Primati neoborb, altre cinque fake di terra e mare
Non è vero che nel Sud ci fossero più studenti universitari del resto d’Italia, che i suoi telegrafi fossero i migliori e le sue flotte le più importanti. Un altro tuffo nel debunking…
Lo ripetiamo per l’ennesima volta: il nostro non è un gioco sadico nei confronti del professor Gennaro De Crescenzo, il paffuto presidente del Movimento Neoborbonico.
Anzi, quasi quasi ci dispiace di smantellare a rate la lunga lista di primati attribuita (da lui, dai suoi seguaci e da chi gli crede) al Regno borbonico e pubblicata nel sito del Movimento e riproposta, con alcune modifiche, ne Il libro dei primati del Regno delle Due Sicilie dal 1734 al 1860 (Grimaldi & C., Napoli 2019), scritto dallo stesso De Crescenzo.
Tuttavia, c’è qualcosa che è superiore all’orgoglio partenopeo d’o Professore e alle nostre remore: il dovere, anche professionale, di fornire un’informazione corretta e (quindi) di smantellare le fake laddove le troviamo.
Per questo, ci permettiamo di sottoporre ai lettori un’altra infornata di cinque presunti primati con le relative (e concretissime) confutazioni.
Iniziamo con un argomento caro ’o Professore: la cultura.
1860 più alto numero in assoluto e in percentuale di iscritti all’università in Italia (Napoli, 10.528).
Certo, 10.528 (diecimilacinquecentoventotto!) studenti non erano pochini nella società dell’epoca, flagellata dall’analfabetismo. Anzi. Ma questo numero si spiega sulla base di un dato: il Regno delle Due Sicilie era lo Stato preunitario più esteso e popoloso, quindi su 9 milioni e rotti di abitanti (censimento del 1856) ci saranno stati senz’altro diecimila e rotti studenti di passabile alfabetizzazione in grado di frequentare l’università. O no?
Aggiungiamo altro: questo numero è indice pure del fatto che sia i ceti alti sia la debolissima borghesia meridionale vedevano nell’istruzione superiore un titolo di legittimazione e un ascensore sociale.
Tuttavia, questo dato, senz’altro incoraggiante come sintomo di vitalità intellettuale, non costituisce un primato.
Infatti, si apprende dal censimento del 1861 che la percentuale di studenti universitari in rapporto alla popolazione era così ripartita: 0,3% al Nord, 0,1% al Sud.
Quindi, i polentoni triplavano letteralmente i numeri terronici. Ma c’è di più: il totosecchioni tra Nord e Sud cambia subito dopo l’unificazione. E non perché i piemontesi si fossero messi a chiudere le scuole a tutta forza ma perché le valutazioni statistiche furono fatte per macroaree. Ora, è vero che l’ex Regno borbonico fosse lo Stato italiano più popoloso. Ma, ad Italia unita, gli ex Stati del Nord sommati avevano più abitanti. Quindi gli zerovirgola indicati sopra non hanno solo un peso relativo ma ne acquistano anche uno assoluto.
Una ricerca statistica più seria dimostrerebbe invece come il numero degli studenti universitari meridionali sia cresciuto in maniera enorme dall’unità in avanti, molto più rispetto ai loro omologhi settentrionali e abbia almeno centuplicato quel misero 0,1%. Un valore assoluto di tutto rispetto, che fa capire come i terroni considerino la cultura un fattore sociale nobilitante. E la rispettino. Forse per ’o Professore questo dato dice poco. Ma resta, almeno per noi, il vero motivo di orgoglio. Anche se non è un primato.
La linea telegrafica più estesa d’Italia.
Per l’epoca, cioè la seconda metà del XIX secolo, era il massimo dell’hi-tech. E questo dato piace assai a don Gennarino, che a furia di revisionare la storia e di rivendicare primati è diventato una star social.
Tuttavia, ci spiace deluderlo, essere più grossi non vuol dire essere più grandi. Di sicuro il Regno delle Due Sicilie aveva più linee telegrafiche rispetto agli altri Stati preunitari perché era il più esteso.
Ma questo dato si diluisce non poco al momento dell’Unità: i 3.974 chilometri di linee dell’ex reame borbonico risultavano meno della metà degli 8.223 del neonato Regno d’Italia. E le cose peggiorano se si scende nel dettaglio e si passa dalla lunghezza delle linee a quella dei fili o ci si concentra sul numero degli uffici postali.
Anzi, a spulciare bene lo studio recente di Cosmo Colavito, Telegrafi e telegrafisti del Risorgimento (Aracne, Roma 2014), si apprende che la rete telegrafica borbonica era arretrata rispetto alla tecnologia dell’epoca e disomogenea. Non proprio il massimo dell’efficienza.
Un consiglio a don Gennarino: si accontenti del contesto attuale, nel quale il Sud risulta più cablato in fibra del Nord e dove la Calabria ha il primato, stavolta vero, di Regione più cablata. In questo modo, per lui è più facile esternare revisioni e primati. Col telegrafo gli sarebbe riuscito meno bene.
Gli altri tre primati riguardano il mare, l’amore dei napoletani veraci. E non a caso il mitico Pino Daniele cantava Chi tene ’o mare.
Però il grande cantautore aggiungeva in una strofa: «Chi tene o mare ’o ssaje/nun tene niente».
E ciò vale anche per i presunti primati marittimi.
Prima bandiera italiana e seconda nel mondo (dopo quella inglese) per presenze nei porti francesi.
La smentita arriva dal professor Augusto Marinelli, che ha citato in un suo articolo il Dictionnaire universel du commerce del 1861, il quale riporta, alle pagine 557 e 558, i dati del commercio marittimo francese nel 1858.
Da questi dati si apprende che per il numero di navi entrate nei porti francesi il primato spetta al Regno di Sardegna, che si piazza subito dopo la stessa Francia. Il Regno delle Due Sicilie è piuttosto indietro in questa classifica e si piazza dopo Spagna e Turchia.
Discorso simile per il numero di navi uscite dai porti francesi: ancora una volta il primato (per il poco che serve…) è savoiardo.
Prima flotta militare italiana.
A livello quantitativo il dato c’è. Ma anche in questo caso più grosso non vuol dire più grande. Logico che lo Stato preunitario più esteso e più esposto al mare avesse bisogno della flotta militare più consistente per elementari ragioni di sicurezza.
Ma una cosa è il numero, un’altra e ben diversa l’efficienza, su cui i sardi davano qualche punto ai duosiciliani.
Lo dimostra innanzitutto, la minaccia dei pirati barbareschi, che agivano sotto la protezione del bey di Tripoli.
Quanto fossero pericolosi questi corsari lo si capisce dal fatto che re Ferdinando I doveva farsi scortare dalla flotta militare in assetto di guerra persino per andare a caccia a Ischia. Di più: la potentissima flotta non scese in combattimento nel 1799 e la fuga di Ferdinando e della regina Carolina fu protetta dalla flotta britannica, costretta a far da supplente a quella reale.
Le cose non andarono meglio con la Restaurazione: per evitare le incursioni barbaresche re Ferdinando siglò nel 1816 un trattato col bey di Tunisi per cui quest’ultimo accordava la sua protezione al Regno delle Due Sicilia dai suoi stessi pirati in cambio del non leggerissimo pizzo di 40mila ducati.
Al contrario, i savoiardi non si fecero volare troppo la mosca al naso: nel 1825, dopo aver subito alcuni tentativi d’incursione ai danni del proprio naviglio, inviarono a Tripoli una spedizione navale guidata da Giorgio Giovanni Mameli (per capirci, il papà di Goffredo, l’autore dell’Inno nazionale). La flotta sabauda distrusse quella barbaresca con estrema facilità.
Re Francesco I tentò di imitare i piemontesi nel 1828, tanto più che, dopo la morte di re Ferdinando, aveva ereditato un grosso problema: il bey considerava scaduto il vecchio accordo e pretendeva addirittura 100mila ducati per riprendere a proteggere da sé stesso il Regno delle Due Sicilie.
Purtroppo la flotta borbonica fece una figuraccia: si presentò a Tripoli con le polveri inefficienti, perché vecchie (risalivano al 1809) e bagnate. Le artiglierie delle navi duosiciliane risultarono quindi inefficienti contro le vecchie galee tripoline e, dopo alcuni giorni di combattimento, i napoletani dovettero tornare a casa senza risultati.
Harold Acton, che raccontò l’episodio nel suo classico Gli ultimi Borboni di Napoli, fu tutt’altro che lusinghiero nei confronti della dinastia delle Due Sicilie.
Ma cosa fecero i Borbone? Le solite cose che devono fare i re: la commissione d’inchiesta e poi il processo a carico degli ammiragli.
Come da tradizione meridionale, il processo non approdò a nulla e gli imputati furono assolti. Anzi, uno di essi, Sozi Carafa, venne addirittura promosso: diventò governatore del Regio Arsenale sotto Ferdinando II.
Inutile dire che, dopo la sconfitta napoletana, il bey rialzò la posta nelle trattative di pace di cui, secondo Acton, non erano noti i termini. Ma tutto lascia pensare che non fossero proprio favorevoli ai Borbone…
Prima flotta mercantile in Italia.
Ancora una volta, più grosso non significa più grande: il primato c’è solo nel paragone tra gli Stati preunitari. Ma evapora nel confronto tra Nord e Sud intesi come macroaree laddove il Sud coincide comunque con l’ex Regno borbonico.
Al riguardo, parlano i dati riportati da Mario Di Gianfrancesco nel suo La rivoluzione dei trasporti in Italia nell’età risorgimentale (L’Aquila 1979): nel 1860 la marina mercantile borbonica arrivava a 260mila tonnellate mentre, l’anno successivo, quella del neonato Regno d’Italia contava 607mila tonnellate e ancora mancavano alla conta quelle del Veneto (46mila tonnellate) quella papalina e quella di Trieste. In pratica, solo un terzo delle navi italiane batteva (o aveva battuto) la bandiera duosiciliana.
A livello tecnologico la situazione non migliorava granché: le navi a vapore delle Due Sicilie erano pochissime e le dimensioni delle imbarcazioni erano decisamente più piccole rispetto a quelle del Nord.
A questo punto, alla prossima…
57,043 total views, 2 views today
Venduto a un sistema che non si regge più in piedi. Anche noi del sud abbiamo bisogno di sentirci padroni del nostro destino e liberi cittadini di un paese volto a soddisfare i bisogli primari di tutti. Non possiamo più sentirci colpevoli dei delitti che ALTRI hanno commesso. La nostra situazione economica e culturale non è frutto della svogliatezza dei meridionali, ma di ben precise scelte poliche. Saremo un paese unito quando lo stato favorirà concretamente lo sviluppo del sud. Saremo un paese unito quando si dedicherà una giornata della memoria alle stragi compiute contro i cittadini del sud nell’epoca che è stata chiamata risorgimento solamente da chi effettivamente risorse, non da chi cadde improvvisamente nella miseria e nell’ignoranza. Saremo un paese unito quando si riconoscerà l’importanza che il sud ha avuto per lo sviluppo dell’economia italiana, della “locomotiva” piemontese, che prima dell’unità era poco più di una barca che affondava, ricoperta di debiti. Saremo uniti quando per il sud non verranno riservati solo tagli e calunnie da parte di esponenti politici razzisti e ignoranti, la cui malagestione e corruzione sta causando il dilagare della pandemia al nord e una strage di innocenti. Saremo uniti quando il sud verrà rispettato e valorizzato, e ciò non porterà ricchezza e successo solo al sud, ma all’intera Italia.
Egregio Lorenzo,
A leggere questa sua noticina mi viene un dubbio: ha letto per caso l’articolo che critica? Forse no, perché altrimenti si sarebbe reso conto che mi sono limitato a confutare cinque presunti primati del Regno delle Due Sicilie.
Quindi, per restare in argomento, Le chiedo: è vero o falso quello che ho scritto? Lei, prima di puntare il dito con epiteti morali (venduto… a chi?) provi a rispondere.
Ma forse a Lei la verità non interessa affatto.
A me sì, tantissimo.
Buona giornata e vada a fare il troll altrove.
Saverio Paletta
Gentile Sig. Paletta
non vorrei, come si dice, uscire fuori dal seminario, ma parlando di primati del sud perché non vengono citati Totò? il teatro di De Filippo? la canzone napoletana? forse perché questi ed altri primati appartengono all’Italia Unita? Un cordiale saluto
Mi permetto di aggiungere una informazione alla ricostruzione del dottor Paletta circa il numero di studenti dell’università di Napoli. Per frequentare le lezioni nella capitale ai regnicoli non si chiedeva né iscrizione né esame di ammissione, il che rendeva impossibile distinguere tra coloro che volevano conseguire un grado dottorale, che dovrebbero essere considerati gli “studenti” a tutti gli effetti, e i semplici uditori. Il numero di circa diecimila è dunque una semplice stima che mescola le due categorie e risulta pertanto inutilizzabile.
Aggiungerei, come ulteriore elemento di valutazione della politica scolastica del governo borbonico, che la spesa per l’ateneo napoletano fino al 1860 oscillò sempre intorno ai 34.000 ducati annui. Nel 1861 la spesa a carico del pubblico erario ammontò a ducati 90.904,01.