Il caso Cirillo nel ricordo di un giudice
Le Br, dopo il sequestro dell’esponente democristiano, entrarono nella loro fase finale. E dopo anni di violenze emersero i legami tra l’eversione “rossa” e la camorra di Cutolo. Ed emerse il ruolo forte della Dc nella trattativa, a dispetto dei tentativi di nascondere la polvere sporca sotto i tappeti del potere
Secondo alcuni, il sequestro di Ciro Cirillo, assessore regionale Dc ai Lavori pubblici della Campania e uomo di fiducia di Antonio Gava, fu una sorta di perdita della verginità per le Br.
Non tanto per il rapimento in sé ma per l’emersione dei legami con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo che si pose come intermediaria per la liberazione dell’esponente democristiano. Non da sola, ma con l’avallo di vari rappresentanti delle istituzioni (e dei Servizi Segreti in particolare).
A un’attenta lettura de Il caso Cirillo. La trattativa Stato-Br-Camorra (Tullio Pironti, Napoli 2019), il libro intervista di Carlo Alemi, il magistrato che si occupò della delicatissima inchiesta giudiziaria emerge qualcosa di più di questa lettura, non sbagliata ma parziale: questa verginità le Br (e, in generale, l’eversione rossa) non l’avrebbero avuta mai. Con buona pace di una certa letteratura, soprattutto giornalistica, tuttora garantista e perdonista nei confronti del terrorismo di sinistra.
Certo, solo con il criminologo Giovanni Senzani, capo della colonna napoletana e ideatore del rapimento del big della Dc, si ebbe la teorizzazione compiuta dei rapporti col proletariato più borderline. Lo stesso, per capirci, in cui pescava la Camorra, in particolare la Nco, che rispetto alle organizzazioni criminali comuni aveva marcate connotazioni ideologiche di riscatto sociale.
Secondo una certa vulgata, tra l’altro prevalente, questo dialogo si sarebbe concretizzato soprattutto a Napoli nel momento storico in cui la parabola delle Br aveva imboccato la china discendente. A favore di questa tesi ci sarebbe anche l’argomento secondo cui la visione di Senzani non fosse pacificamente accettata nelle Brigate rosse e non a caso l’ala che faceva capo al criminologo forlivese si costituì in un autonomo Partito della guerriglia, considerato scissionista dall’ala militare delle Br
Non è dello stesso parere Alemi, che incrociò sin da subito, nel corso della sua inchiesta monumentale, i rapporti pericolosi tra la colonna partenopea e le realtà criminali del Mezzogiorno.
Questa diversa lettura è confermata dall’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti in un lungo passaggio della Prefazione al volume di Alemi, che riportiamo per intero:
«Raffaele Cutolo pescò nello stesso bacino sociale – le masse di emarginati del sottoproletariato urbano e rurale, i disoccupati e i detenuti – gli affiliati alla Nco, attribuendo strumentalmente a tale organizzazione una impronta profondamente eversiva, come alternativa e antagonista rispetto allo Stato.
Fu quella stessa matrice che accomunò, nel carcere detenuti politici e comuni e consentì – non solo attraverso l’esperienza carceraria – un connubio profondo tra istanze eversive e disegni criminali. I due mondi dialogarono naturalmente: “Sono molte le storie di nappisti”, scrisse Amato Lamberti, “che, entrati in galera per episodi come l’assalto ad armerie, vengono contattati dalla camorra di Cutolo e diventano operativi nella Nco”».
I due fenomeni criminali avevano matrici comuni ed era fatale che facessero il classico pezzo di strada assieme.
Ma questa constatazione cambia letteralmente la lettura e consente di tracciare un parallelo tra i comportamenti delle Br e quelli, analoghi, di certa eversione di destra radicale. Al riguardo, il caso più celebre è quello dei Nar, che collaborarono (come accertato anche in sede giudiziaria) con la Banda della Magliana e la stessa Camorra.
Insomma, lo spirito rivoluzionario – reale o solo presunto – non dà patenti di superiorità morali a nessuno.
Un’altra prova, non proprio indiretta, della profondità di questo legame tra criminalità organizzata ed eversione rossa, è fornita dalla consapevolezza minima del fenomeno mafioso negli ambienti dell’autonomia, di cui una gran parte contigui alla stessa eversione. In altri termini, la lotta alla mafia fu iniziata dalla sinistra e dalla destra istituzionali (cioè Msi e Pci), mentre al livello extraparlamentare prevalse una atteggiamento di comprensione e, a volte, di fiancheggiamento (per fortuna, il più delle volte solo culturale).
Ma nei primi anni ’80 si era ancora al di qua della lotta alle mafie e riscoprire il caso Cirillo attraverso il racconto di Carlo Alemi consente di aprire un ennesimo squarcio sul sistema di collusioni che imperava nella fase conclusiva della Prima Repubblica.
Già: Cirillo fu rapito il 27 aprile 1981, un anno prima dell’assassinio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre e un anno e mezzo prima della strage di via Carini, in cui fu ucciso il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, i due delitti che spinsero il Parlamento ad approvare la legge sull’associazione a delinquere di stampo mafioso.
L’inchiesta di Alemi illumina in profondità il legame consolidato tra i partiti di potere, in particolare la Democrazia cristiana, e le organizzazioni criminali. Un legame che in intere zone del Meridione era diventato sistema politico.
La Napoli in cui Cirillo viene rapito – e poi rilasciato dietro un riscatto di un miliardo e quattrocentocinquanta milioni di lire dell’epoca – è la città ferita dal terremoto, in cui, tra le violenze dei terroristi e quelle dei camorristi, i morti si contano a centinaia.
E la stessa Dc, che ha una consistente fetta di onesti tra i suoi amministratori, piange, ma probabilmente non troppo, le sue vittime: il sindaco di Pagani Marcello Torre, ucciso dai cutoliani nel 1980, l’assessore regionale al Bilancio Pino Amato e quello al Lavoro Raffaele Delcogliano, eliminati dai brigatisti.
È la città impegnata nella ricostruzione, attorno a cui ruotano fior di miliardi.
È la città in cui il partito egemone, la Dc, può permettersi di perdere i suoi uomini più puliti e onesti ma si fa in quattro per salvare Cirillo, con uno sfacciato cambio di linea rispetto al sequestro Moro. L’inchiesta di Alemi, condotta senza i poteri di cui dispongono oggi gli inquirenti antimafia, scoperchiò proprio questo altarino di collusioni inconfessabili, che crearono triangolazioni spaventose tra il mondo politico, quello criminale e quello istituzionale.
Nella trattativa per salvare l’assessore democristiano, che gestiva i flussi finanziari della ricostruzione, intervennero uomini di spicco dei Servizi Segreti, in particolare il faccendiere Francesco Pazienza, che godeva della fiducia dei vertici del Sismi ed era volta legato a Flaminio Piccoli, il segretario nazionale della Dc. Intervennero, ovviamente, i politici. E intervenne Cutolo nel ruolo di mediatore attraverso il suo braccio destro Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone.
Questa carambola vertiginosa di nomi spiega perché la Democrazia cristiana tentò di negare in blocco sia l’esistenza della trattativa sia il proprio ruolo in essa. E spiega perché l’inchiesta di Alemi si svolse in maniera più che travagliata da ostacoli di tutti i tipi, tra cui l’eliminazione fisica di alcuni teste, le ingerenze particolari della Procura napoletana e le levate di scudi del potere politico, a volte fiancheggiate dalla stampa.
Il racconto del magistrato, scritto a dire il vero in maniera un po’ farraginosa, è un’occasione importante per rivivere il clima avvelenato di quegli anni terribili. Ed è, purtroppo, anche l’addio a una firma importante del giornalismo italiano. Ci riferiamo a Luigi Necco, conosciuto dai più come grande cronista sportivo, coautore de Il caso Cirillo, scomparso proprio mentre il libro era ancora nelle rotative. Tutti i segreti hanno un aspetto terribile. E quello legato al caso Cirillo ne aveva più d’uno. Ma chi ha tentato di nascondere la polvere sotto il tappeto (o dentro il Vesuvio) non ha fatto i conti con due cose: il caparbio coraggio di un giudice istruttore e il fatto che, a Napoli, tutti i segreti, alla fin fine, sono di Pulcinella
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