I ragazzi del massacro. Cronaca di uno stupro, tra letteratura e cinema
Una storia sordida di violenza e minori deviati: i perdenti del boom della Milano degli anni ’60
«Io non ho la stessa visione del crimine di Giorgio Scerbanenco, lui aveva una concezione romantica dei delinquenti che io, figlio e nipote di avvocati e laureato in legge, non ho, perché ne ho conosciuti tanti». Così, in un documentario girato qualche anno prima della morte, Fernando di Leo commentò il proprio rapporto intellettuale con il celebre scrittore italo-ucraino, papà del noir all’italiana.
E ancora: «Senza aggiungere nulla a me e togliere qualcosa a lui, devo dire che ogni volta che mi sono ispirato a Scerbanenco, da lui ho preso il venti per cento, ma l’ottanta per cento è Di Leo».
Vale anche per I ragazzi del massacro (1969), il primo film del regista pugliese ispirato alla produzione del celebre scrittore? Sì e no. Vediamo perché.
Sì, perché la trama del romanzo, il terzo delle serie di Duca Lamberti, è ripresa piuttosto fedelmente, tranne che per gli immancabili adattamenti cinematografici: ad esempio, il Lamberti del film, interpretato da Pier Paolo Capponi, mattatore dei polizieschi e dei film di mala tra i ’60 e i ’70, non è, come nel romanzo, un medico radiato dall’albo per aver praticato un’eutanasia e improvvisatosi detective con grande efficacia. È, con una esemplificazione secca, un commissario di polizia dai metodi rudi ma dalla grande sensibilità sociale.
Discorso simile per Livia Ussaro, la protagonista femminile della serie, interpretata dalla supersexy (ma non troppo in questo film) Susan Scott: non ha sfregi in viso e fa l’assistente sociale e non è la collaboratrice di Lamberti.
No, invece, per le caratterizzazioni dei giovani delinquenti: laddove in Scerbanenco c’è un tono quasi lombrosiano, soprattutto nelle descrizioni somatiche, nella trasposizione cinematografica dileana prevale un approccio quasi pasoliniano. I giovani disadattati ricordano fin troppo i ragazzi di vita del grande poeta. Come avrebbe raccontato Capponi anni dopo, «erano ragazzi presi per strada, pochi dei quali avevano vere doti artistiche». Un modo come un altro, magari sulla scia dell’insegnamento neorealista, di far entrare la vita nel cinema.
E che vita, anzi malavita: tutti i giovani protagonisti provengono da famiglie povere, vivono di espedienti e di piccoli crimini, finché non commettono, sobillati da chi li sfrutta per biechi motivi, un delitto atroce, troppo grande anche per loro.
E veniamo alla terribile, terribile anche a cinquant’anni di distanza, scena dello stupro iniziale, subìto da Matilde Crescenzaghi (interpretata dalla sconosciuta Anna Maria La Rovere, ripiombata nell’anonimato dopo essere entrata nella storia del cinema grazie a questa sola scena), la maestra della scuola serale che i giovani devianti sono costretti a frequentare. I ragazzi, sotto l’effetto dell’anice lattescente, un superalcolico potentissimo (oltre 70 gradi), brutalizzano e uccidono la giovane donna.
Molto si è insistito su questa sequenza terribile, che apre il film ed è ripetuta con più dettagli nella parte finale. Le immagini, poco compiaciute e girate con una camera a mano, sono disturbanti e crude. Certo, oggi non provocherebbero gli svenimenti in sala che si verificarono nel ’69, ma restano un pugno nello stomaco difficile da dimenticare.
Tuttavia, alla critica è sfuggito un dettaglio importante: l’anice lattescente è l’escamotage narrativo con cui Scerbanenco prima e Di Leo poi introducono quasi di straforo un tema tabù per l’epoca: la droga. E, sempre a proposito di tabù, il film e il romanzo hanno un altro merito: la denuncia sociale. «Allora la stampa bacchettona», raccontò il regista anni dopo, «censurava certe notizie». E forse fu questo il motivo per cui Scerbanenco fu trattato con gelo dalla critica, alla stregua di un romanzatore di mattinali di polizia (quei comunicati che all’epoca venivano relegati nelle pagine interne).
Anche in questo caso, Di Leo è un allievo piuttosto fedele di Scerbanenco: come nel romanzo, l’indagine di Lamberti si svolge nei bassifondi di Milano, tra i perdenti e gli emarginati dal boom sociale. Ma, a differenza dello scrittore, il regista non ha uno sguardo pietoso: i ragazzi hanno violentato e ucciso la maestra perché cattivi. I loro bassi istinti non sono (solo) il frutto del disagio sociale, ma (anche e soprattutto) sono il frutto di una crudeltà quasi infantile in cui c’è poco spazio per la redenzione.
Il cinema ha, tuttavia, esigenze diverse dalla letteratura. E proprio per questo Di Leo schiaccia forte l’acceleratore sulla devianza, che nel film non è solo sociale. I suoi ragazzi di vita si fanno mantenere da donne più grandi senza scrupolo alcuno. Così è per la signora Novak (la triestina Gabriella Venditti, nota col nome d’arte di Gabriella d’Olive), che mantiene Ettore Lusic, forse il più cattivo del gruppo.
La devianza è anche sessuale, come nel caso di Fiorello Grassi (interpretato da Giuliano Manetti), l’unico che non partecipa al massacro perché gay, anzi invertito, come viene definito nel film con il crudo linguaggio dell’epoca. Grassi, non appena finito al riformatorio Beccaria, si suicida.
Per proseguire le indagini, nonostante lo scetticismo del questore Luigi Càrrua (interpretato da Enzo Liberti, volto noto della commedia all’italiana e degli sceneggiati Rai), Lamberti decide di prendere in affidamento Carolino Marassi (Marzio Margine), che sembra in prima battuta il meno reticente del branco. E proprio la presenza di Marassi in casa Lamberti scatena il dramma da cui deriverà la soluzione, amarissima, del caso.
Oggi, che la cronaca nera più pruriginosa invade le prime pagine e le aperture dei telegiornali, un film così non fa quasi più impressione. Tuttavia, I ragazzi del massacro resta, nel suo approccio pionieristico e grazie alla buona fattura, garantita dalla mano solida del regista e dalla dolce colonna sonora di Silvano Spadaccini, raro esempio di attore-compositore, una pellicola forte. Forse non è un capolavoro, di sicuro non il capolavoro di Di Leo, che avrebbe raggiunto la maturità artistica a partire da Milano Calibro 9, ma merita di essere rivisto, per capire come il cinema, almeno in Italia, sia stato un potente stimolo alle trasformazioni culturali.
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