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Primati delle Due Sicilie, sei casi nulli

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Proseguiamo col debunking storiografico dei presunti record del Sud preunitario. Come sempre, si tratta di iniziative giuste, importanti e doverose, che tuttavia altri avevano realizzato prima….

Ci sono parole che hanno un destino strano. Prendiamo, ad esempio, primati, che rende al plurale due sostantivi: senz’altro primato, che significa grosso modo una cosa fatta prima o meglio degli altri, e primate, che è il nome scientifico delle scimmie.

Un primato

L’ironia di questo gioco di parole non è neppure sottintesa, visto che per secoli le scimmie sono state considerate caricature naturali dell’uomo.

Ma che c’entrano le scimmie coi record? C’entrano, eccome. E ve lo dimostriamo subito con un esempio: prendiamo sei primati attribuiti dai neoborbonici al Regno di Napoli e delle Due Sicilie e passiamoli al setaccio. Se sono cose fatte prima o meglio degli altri, primati sarà il plurale di primato, altrimenti parliamo di scimmie.

Un primate

Non è proprio uno scherzo, visto che il Movimento Neoborbonico si gioca un bel po’ di credibilità proprio sui presunti record ottenuti dal Sud Italia sotto il regime borbonico. Di questa scommessa esistono due prove corpose: una lista di primati pubblicata sul sito web del Movimento (leggi qui) e un libro, Il libro dei Primati del Regno delle Due Sicilie dal 1734 al 1860. 135 record descritti, illustrati e commentati (Grimaldi & C., Napoli 2019), di Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento.

Prima di procedere, è doveroso un avviso: le due liste, quella del sito e quella contenuta nel libro, non coincidono, segno che lo Stato Maggiore neoborb ha operato delle aggiustatine qui e lì, perché forse qualcuno si è accorto che, tra un record e l’altro, c’era qualche scimmietta. Ora, chi scrive non è proprio uno zoologo provetto, ma di sicuro sa distinguere un record da una scimmia.

La copertina del “Libro dei Primati” di Gennaro De Crescenzo

Procediamo.

  • 1852. Primo bacino di carenaggio italiano in muratura (Napoli).

Sappiamo benissimo che Ferdinando II di Borbone aveva l’uzzolo dello sviluppo produttivo e si impegnò per dotare di infrastrutture il suo Regno.

Fosse vissuto oggi, Napoli (e sì, anche Palermo) avrebbe un aeroporto fantastico e la Salerno-Reggio Calabria sarebbe un’autostrada vera.

Tuttavia, il bacino di carenaggio resta un’opera utile e bella, ma non è un primato. Infatti, i napoletani si sono fatti fregare di circa sette secoli da Venezia (una Repubblica, rendiamoci conto!), il cui celebre Arsenale risale al 1104. L’Arsenale è pieno zeppo di opere in muratura: gli squeri, cioè dei cantieri per le imbarcazioni a remi.

Ferdinando II di Borbone

Di sicuro, partendo da questo popò di vantaggio, non sarà difficile trovare vari squeri che battono di secoli il bacino napoletano: ne è un esempio lo Squero delle Gaggiandre, che fu costruito nel 1573. Perciò, non abbiamo a che fare con un primato, ma con una scimmia che merita sì e no qualche nocciolina.

È vero che gli squeri hanno le stesse funzioni dei bacini di carenaggio, ma qualcuno potrebbe cavillare che non sono proprio la stessissima cosa. Lo serviamo subito: un bacino di carenaggio in muratura fu costruito a Genova nel 1851. In questo caso, una banana la si può concedere.

  • 1795. Primo carcere italiano per il recupero dei detenuti (Ventotene).

Di uno studioso come il prof De Crescenzo ci si può fidare. Perciò lo prendiamo in parola quando afferma che a Ventotene si tentò il primo esperimento di recupero dei detenuti.

Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento Neoborbonico

Ci fidiamo di lui perché non siamo accademici-negazionisti. Tuttavia, nell’interesse del Movimento e dei suoi simpatizzanti, proviamo un po’ a fare gli avvocati del diavolo e ci caliamo nei panni di un Paolo Macry o di un Salvatore Lupo qualsiasi.

I due, di fronte a questa bellissima affermazione do Professore, secondo il quale il Regno di Napoli avrebbe anticipato di un secolo e mezzo la Costituzione repubblicana per quel che riguarda la condizione dei detenuti, si chiederebbero: ma dove stava scritto che a Ventotene si tentasse di recuperare i detenuti? C’è qualche leggina, articoletto o regolamentuccio che prova queste buone intenzioni?

Poi, con un po’ di malignità in più, il Carmine Pinto di turno (che è più giovane e per giunta salernitano, quindi più cattivello) si chiederebbe: nelle altre carceri cosa si faceva? Come vivevano i detenuti? Per quali scopi avevano costruito le altre carceri in Italia?

Carmine Pinto (esempio di “accademico negazionista”)

Il silenzio a queste domande significa un paio di cosette: che non c’è la prova che a Ventotene si tentasse il recupero dei carcerati e che manca la prova che le altre carceri, a differenza di Ventotene, fossero luoghi deputati alla brutalità di secondini sadici stile certi b movie anni ’70.

Ma noi, siccome diffidiamo degli accademici-negazionisti, continuiamo a fidarci do Professore e gli concediamo almeno una cosa: che a fine ’700 il concetto di recupero del reo fosse un tantinello diverso rispetto ad oggi.

Quindi non ci meravigliamo che la rieducazione comprendesse trattamenti piuttosto duretti come: legare i detenuti con catene di lunghezza variabile a seconda dei compiti che gli venivano affibbiati (cioè, lavare i pavimenti, svuotare i buglioli delle feci, lavorare i campi); divieto di uscire dalle celle per gli ergastolani (già: perché sprecare il prezioso acciaio di Mongiana per dei cattivissimi irrecuperabili e quindi senza fine mai?); la famigerata tortura della cassetta, in cui il reprobo veniva legato a una panca e preso a bastonate sotto gli occhi più o meno caritatevoli e preoccupati del direttore del carcere, del medico e del cappellano.

Silvio Pellico (che però non fu detenuto a Ventotene…)

Roba tosta? Certo. Ma i detenuti da recuperare non erano mica gente facile: si pensi che Ventotene pullulava di camorristi, come tutte le altre carceri del Regno, e che non erano proprio rari i casi in cui i carcerati se le davano di santa ragione, fino ad ammazzarsi tra loro, praticavano il pizzo a danno dei compagni di prigionia più deboli o meno protetti e via discorrendo.

Misure dure per uomini duri: mica era lo Spielberg, dove un Silvio Pellico qualsiasi aveva il tempo di scrivere un diario e di addomesticare i ragnetti. Il Regno di Napoli, purtroppo, necessitava di ordine e disciplina, quella che solo i Borbone sapevano impartire.

Non era, per capirci, la Toscana, dove il granduca Pietro Leopoldo si poteva permettere di scrivere nella sua Riforma Leopoldina già nel 1786, quindi nove anni prima del supposto primato borbonico, che tra i fini della pena c’è la rieducazione del reo. Il primato carcerario non c’è. Quindi anche in questo caso abbiamo a che fare con una scimmia. Anzi, dati i metodi, con un gorilla.

  • 1783. Primo cimitero in Europa a uso di tutte le classi sociali.

Un piccolo primato, in questo caso c’è: Ferdinando I, grazie al cimitero di Palermo, è riuscito ad anticipare Totò di poco meno di due secoli. Insomma, grazie ai Borbone, ’a morte era’na livella già da allora.

Ferdinando I di Borbone

Per il resto, il cimitero palermitano ha una lunga sfilza di predecessori sul suolo europeo. Escludiamo, per carità di Patria Duosiciliana, le necropoli etrusche e latine e ci soffermiamo sul medioevo, in cui i francesi inaugurarono la pratica della sepoltura interclassista con gli Champ de Dieu.

Tra questi, segnaliamo il Cimitero degli Innocenti, costruito a Parigi nel XII secolo. Ma il primato non esiste per un altro motivo: il privilegio della sepoltura riguardava solo le Chiese, molte delle quali traboccano ancora delle spoglie di nobiluomini e borghesi benestanti.

Per il resto, tutta l’Europa aveva una orografia funebre simile a quella francese: ogni centro urbano aveva un unico cimitero destinato al riposo di chi non poteva permettersi la sepoltura in Chiesa. La questione è di lana caprina. Anzi, di pelo di scimmia.

  • 1764. Primi studi di epidemiologia in Europa (Michele Sarcone).

Non vogliamo togliere nulla a Michele Sarcone, grande medico pugliese trapiantato a Napoli, che godé della stima di don Carlos (quello vero) e di Bernardo Tanucci ed è ricordato, grazie alla sua inclinazione umanitaria, come l’Ippocrate napoletano.

Michele Sarcone, l’Ippocrate napoletano

Ma c’è da dire che lo studio dell’epidemiologia, tornato oggi di gran moda a causa del Coronavirus, si praticava in Europa già da tempo: ne è un esempio il Trattato della peste, et pestifero contagio di Torino pubblicato nel 1634 da Giovanni Francesco Fiochetto, archiatra di casa Savoia, protomedico del Ducato piemontese e assai legato a Emanuele Filiberto di Savoia (quello vero). Visto che Torino è in Italia, il primato europeo non esiste.

E le scimmie? Considerata la situazione generale della medicina dell’epoca, quindi anche della veterinaria, morivano lo stesso di malattie oggi banali, a dispetto degli sforzi eccezionali di grandi precursori come Sarcone e Fiochetto.

  • 1735. Prima cattedra di Astronomia in Italia (Pietro De Martino).

In questo caso si potrebbe disquisire a lungo sulle differenze, tra astronomia e astrologia che sono state per secoli non troppo pronunciate. Ovviamente non vogliamo togliere nulla alla bravura del matematico sannita Pietro De Martino, che ottenne (meritatissimamente) una cattedra di Astronomia e nautica.

L’osservatorio astronomico di Asiago (non è un primato…)

Ma questa cattedra fu semplicemente ottima, mica la prima. Infatti, l’insegnamento dell’astronomia era praticato a Bologna sin dalla fondazione dell’Università e si hanno notizie certe sull’attività di Bartolomeo da Parma in qualità di lector di astronomia nella città emiliana nel 1297.

Qualcuno potrebbe cavillare che quello dell’astrologo e geomante medievale fosse un insegnamento, equiparabile a una libera docenza moderna e non una cattedra. Lo serviamo subito: una vera e propria cattedra di Astronomia fu creata a Bologna nel 1334, quattro secoli prima rispetto a quella ricoperta da De Martino.

Le scimmie si sanno arrampicare benissimo, ma a volte possono cadere e farsi male. Anche questo è un modo di vedere le stelle

  • 1770. Prima “carrozza marittima” e futuro hovercraft (Raimondo di Sangro).

L’ansia da primato è tale che i neoborbonici arrivano ad arruolare tra le file dei primatisti Raimondo di Sangro, il mitico principe di Sansevero, figura di primissima grandezza nell’immaginario della Massoneria, altrimenti accusata di aver cospirato per far cadere il Regno delle Due Sicilie. E probabilmente non fu un caso che don Carlos (quello vero, ripetiamo), sovrano altrimenti illuminatissimo, mise fuori legge la framassoneria e costrinse Sansevero, che ne era gran maestro, all’abiura.

Carlo III di Borbone, il grande re di Napoli

L’oggetto curioso, che il sito dei Neoborbonici segnala come antenato dell’hovercraft, è la carrozza marittima con cui il geniale principe stupì i napoletani che si trovavano a Posillipo nel luglio 1770: una chiatta a trazione meccanica decorata con finti cavalli in sughero. Una bazzecola, per uno come di Sangro, che continua a stupire il mondo con le macchine anatomiche e con quel capolavoro assoluto che resta il Cristo Velato, commissionato a un virtuoso dello scalpello come Giuseppe Sanmartino.

Ovviamente, la carrozza marittima non ha nulla a che vedere con l’hovercraft o acquaplano, che invece è un battello che naviga sollevato sull’acqua da un cuscinetto d’aria. A voler essere proprio pignoli, una diavoleria del genere l’aveva già immaginata nel 1716 lo svedese Emanuel Swdedenborg, che aveva disegnato una nave poggiata su un cuscino ad aria.

Raimondo di Sangro principe di Sansevero

Tanto per cambiare, il primato non c’è e quel geniaccio di Sansevero voleva solo impressionare i suoi concittadini con un divertissment. De Crescenzo se n’è accorto e ha derubricato il primato nel suo libro a «oggetto entrato a far parte del mondo contemporaneo».

E le scimmie? Stavolta quasi non c’entrano: possiamo solo dire che all’epoca di Sansevero erano affrescate nelle abitazioni dei nobiluomini in vena di esotismi.

Per saperne di più:

Leggi il nostro articolo: “Le Due Sicilie e i primati che non esistono”

Leggi il nostro articolo: “Primati neoborbonici, sette casi inesistenti”

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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