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L’uomo della strada fa giustizia, ovvero la vendetta nel cinema italiano

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La caccia solitaria di un padre affranto ai banditi che gli hanno ammazzato la figlioletta. Una violentissima pellicola dei ruggenti anni ’70

C’è chi ha inserito L’uomo della strada fa giustizia (1975), terza incursione di Umberto Lenzi nel poliziesco all’italiana, nel filone particolare del cosiddetto cinema della vendetta, che avrebbe come punto di riferimento nientemeno che Il giustiziere della notte (1974). E il paragone, a tratti, sembra reggere, per almeno due motivi. Innanzitutto, perché il personaggio principale della pellicola di Lenzi, il glaciale Henry Silva, è stato considerato un po’ il Charles Bronson del cinema italiano. In secondo luogo, perché il film ricalca lo schema tipico del filone: un borghese pacifico dalla vita normale e dalle abitudini tranquille si trasforma in una belva sanguinaria per vendicarsi di un torto o di una tragedia.

Ma due analogie sono poche perché questa pellicola, forse non un capolavoro ma comunque pregevole, possa essere considerata un rip off di un modello straniero. Non fosse altro perché di giustizieri fai da te il cinema italiano era pieno anche prima che Michael Winner sdoganasse il genere a livello internazionale col suo giustiziere. Si pensi, solo per fare due esempi, al Luca Canali di La mala ordina (1972) o al Carlo Antonelli di Il cittadino si ribella (1974).

Inoltre, c’è da dire che la particolare situazione italiana dell’epoca – a cavallo tra il periodo della strategia della tensione e gli anni di piombo – conferisce ai polizieschi tricolore un particolare taglio politico che manca, invece, agli omologhi statunitensi e britannici.

Detto altrimenti: l’Italia degli anni ’70 era violenta come lo erano gli Usa. Ma la nostra violenza era in buona parte una violenza politica e, quindi, un problema politico, al punto che proprio allora si ebbe un’affermazione forte delle destre, istituzionali e non (dal Msi alla maggioranza silenziosa), proprio a causa dei problemi irrisolti (e incontenibili) dell’ordine pubblico e della sicurezza.

Un volpone del cinema come Umberto Lenzi, approdato al poliziesco dopo una gavetta robusta nei film d’azione e nel giallo all’italiana, non poteva non fiutare i malumori e le paure della borghesia terrorizzata e indignata e ricavarne, con l’aiuto di uno sceneggiatore di gran mestiere come il lucano Dardano Sacchetti, una pellicola coi fiocchi, piena di ritmo, suspense e violenza. Tutto ciò che lo spettatore medio cercava per esorcizzare in sala le sue paure e la sua rabbia.

La trama, come già accennato, è piuttosto semplice: l’ingegner Davide Vannucchi (interpretato, appunto, dal granitico Henry) è il classico borghese benestante e pacifico. Finché, un brutto giorno sua figlia Clara viene uccisa durante una rapina. Prima di spirare, la piccola (interpretata dalla baby star Susanna Melandri) rivela di aver notato un dettaglio: uno scorpione. Questo dettaglio, inserito ad arte nella sceneggiatura, complica una storia altrimenti elementare, conferendole un aspetto più thriller rispetto alla media dei polizieschi. Deluso dai primi riscontri con la polizia, Vannucchi comincia, assieme alla ex moglie Vera (l’ex bond girl Luciana Paluzzi, la cattivissima Fiona Volpe di Thunderball operazione tuono) la discesa negli inferi della sua inchiesta privata.

Didascalico, al riguardo, il colloquio col commissario Bertone (il francese Raymond Pellegrin). «Allora, che aspettate a prendere quelle belve?», chiede l’affranto Vannucchi. «Che le devo dire? Posti di blocco, retate, ma servono a poco, purtroppo. Ci vuole pazienza. Tempo e molta pazienza». «E lei sa dirmi soltanto questo?». «Senta, signor Vannucchi, si guardi intorno: questa non è più una città, è diventata una polveriera. Ogni giorno la lista dei delinquenti si allunga di un chilometro. Sì, magari aspetto una soffiata da qualche parte, ma che altro posso fare, con un organico e dei mezzi che sono quelli di dieci anni fa?». Sembra di sentire un poliziotto di oggi…

Torniamo alla trama: in questa discesa agli inferi, Vannucchi e sua moglie non sono soli. Il disperato ingegnere viene contattato da due strani personaggi: l’avvocato Mieli (un superbo Claudio Gora), che fa parte della Maggioranza silenziosa (il riferimento politico, va da sé, è chiarissimo) e Pascucci, un ex tenente dell’Arma (il bravo Luciano Catenacci, a suo agio come sempre nei ruoli da duro). I due hanno fondato un movimento di autodifesa civile e offrono il loro aiuto all’addolorato padre, che però in prima battuta declina e, su indicazione dell’amico giornalista Paolo Giordani (l’ottimo Silvano Tranquilli), si rivolge a Salvatore Mannino (Claudio Nicastro, altro volto notissimo del cinema di quegli anni), un investigatore privato decisamente borderline. Da qui in avanti è una sequenza continua di colpi di scena: Vannucchi e Vera sono aggrediti più volte, mentre la Polizia colleziona figuracce e Mannino viene ucciso. Inoltre, e qui è l’unica nota di colore del film, l’ingegnere trova l’insperato aiuto di Liala, un travestito dalle frequentazioni discutibili (interpretato dal caratterista Alberto Tarallo), che mette l’uomo sulle tracce di alcuni banditi. Anche Liala pagherà caro l’aiuto all’ingegnere, ormai fuori controllo: sarà aggredito e violentato con un’enorme candela dai malviventi. Per inciso, questa è l’unica scena del film con riferimenti sessuali espliciti, a cui con tutta probabilità, si è ispirato venti anni dopo Quentin Tarantino per il suo Pulp Fiction.

Prostrato e disorientato, l’ingegnere accetta l’aiuto di Mieli e Pascucci che lo indirizzano sulle tracce dei banditi. Il finale, in cui Lenzi infila con maestria un ennesimo colpo di scena, che riabilita la Polizia e scredita i giustizieri fai da te, è da manuale: Silva, che riacquista il suo volto più truce, fa una carneficina. Ma la verità non è quel che sembra…

Ci fermiamo qui per non guastare la visione di questa valida pellicola, che ripropone i cliché del genere con alcuni spunti di riflessione in più. Certo, L’uomo della strada fa giustizia è più che datato. Ma, vista l’attuale impasse del cinema italiano, questo non è un difetto: le scene d’azione sono superbe, lo sfondo (una Milano sporca e cattiva come nei film di Di Leo), notevole e degno di un noir e la colonna sonora, composta dal bravissimo Bruno Nicolai, bellissima. Serve altro?

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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