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Don Benedetto progressista? Ma quando mai… Una riflessione su Croce politico

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Un recente libro di Eugenio Di Rienzo fa luce sull’attività del grande filosofo nell’immediato dopoguerra e rivela i rapporti difficili (e spesso pericolosi) con la classe politica nata dalla Resistenza e, in particolare, col Pci di Togliatti

Le élite progressiste che dominarono la cultura italiana a partire dagli anni Cinquanta del Novecento si sforzarono di inserire il pensiero e l’azione di Benedetto Croce in un’improbabile casa comune nella quale il liberalismo del filosofo napoletano avrebbe dovuto convivere in armonia con il liberismo di Einaudi, il democraticismo di Giovanni Amendola, il giacobinismo di Salvemini e il liberalismo sovietizzante di Piero Gobetti.

Croce a Villa Tritone nel 1944 con tre delle sue figlie (da sinistra: Alda, Silvia e Lidia)

Questa operazione culturale, arbitraria quanto spregiudicata, riscosse un successo notevole: tant’è che ancora oggi la vulgata corrente insiste sulla narrazione di un Croce intellettuale progressista, poco interessato alla sopravvivenza della monarchia, dapprima condiscendente verso i diktat degli Alleati dopo l’8 settembre, poi convinto europeista, infine serenamente persuaso della necessità storica di un nuovo ordine mondiale democratico, equo e solidale, che avrebbe posto fine allo Stato Nazione, sconfiggendo una volta per tutte gli egoismi delle antiche patrie.

Contro questa versione falsamente rassicurante sta, però, tutta una serie di indizi raccolti da Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia moderna presso La Sapienza di Roma, nel saggio Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948, edito da Rubbettino.

Di Rienzo ricostruisce la biografia politica crociana nel difficile periodo compreso fra la caduta del fascismo e le elezioni politiche del 1948. Già all’indomani del 25 luglio Croce, pur esultando per la fine della dittatura, non nascose a se stesso l’angoscioso presentimento che l’Italia, perduta la guerra, sarebbe stata costretta a firmare una resa senza condizioni, accettando di conseguenza i termini di una durissima «pace punitiva» e non di una «pace costruttiva». L’infausta premonizione prese effettivamente corpo l’anno successivo, di fronte alla constatazione del sentimento di rivalsa del governo inglese verso la Media Potenza mediterranea che aveva osato sfidare la Grande Potenza imperiale di cui Giorgio VI cingeva la corona.

La copertina del libro di Di Rienzo

Ad aggravare il malcontento del filosofo si aggiunse la spinosa questione dello scioglimento del nodo istituzionale, che costituiva – nell’ottica crociana – la condizione imprescindibile per garantire la sopravvivenza stessa dell’Italia e assicurarne il futuro di organismo politico pienamente sovrano.

La soluzione prospettata da Croce prevedeva la rimozione di Vittorio Emanuele III e del figlio Umberto, troppo compromessi con la ventennale dittatura, e il trasferimento della corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele Alberto Carlo di Savoia, reggente la madre di questi, Maria José, affiancata da un Consiglio di reggenza. Il progetto, tenacemente avversato dal re, fu preso seriamente in considerazione anche dal cosiddetto «governo di Brindisi», presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, che aveva giurisdizione sulla parte d’Italia liberata dagli Alleati. Alla fine, però, Croce dovette accettare una soluzione di compromesso, ovvero la luogotenenza del principe di Piemonte, reputata in grado di colmare – almeno parzialmente – il fossato che separava la Corona e le forze politiche che si erano opposte al fascismo.

Sulla questione istituzionale andò a sovrapporsi l’ennesimo motivo di contrarietà che turbò, in questi anni, la quiete del direttore della Critica: il conflitto con Palmiro Togliatti. La cosiddetta svolta di Salerno, operata dal segretario del Partito comunista italiano con l’avallo dell’Unione Sovietica, fu sancita, dopo l’arrivo di Togliatti a Napoli, dal suo intervento pronunciato il 31 marzo 1944 nel Consiglio nazionale del partito e poi dalla conferenza stampa del 1 aprile successivo: in tali occasioni il Migliore dichiarò di voler mettere da parte il problema della forma monarchica o repubblicana dell’Italia liberata per favorire la costituzione di un governo «di unità nazionale». Il 24 aprile 1944 nacque, effettivamente, il secondo gabinetto Badoglio, del quale facevano parte gli stessi Togliatti e Croce.

Ciò significava per il filosofo, fieramente antibolscevico, una duplice sconfitta. Da un lato, infatti, Vittorio Emanuele III riuscì a conservare, sia pure provvisoriamente, la nominalità del potere, come peraltro auspicato anche dai governi di Londra e Washington; dall’altro il Partito Comunista, grazie all’audace e astuta mossa del suo segretario, ipotecò un ruolo d’indirizzo del nuovo corso della politica italiana.

Benedetto Croce assieme a Enrico De Nicola

Da questo nuovo corso, culturale oltre che politico, Togliatti mostrò ben presto, e apertamente, di voler estromettere il pensiero crociano. Il 18 giugno 1944 infatti, nel periodico La Rinascita, il Migliore sferrò un virulento attacco ad personam all’ospite di Palazzo Filomarino, accusandolo senza mezzi termini di aver collaborato con il fascismo, in cambio «della facoltà che gli fu concessa di arrischiare ogni tanto una timida frecciolina contro il regime». L’aver accettato la funzione di campione della lotta contro il marxismo e di fiancheggiatore della dittatura, mentre gli oppositori pativano il carcere, l’esilio o addirittura la morte, rappresentava – secondo Togliatti – «una macchia di ordine morale» incancellabile e imperdonabile.

Il ritorno alla «ferocia della politica», anche verbale, ricordava sin troppo da vicino gli «anni ruggenti» del primo fascismo. Ciò, commenta Di Rienzo, fece sorgere in Croce la dolorosa consapevolezza che la patria italiana non sarebbe mai più risorta quale era stata prima del 1922, essendosi inoltrata in uno squallido viale del tramonto. L’amara constatazione derivava non solo da uno stato d’animo soggettivo, ma anche da alcuni innegabili fatti oggettivi: il desolato panorama di un’Italia tagliata in due dalla guerra fratricida, liberata in parte dalla dittatura eppure non più nazione sovrana a causa del suo stato di «Paese armistiziato», che preludeva alla perdita, forse totale, di un ruolo attivo e autonomo sulla scena internazionale.

Il pessimismo del filosofo sul destino geopolitico del Paese contrasta singolarmente con l’immagine comune di un Croce profeta dell’unificazione europea, accanto a De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman e perfino ad Altiero Spinelli. Il direttore della Critica vedeva piuttosto, nella scomparsa dello Stato-Nazione, il venir meno del terreno in cui si era radicato quell’ordinamento liberale che solo, dal suo punto di vista, avrebbe potuto garantire la pace e la stabilità sociale nel Vecchio Continente.

Pur nell’ambito di una situazione storica che non concedeva molto spazio alle illusioni, Croce riuscì tuttavia a esercitare un ruolo non secondario sulla scena politica italiana del dopoguerra. Il filosofo, infatti, fu forse il principale attore dell’operazione che nel dicembre del 1945 portò alla caduta del gabinetto presieduto da Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione. Il 14 giugno precedente, incontrando Parri, Croce gli aveva fatto osservare che poco di buono poteva venire da una situazione in cui comunisti, socialisti e azionisti puntavano a impadronirsi, tramite la Presidenza del Consiglio, del Ministero dell’Interno e della preparazione della legge per la Costituente, in modo da attuare in Italia «una Repubblica sociale, comunistico-socialistica». Per evitare ciò, i liberali avrebbero reclamato il dicastero degli Affari interni, essendo il loro partito quello che meglio di ogni altro avrebbe protetto la libertà di voto per tutti.

Sordo all’ammonimento crociano, Parri assunse l’interim dell’Interno, condannando a rapida fine il suo governo e contribuendo così, involontariamente, all’apertura di una nuova fase politica che, nel giugno 1947, pose fine all’esperienza dei governi del Cnl. In tal modo, commenta Di Rienzo, nell’essere stato uno dei principali protagonisti di quella svolta moderata che segnò il cammino della politica italiana nei decenni a venire, Croce confermò – come ebbe a scrivere egli stesso nei Taccuini di lavoro – la sua fama di «conservatore», sì, ma di «conservatore soltanto della logica, e con essa del supremo bene, appena riacquistato, della libertà».

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