Prove di cambiamento: Chi c’ha provato e chi c’è riuscito
A rileggere la storia politica dell’ultimo trentennio, balza agli occhi una cosa: chiunque abbia governato, ha sempre messo in agenda una o più proposte di riforma della Costituzione. Già: la Carta non era più considerata Sacra e Intoccabile e l’idea di mettervi mano ha fatto da sottofondo a tutte le legislature della Seconda Repubblica, tranne, forse, a quella del secondo governo Prodi, retto da una maggioranza così sfilacciata che gli rendeva impossibile ritoccare alcunché. Infatti, il Prodi-bis crollò a inizio 2008, appena in tempo per partorire il Pd e abortire quasi tutto il resto della sinistra, a partire da Rifondazione comunista e Verdi, cancellati dagli sbarramenti del Porcellum. La storia è lunghetta e sintetizzarla impossibile. Ci si accontenti di qualche cenno
Premessa
Riformare una Costituzione non è roba da niente: a differenza che per le altre leggi, in questo caso servono gli esperti. E qui è sorto il primo problema con cui hanno avuto a che fare tutti i riformatori. I costituzionalisti, infatti, sono una tribù come tutte le altre. Più colta, ma sempre tribù, con i propri totem e i propri tabù. Elenchiamone qualcuno: socialdemocrazia, parlamentarismo, ipergarantismo istituzionale. Basta scorrere la manualistica “classica”, in cui si andava dai toni socialisti di Temistocle Martines al marxismo esplicito di Giuseppe Ugo Rescigno, con la sola lieve eccezione di Paolo Biscaretti di Ruffia, leggermente più liberal nell’impostazione. Insomma, per tutti o quasi la Costituzione-nata-dalla_Resistenza non si toccava.
Più facile il discorso con un due altre categorie: gli amministrativisti e i politologi. I primi, per deformazione professionale, hanno sempre manifestato la tendenza, a prescindere dalla propria cultura politica, a interpretare il diritto pubblico in termini pratici, di efficienza e risultati. Così, ad esempio, Massimo Severo Giannini, che nella fase terminale della Prima Repubblica, lanciò un movimento a favore di una riforma comunque più decisionista del sistema italiano.
Ancora più facile, il discorso, in quel campo vasto, complesso e non troppo definito che è la politologia. In questo settore gli “esecutivisti” si sono contati a frotte. Tra i più celebri, di sicuro Gianfranco Miglio, lo studioso di politica più acuto e meno politicamente corretto della storia repubblicana, e il monarchico Domenico Fisichella. In questo settore, stimolato più dalla tradizione del realismo politico italiano (il trio Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Robert Michels) e dal pensiero tedesco, le voci fuori dal coro non erano pochissime. E avrebbero parlato negli anni ’80.
Antefatto
L’ascesa a Palazzo Chigi di Bettino Craxi comportò una rottura nei tradizionali assetti del centrosinistra, che nel ventennio precedente aveva incarnato lo Spirito della Costituzione con il fiancheggiamento esterno del Pci.
Con Craxi si iniziò a parlare di due cose: riforme e presidenzialismo. Non a caso, nello staff di “saggi” con cui il segretario del Psi era abituato a consultarsi figuravano proprio Giannini e Miglio, deluso dalla Dc e non ancora approdato all’iperfederalismo della Lega prima maniera. Nel centrosinistra rivisto e scorretto di Craxi per la prima volta nella storia repubblicana l’area laica ottiene una propria supremazia e si scatena in proposte di riforma presidenzialista o, comunque, tese a ridimensionare il Parlamento. Eresie politiche, dovute allo stile “muscoloso”, decisionista e autoritario della politica craxiana? Mica tanto: il sistema aveva di fatto smesso di funzionare a metà anni ’70, quando gli unici a propugnare il presidenzialismo erano i missini e i repubblicani. Non è un caso che l’era Craxi sia stata aperta e chiusa da due Commissioni parlamentari bicamerali. La prima fu quella guidata da Aldo Brozzi, magistrato, ex presidente del Consiglio di Stato e deputato del Pli. Le proposte di revisione di questa prima Bicamerale erano tutto sommato platoniche, rispetto agli interventi radicali proposti dal duo Boschi-Renzi e chi per loro: riduzione del numero dei parlamentari e rapporto di fiducia “ritualizzato” davanti al Parlamento in seduta comune. L’unica assonanza è nel procedimento legislativo, che secondo la Commissione Brozzi doveva avere tempi certi e rapidi. Non se ne fece niente.
Quando fu istituita la seconda Bicamerale, la Prima Repubblica era in agonia: guidata dal big democristiano Ciriaco De Mita e dalla comunista Nilde Iotti (una delle figure più belle della storia repubblicana: val la pena ricordarla soprattutto ora che i riformatori si ostinano a imporre quote rosa che difficilmente saranno occupate da donne di analoga qualità politica), la Commissione licenziò un disegno di legge che recepiva di fatto alcune istanze craxiane: in particolare il “cancellierato”, preso di peso dalla Costituzione di Bonn. Non era presidenzialismo, ma quasi. Nel frattempo, però, proprio il principale attore del fronte riformista era sparito: battuto al referendum del ’93 per la riforma del sistema elettorale proporzionale e poi travolto da Tangentopoli, Craxi si era rifugiato ad Hammamet, in esilio volontario. E intanto, sotto la guida di due governi tecnici, Amato prima e Ciampi dopo, il parlamento aveva varato l’unica riforma: il Mattarellum, la nuova legge elettorale, orientata in senso maggioritario che avrebbe condizionato, nel bene e nel male, la vita politica italiana per i successivi 11 anni. Le sue norme obbligavano le forze politiche in campo a coalizzarsi e a indicare il leader, che non sarebbe stato più Presidente del Consiglio se non solo di nome, ma Premier di fatto. Tra l’opzione americana e quella tedesca vinceva lo stile britannico.
Aborti nella Seconda Repubblica
La riforma elettorale ha funzionato più male che bene fino al 2005. Da un lato, il pregio di mettere un po’ d’ordine questo sistema l’aveva. Dall’altro lato, il difetto era innegabile: il Mattarellum creava coalizioni mostruose, paragonabili ai classici colossi (i blocchi maggiori e medi: Fi, An e Lega da un lato, Pds e Margherita dall’altro) dai piedi d’argilla (le fasce estreme e centriste, costituite da partiti medio-piccoli, come i neodemocristiani Ccd e Cdu, i neosocialisti di Nuovo Psi e Sdi e i neocomunisti di Rifondazione e Ci più quel capolavoro di postpolitica che è stato l’Udeur).
Nato malfermo, il sistema ha iniziato a tentennare da subito. E la riforma costituzionale è tornata alla ribalta.
Escludiamo dalla conta il primo governo Berlusconi, che fu un’effimera stagione di fantasia al potere degli esclusi (Msi-An, Lega più spezzoni vari di società civile) e dei cacciati (ex Dc ed ex Psi) dal potere. Una delle poche cose che ne sortì fu l’ipotesi, ora attualissima, di governo costituente che i costituzionalisti dell’epoca, ancora conservatori, presero a ridere.
Perché si parlasse di riforme ci sarebbe voluto il collasso del primo governo Prodi e la contemporanea istituzione della Bicamerale (la terza) proposta da Massimo D’Alema, pronto a prendere il posto di Prodi alla guida del pasticciato centrosinistra che governava all’epoca. Istituita con legge costituzionale e dotata di poteri superiori alle altre due Commissioni che l’avevano preceduta, la Bicamerale del ’97 si ispirava, erre moscia inclusa, al semipresidenzialismo francese. Naufragò dopo una vita breve e travagliata da condizionamenti di tutti i tipi, soprattutto leghisti, e dopo che Berlusconi staccò la spina.
Una riforma arrivò nel 2001 e riguardò solo il Titolo V, attualmente in vigore, della Costituzione: le Regioni furono potenziate per accontentare i leghisti, incamerarono poteri importanti, soprattutto nella Sanità, e il nostro sistema divenne ambiguo perché, pur restando “unitario”, acquisì pezzi di federalismo. Dipende da quella riforma, che fu confermata da un referendum, se oggi la Sicilia ha più poteri della Baviera e la piccola Valle d’Aosta può fare di più contro lo Stato italiano di quanto l’Orinoco possa fare in Brasile, che pure è uno Stato federale.
L’ultimo tentativo di rilievo fu tentato da Berlusconi col referendum del 2006 e fu l’atto finale della seconda stagione di governo, la più lunga della storia repubblicana, del centrodestra. La riforma prevedeva una specie di premierato con i poteri del Presidente del Consiglio rafforzati, la fine del bicameralismo perfetto e la riduzione dei parlamentari di Camera e Senato. Fu bocciata dai cittadini alle urne. Ma intanto era passata la seconda riforma significativa: il Porcellum, che modificava il sistema elettorale che diventava proporzionale per liste bloccate con varie soglie di sbarramento più premio di maggioranza. L’ideale per mettere ordine ma non per zittire le polemiche, tra l’altro motivate
Postberlusconismo
Col collasso della Seconda Repubblica, è tornato alla ribalta il problema delle riforme. Il primo tentativo è stato effettuato nell’agosto del 2013, piuttosto alla chetichella: si tentò di demolire l’articolo 138 che rende piuttosto difficile il tentativo di riforma costituzionale. Su questo punto, costretto anche dalle tante polemiche che esplosero, fece marcia indietro il premier Enrico Letta. I tempi stringevano, tanto più che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il Porcellum, su cui fino a quel momento si erano retti quattro governi: il secondo governo Prodi, il terzo Berlusconi e il governo Monti. Di più: anche l’ex comunista Giorgio Napolitano era stato confermato Presidente della Repubblica grazie al voto del Parlamento eletto col Porcellum. Da grave che era, la crisi istituzionale diventava cronica.
Con l’ascesa irregolarissima di Renzi a Palazzo Chigi si riapriva la questione delle riforme. Il resto è cronaca che si concluderà col referendum del 4 dicembre.
Tra i primi conati degli anni ’80 e oggi è cambiata, di sicuro in peggio, la qualità della classe politica. Ma questa scamperà comunque, come una malerba diventata tossica e invasiva, a prescindere dal risultato del referendum.
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