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Il centrosinistra ha perso. Renzi ha perso e basta scuse

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Anche il voto amministrativo ha un forte significato politico

Il centrodestra, nonostante i risultati, non è ancora una coalizione

I cittadini disertano le urne: segno che se ne fregano anche dei sindaci

«Le Politiche sono un’altra cosa», ha commentato a caldo Renzi sulla sua pagina Facebook. E in parte ha ragione: lì, anche grazie ai sistemi elettorali, quello con cui si è votato e quello con cui (non appena il Parlamento deciderà) si andrà a votare, non si perde mai. Lì c’è sempre una risposta pronta, come è accaduto, ad esempio, per il referendum, quando Renzi rivendicò il merito della “rimonta”, per minimizzare il dato reale, cioè il fatto che la grande maggioranza degli italiani aveva avversato la “sue” riforme, per imporsi a chi nel Pd voleva fargli le scarpe.

Qui, nel caso delle Amministrative, tutto questo non è possibile. Anzi, è meglio non insistere troppo, perché altrimenti si finisce per avere torto due volte, com’è capitato al segretario del Pd.

Infatti, Renzi ha torto perché il voto delle Amministrative, quando riguarda comuni al di sopra dei 15mila abitanti (o dei 10mila, nel caso di territori, come la Calabria, che hanno popolazioni piuttosto rarefatte), ha un significato politico, non fosse altro perché i partiti ci mettono comunque lo zampino, anche quando si circondano di liste civiche, dove puntualmente finiscono loro uomini, o, soprattutto, quando camuffano i simboli.

Renzi, inoltre, ha torto perché il voto delle Amministrative ha sancito la sconfitta del Pd. O meglio: la sconfitta dell’oligarchia che governa il Pd e di cui lui è il mandatario.

E non ci si riferisce solo ai casi eclatanti di Genova (dove la retorica di commentatori ha paragonato Bucci a Guazzaloca), La Spezia, Pistoia, Alessandria e Sesto San Giovanni, dove il rosso stinto da tempo è stato sostituito da un azzurro neanche troppo smagliante.

Certo, in molti casi, può avere contribuito la protezione “dall’alto” dei presidenti di Regione: per dirne una, in Liguria Toti ce l’ha messa tutta per rimettere in circolo il centrodestra tradizionale, a dispetto dei dubbi di Berlusconi e della minore assimilabilità della Lega di Salvini. Ma nel caso di Catanzaro non ci sono scuse, perché è il capoluogo di una Regione governata dal centrosinistra, dove il Pd ha messo in campo uno dei suoi notabili. Lì, a sentire le lamentele di Ciconte, letteralmente tritato dal sindaco uscente Abramo al secondo turno, la coalizione sarebbe frenata per manifeste infedeltà politiche.

Serve altro?

Sì: occorre tener conto del crollo generalizzato delle affluenze, da cui finora le Amministrative sembravano sostanzialmente immuni. Al riguardo, val la pena di fare una riflessione banale: passi che i cittadini preferiscano andare al mare anziché votare un parlamentare espresso da una segreteria; ma quando non appassiona più scegliersi il sindaco c’è qualcosa che non va. Forse è il segno che la deriva oligarchica ha toccato anche il livello locale della politica.

Ma questo è solo l’aspetto più appariscente del problema. A costo di irritare qualcuno, si può ammettere che l’involuzione dei sistemi democratici è inevitabile nelle fasi di trasformazione politica. Ci sta che, quando il mondo cambia, la politica serri le file e tenti di preservarsi, appunto, con manovre oligarchiche. Però questo ragionamento reggerebbe e potrebbe risultare meno indigesto se queste oligarchie fossero costituite da élite. Il che non è. E non lo è stato neppure in queste Amministrative dove un numero decrescente di cittadini ha votato tanti signori nessuno.

E nessuno si meravigli, allora, che il quadro è desolante: a un centrosinistra in arretramento si contrappone un centrodestra che ancora non è coalizione perché non ha maturato una visione unitaria. In tutto questo i grillini sono non pervenuti, perché hanno dimostrato anche a Genova di non essere alternativi a nessuno (il popolo, se questa parola ha ancora un significato, sta nelle piazze, non nel web).

Il disastro è totale, ma per il centrosinistra lo è di più perché, ancora una volta è mancato il senso di responsabilità nei vertici.

In molti hanno fatto il paragone tra il Renzi del 2017 e il D’Alema che si dimise nel 2000 quando le Regionali andarono malissimo. Il paragone non è sbagliato. E non perché è a sfavore di Renzi. Ma perché fa capire che allora si faceva ancora politica e che questa politica aveva delle regole, scritte e non, di cui i leader dovevano prendere atto. E ora? Si potrebbe parafrasare benissimo il commento di Renzi: «La politica è un’altra cosa».

Saverio Paletta

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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