naples and Napoleon: Southern Italy and the European Revolutions, …
N. J. Moe, The View from Vesuvius: Italian Culture and the Southern Question, Berkeley, University of California Press, 2002,
J. Dickie, Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, 1860–1900, New York, St. Martin’s Press, 2009, pp. 25 and 37.
W. Maeierhofer, “Maria Carolina, Queen of Naples: The ‘Devil’s Grandmother’ Fights Napoleon”, in W. Maierhofer, G. M. Rösch, C. Bland (eds), Women Against Napoleon, Frankfurt, Campus Verlag, 2007, pp. 57-78
M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione: Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998,
M. Messina, “The demonization of the South and the South-ernification of evil in contemporary Italian cinema: Belluscone and Qualunquemente”, Journal of Italian Cinema & Media Studies, 6, pp. 193–207
Cordiale saluti
GF
Egregio Ferraro,
conosco gli autori da Lei menzionati, sebbene non le loro opere in inglese citate e che sono sicuro ha letto approfonditamente.
Sono tutti autori senz’altro critici nei confronti del Risorgimento. E questa non è quella gran notizia: la missione degli storici è elaborare una conoscenza critica degli eventi. Di tutti.
Ma da questo a contestare un evento in sé ne corre. Le faccio un esempio banale: nessuno degli autori più critici della Rivoluzione francese è mai arrivato a metterne in discussione il valore e i lasciti, tranne gli ultraconservatori o i reazionari alla Pierre Gaxotte.
Col Risorgimento, questo non accade. E si arriva al paradosso, raccontato in maniera più o meno autorevole, di imputare i mali del Sud al processo di unificazione.
Per quel che mi riguarda, io sposo in pieno la lettura incrociate di Salvatore Lupo e Paolo Macry (i quali tengono conto anche della letteratura da Lei citata): secondo entrambi il Sud ha tratto comunque giovamento dall’Unità, perché ha avuto una crescita forte, sebbene “a traino” ed è riuscito a entrare in contatto con la modernità, in misura superiore di quel che gli sarebbe stato possibile se fosse rimasto “indipendente”.
C’è quindi un salto logico tra la critica al Risorgimento (poteva esser fatto meglio, come quello tedesco, per fare un esempio, oppure essere accompagnato da riforme più incisive) e la negazione del suo valore civile.
Da calabrese orgoglioso ringrazio i “padri della Patria”: grazie a loro il Sud è diventato comunque una parte significativa, sebbene problematica, di una nazione importante e si è agganciato all’Europa. Credo che il piccolo regno borbonico non avrebbe avuto le stesse performance e le stesse opportunità, a meno che non vogliamo berci la fiaba della superpotenza devastata dai “piemontesi cattivi” e dell'”Eden mediterraneo” spogliato dalla Massoneria internazionale.
Detto questo e per concludere: nel convegno di cui qui si è riportata una semplice cronaca, nessuno ha tirato fuori tesi “sabaudiste” o elogi più o meno acritici del Risorgimento. Semmai tutti hanno invocato la necessità della cosiddetta “buona storia”.
E’ tale la storia che prende atto delle critiche e le metabolizza nella produzione della conoscenza. Non lo è quella che usa le critiche per fini ideologici, politici o editorial-commerciali.
Ricambio con altrettanta cordialità
Saverio Paletta
Egregio dott. Saverio Paletta,
le comunico che il mio libro annunciato all’Unical l’8 novembre nel mio intervento via Skype (dato che ero stato investito pochi giorni prima e avevo la gamba ingessata) è uscito da tempo.
Se si impegna a leggerlo e recensirlo ne L’indygesto (naturalmente è gradita anche una recensione negativa) e se mi invia un indirizzo postale, gliene invierò una copia.
La ringrazio per le sue critiche e le invio i miei più cordiali saluti.
Giuseppe Gangemi
Egregio Professore,
grazie per l’attenzione. Le ho appena inviato una e mail.
Ricambio i saluti e buona domenica
Saverio Paletta
I vincitori hanno sempre ragione
Chiedo scusa: vincitori di cosa? Nel caso dei Borbone e del loro entourage, i vinti hanno invece parlato a lungo con una pubblicistica imponente. Dopo 160 anni vogliamo continuare con questi ragionamenti? Il Sud dovrebbe fare seriamente i conti in tasca alla propria classe dirigente, anziché girare la testa indietro nel calendario…