Vogliamo i colonnelli. Storia di un golpe tutto da ridere
La satira più corrosiva sulla strategia della tensione e sulla paura del colpo di Stato nell’Italia della Prima Repubblica
«Io della linea del partito me ne frego. È arrivato il momento di entrare ’n azione: un pugno d’omini decisi e tutti ci verranno dietro. Chi per fede, chi per interesse, chi per paura. E questa è la mi’ linea. E, stappativi l’orecchi, la vojo seguì fin’in fondo». Ovvero, la strategia della tensione secondo Mario Monicelli nel suo Vogliamo i colonnelli (1973), un classicone della commedia di costume in cui l’impegno civile si mescola alla satira più corrosiva. Niente risate, ma solo un unico ghigno, dalla prima all’ultima scena.
Il film, piuttosto noto negli anni ’70, si ispira alle due trame golpiste in cui parecchi storici hanno individuato altrettanti momenti apicali della strategia della tensione: il Piano Solo, ideato nel 1964 dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo e il Golpe Borghese, tentato dall’ex comandante della X-mas Junio Valerio Borghese nella notte dell’Immacolata del 1970.
Monicelli realizzò Vogliamo i colonnelli in una fase particolare dell’inchiesta giudiziaria che seguì al tentato colpo di Stato Borghese: cioè quando ancora il presunto coinvolgimento dei vertici dei Servizi segreti e di alti gradi del mondo militare non era ancora emerso (anche se, c’è da dire, tutti gli imputati sono stati prosciolti). Logico, quindi, che la pellicola risenta pochissimo della dietrologia che si sarebbe scatenata, c’è da dire più sulla stampa che nelle aule giudiziarie, negli anni immediatamente successivi e che la satira del grande cineasta romano si appuntasse, invece, sugli aspetti più caricaturali delle due vicende, soprattutto del Golpe dell’Immacolata, con l’aiuto della formidabile coppia di sceneggiatori costituita da Agenore Incroce e dal pluricandidato all’Oscar Furio Scarpelli. Da due così, che avevano già consegnato alla storia del cinema gioielli come l’Armata Brancaleone e In nome del popolo italiano, non poteva che uscire un gioiello.
E infatti, Vogliamo i colonnelli è una delle satire più riuscite della classe politica italiana della Prima Repubblica, incluso il mondo neofascista, dentro e fuori il Movimento sociale italiano, di cui per la prima volta venivano messi alla berlina i tic e le ossessioni.
L’immenso Ugo Tognazzi, fresco reduce da Il generale dorme in piedi (1972) di Ugo Massaro (caricatura del mondo militare simile a Vogliamo i colonnelli), è perfettamente a suo agio nei panni dell’onorevole Giuseppe Tritoni, focoso deputato della Grande Destra, sue le battute citate in apertura, che in disaccordo con la linea democratica del segretario onorevole Mazzante, organizza il golpe con la complicità di alcuni militari. Fin qui i riferimenti al Msi sono più che espliciti: l’italobrasiliano Tino Bianchi (che, appunto, interpreta Mazzante) nel film sembra un clone di Giorgio Almirante e l’espressione Grande Destra rievoca sin troppo il progetto almirantino di rendere presentabile (e ministeriabile) il suo partito traghettandolo dal neofascismo verso lidi più conservatori. Anche nella figura di Tritoni c’è più di un riferimento a Sandro Saccucci, ex tenente dei paracadutisti ed ex militante di Ordine Nuovo, che fu arrestato nel’71 con l’accusa di aver partecipato al Golpe Borghese e poi, dopo 11 mesi di carcere, fu eletto deputato nel Msi.
In questo caso, la satira colpisce le contraddizioni di quel mondo, che fu comunque variegato e molto più complesso di quanto lo dipingessero gli antifascisti. Giusto per fare un esempio di come invece l’occhio ironico di Monicelli cogliesse queste contraddizioni, si può citare la scena in cui Tritoni arringa i camerati in un campo di addestramento paramilitare: «Ordine, obbedienza e disciplina», urla il deputato, «basta con l’antistorica uguaglianza! Ma che vuol dire? Ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore? Madonna d’un Dio! Soltanto i coglioni sono uguali l’uno all’altro!». In altre parole, è la versione rozza della lezioncina dell’ex filosofo comunista Armando Plebe che, mollato il marxismo, si avvicinò prima al Psdi e poi al Msi, dove Almirante lo accolse a braccia aperte e per il cui elettorato scrisse alcuni pamphlet diventati celebri come Filosofia della Reazione (Rusconi, Milano 1971) e Quel che non ha capito Carlo Marx (Rusconi, Milano 1972), in cui capovolgeva tutto quel che aveva studiato e sostenuto fino al 1968…
Ma, sempre a proposito di contraddizioni, il camaleontico Tritoni fa ben altro. Ad esempio, lusinga militari di ogni tipo. E la sua lista di golpisti e piena di vecchi arnesi come il colonnello Ribaud (l’aristocratico Antonino Faà di Bruno, che tra l’altro era un generale in pensione che faceva l’attore per hobby ed era diventato famoso nei panni del fantozziano Duca Conte Piercarlo Ing. Semenzara), il rimbambitissimo generale Alceo Pariglia (Belisario De Matteis), che nelle intenzioni dei congiurati avrebbe dovuto essere l’uomo simbolo del golpe, il colonnello Elpidio Aguzzo (il milanese Camillo Milli, già allievo di Strehler), il colonnello Quintiliano Turzilli (il caratterista romano Max Turilli), il colonnello Barbacane (l’ex supergourmet ed ex insegnante Giuseppe Maffioli), il colonnello Furas (il giornalista-scrittore e avventuriero Giancarlo Fusco) e il generale Bassi-Lega, l’arnese più vecchio di tutti, che muore d’infarto durante la gag gustosissima in cui Tritoni gli seduce Marcella, la figlia ninfomane (interpretata dalla brava e fascinosa Carla Tatò), che riempirà di corna per tutto il resto della storia il bollente deputato.
Non pago, Tritoni si dedica agli ambienti dell’alta aristocrazia filomonarchica e al mondo dei ricchi. In questo caso, spiccano la contessa Amelia di Amatrice (la fiorentina Barbara Herrera, caratterista di spicco nei film di Fellini) e l’industriale Irnerio Steiner (Luigi Lenner), costretto dal deputato a finanziare il golpe.
Anche la descrizione monicelliana della fauna neofascista è uno spasso: si va da Tarcisio “Ciccio” Introna (un cattivissimo e sgrammaticatissimo Vincenzo Falanga), il braccio destro di Tritoni, a Franz Cavicchia detto Nerchia (il caratterista Giuseppe Castellano), cintura nera di karate convertito al verbo golpista che, tuttavia, non partecipa al Putch, a cui preferisce la compagnia della Bassi-Lega…
Pure la Chiesa fa la sua parte: è il cappellano militare monsignor Sartorello (interpretato dal compianto Duilio Del Prete, che avrebbe recitato in seguito con Tognazzi e sempre per la regia di Monicelli nel fortunatissimo Amici miei), che di religioso ha pochissimo. Tra gli interpellati da Tritone c’è anche chi rifiuta: è il caso del generale De Vincenzo (chiarissimo il riferimento a De Lorenzo…): «All’epoca sbagliai, ma ora credo nella democrazia», dice il militare all’attonito Tritoni. Infatti, a golpe avvenuto, ma senza i fascisti, diventerà ministro della Difesa.
E il resto della politica? Non ci fa bella figura. Non la fa il comunista Gigino Di Cori (il francese Francois Périer) che, tempestivamente informato dal golpe dallo sfigatissimo giornalista extraparlamentare Armando Caffè (l’unico cameo del disegnatore-umorista Pino Zac, fondatore de Il Male assieme a Pino Vauro), prende sul serio la notizia solo quando quest’ultimo viene massacrato di botte da Introna e dai suoi camerati. Non la fa neppure il sottosegretario democristiano onorevole Ferlingieri (interpretato dal bravissimo Mico Cundari) che confessa al suo ministro e compagno di partito di non sapere nulla del golpe, mentre freddo appare il socialista Bertoni (interpretato dall’italoargentino Loris Bianchi), nella cui figura si scorge qualche riferimento a Giacomo Mancini, all’epoca segretario del Psi.
Alla fine il golpe si fa. Ma non lo realizzeranno i neofascisti, che prendono una stecca dietro l’altra e vengono arrestati in maniera ingloriosa. Bensì lo farà il ministro dell’Interno Salvato Li Masi (il cantante lirico siciliano Lino Puglisi) con l’appoggio della Polizia e con la scusa politica di reprimere il golpe buffonesco dei fascisti. Anche nella figura di Li Masi è facile leggere il riferimento ai leader dell’epoca. Ma, più che Andreotti, l’allusione più facile da cogliere è ad Amintore Fanfani.
Monicelli conclude il suo golpe con una citazione perfida: nella scena clou, il Presidente della Repubblica (interpretato dal francese Claude Dauphin) muore stroncato da un infarto. Il riferimento non è un caso ma richiama il colpo apoplettico che colse Antonio Segni nelle fasi più concitate dell’inchiesta sul Piano Solo…
Alla fine della vicenda, Tritoni si troverà emarginato e costretto a vendere il suo piano a due golpisti africani. Inutile dire che Vogliamo i colonnelli è da rivedere, non fosse altro che per ridere di vicende su cui si è speculato e pianto sin troppo. Basta la colonna sonora, un insieme di vecchie canzoni militari e melodie moderne elettroniche composte da Enrico Rustichelli a far capire che le risate che questo film sa ancora suscitare avrebbero potuto esorcizzare le ansie di allora e prevenire alcune tragedie degli anni successivi. Una risata vi seppellirà, dicevano i sessantottini. Che, tuttavia, non seppero neppure sorridere davanti a questo film, che le risate le offriva sul classico piatto d’argento.
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