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Applausi e Sputi. Enzo Tortora e il processo più tragico dell’Italia gaudente

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Pentiti, giudici e giornalisti contro un uomo solo e indifeso. Rivive il più drammatico e clamoroso errore giudiziario nel bel libro di Vittorio Pezzuto

Perché parlare ancora di un piccolo classico come Applausi e Sputi. Le due vite di Enzo Tortora?

La prima risposta è banale: il libro di Vittorio Pezzuto – già esponente degli antiproibizionisti e rappresentante di punta degli ambienti radicali, ex consulente del Ministero della pubblica amministrazione e firma di molte testate – merita. Eccome. E non fa nulla se questo volumetto ha già dato alla grande a livello editoriale, prima con Sperling&Kupfer, che l’ha pubblicato nel 2008 e ristampato tre volte, poi, più di recente, con Kepler Edizioni, che l’ha riedito in versione digitale nel 2016.

La seconda risposta merita qualche riflessione in più. Quella di Tortora, c’è da dire, è una biografia infinita, a causa di quella tragica disavventura giudiziaria che ha segnato non solo la vita del celebre conduttore, ma addirittura l’immaginario collettivo.

Logico, allora, che il maxiprocesso alla Nuova camorra organizzata continui a proiettare il proprio cono d’ombra su tutta la vicenda umana del giornalista ligure, a dispetto del fatto che le disavventure giudiziarie occupino solo gli ultimi cinque anni della sua vita.

Ma le tante polemiche seguite a questo tragico bluff giudiziario, uno dei più grandi passi falsi (non importa se in buonafede) nella storia della magistratura italiana, hanno lasciato un fardello più che pesante agli storici: il Tortora imputato eccellente, politico per protesta ed eurodeputato radicale, pesa e peserà sempre di più del coltissimo cronista e del brillante innovatore della comunicazione televisiva che gli italiani avevano imparato a conoscere e ad apprezzare fino al tragico 17 giugno 1983. Il giorno in cui, con la vita di Tortora, cambiò la storia d’Italia. Soprattutto, iniziarono ad incrinarsi i rapporti, a dirla tutta già non troppo felici, tra classe politica, stampa e magistratura.

La terza risposta è residuale: nel raccontare gli Applausi, Pezzuto riesce a ricostruire con mano davvero felice la parabola professionale di Tortora: dagli esordi in teatro alle prime vicissitudini con la Rai, dove si era fatto le ossa, prima in radio e poi in tv con programmi storici come Telematch e Campanile Sera, con le importanti conduzioni del Festival di Sanremo (1959) e de La domenica sportiva (1965-1969), fino al seminale Portobello. Senza, ovviamente, tralasciare le esperienze, anch’esse pionieristiche, con le prime emittenti private e con la televisione svizzera.

Da una lettura più approfondita di questa prima parte della biografia di Tortora, emergono degli spaccati importanti della storia dell’editoria italiana. In particolare, risulta piuttosto gustoso il racconto dell’esperienza breve ma intensissima de Il Nuovo Quotidiano di Bologna, alla cui direzione Tortora era approdato dopo il praticantato professionale presso La Nazione.

Ideato e finanziato dall’imprenditore Luciano Conti, fondatore del Guerin Sportivo e del mensile Qui Bologna, questo quotidiano si contrapponeva a Il Foglio, legato alla sinistra Dc. Entrambi miravano a contendere il terreno allo storico Il Resto del Carlino.

I due giornali si fecero una lotta senza quartiere. Tortora, già noto per le sue posizioni conservatrici (restano celebri le sue prese di posizione contro i sessantottini, i gruppi della sinistra parlamentare), si irrigidì anche nei riguardi delle sinistre istituzionali, il Pci in particolare. Alla fine, i due giornali rivali fallirono, tra vertenze, recriminazioni reciproche e polemiche feroci, che danno ancor oggi la misura dei malumori e dei rancori che animano il sottobosco delle redazioni. E, se si vuole, dell’ipocrisia di tanto fair play professionale tra giornalisti, che l’attuale crisi sta cancellando (e forse è una fortuna).

Anche in questo coacervo di passioni, malsopite e il più delle volte cattive, di cui il giornalismo italiano è fonte e preda allo stesso tempo, è possibile intravedere, col senno del poi, una delle cause della disgrazia di Tortora.

Veniamo agli sputi, che purtroppo per i motivi finora accennati costituiscono la parte più rilevante della biografia tortoriana. Difficile, anche a quasi trent’anni dalla morte del conduttore, rievocare questa vicenda senza una pulsione di rabbia, senza farsi domande e, perché no?, rivivere i dubbi provati all’epoca da tutti.

Tranne, probabilmente, dagli accusatori, dagli inquirenti e, purtroppo, dalla quasi totalità dei cronisti che seguirono il maxiprocesso. Oltre all’arresto, che lo sviluppo successivo degli eventi avrebbe rivelato infondato, proprio la saldatura tra i pentiti, i magistrati e i media si rivelò micidiale per Tortora.

Ed è proprio in questo delicatissimo ginepraio che Pezzuto affonda con lucida precisione il bisturi del suo racconto.

La vicenda la conosciamo più o meno tutti: Tortora finì in carcere da innocente in seguito alle cantate di tre pregiudicati: il boss Giovanni Pandico (di origini sarde ma legato a don Raffaele Cutolo, ’o Professore ’e Vesuviano), il superkiller Pasquale Barra detto ’o Animale e Gianni Melluso detto Gianni il Bello o Gianni Cha Cha Cha, un piccolo delinquente che millantava un rapporto col boss milanese Francis Turatello. A loro si aggiunsero semplici mitomani, come il pittore Giuseppe Margutti (che già prima di puntare il dito su Tortora aveva sul groppone una condanna per calunnia) e sua moglie Rosalba Castellini. Alla fine della giostra, mentre l’inchiesta cresceva e veniva amplificata oltremisura dai media, i pentiti che accusarono il conduttore di Portobello di associazione mafiosa e spaccio di stupefacenti arrivarono a 19. Più un indizio, che a rileggere oggi gli atti del processo sa di farsa: il ritrovamento di un numero telefonico associato erroneamente ad Enzo Tortora nell’agendina del camorrista Giuseppe Puca detto ’o Giappone.

Tutto questo coacervo di accuse, che sarebbero state completamente ribaltate in appello, fu preso terribilmente sul serio dalla Procura di Napoli, soprattutto dai giudici istruttori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, che lavorarono all’inchiesta, dal pm Diego Marmo, che sostenne l’accusa in dibattimento.

L’inchiesta, c’è da dire, fu difesa a spada tratta anche dal procuratore capo Francesco Cedrangolo.

Ma il punto su cui picchia di più Applausi e sputi è il rapporto piuttosto perverso (e tutto da approfondire) tra stampa e inquirenti, caratterizzato dal rapporto di sudditanza della maggior parte dei cronisti nei confronti dei magistrati e, soprattutto, dei pentiti manlevati dalle toghe.

Questo rapporto generò più di una distorsione. La più evidente fu l’appiattimento della maxinchiesta napoletana, che coinvolse in prima battuta 856 persone e perciò avrebbe meritato maggiore attenzione, sulla figura di Tortora, che tra l’altro non era il principale accusato. Si è parlato di cronisti e non di giornalisti tout court, perché, come sottolinea Pezzuto, fu essenzialmente la manovalanza della cronaca che affollava le aule a puntare il dito su Tortora, pendendo spesso in maniera acritica dalle labbra di magistrati e pentiti.

Al contrario, con l’eccezione di Camilla Cederna, le migliori firme, che avevano alle spalle anni di cronaca ad alti livelli, si schierarono col presentatore: così il grande Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Piero Angela, innocentisti fin dalle prime battute del maxiprocesso.

Ma il cortocircuito stampa-magistrati-pentiti raggiunse l’apice con la pubblicazione di Gianni il bello. Autobiografia di un pentito (Jn, Napoli, 1986), scritto dall’accusatore di Tortora in collaborazione con la giornalista Francamaria Trapani, che tra le varie, era la consuocera del procuratore Cedrangolo

Un altro esempio di questo cortocircuito è offerto dal settimanale Oggi, dove la firma di punta e capo della redazione romana Pino Aprile fece da testimone di nozze a Gianni Cha Cha Cha per fotografarne il matrimonio in carcere, venduto in esclusiva alla rivista dal pentito.

Chiaro che, con questo schieramento contro, in cui spiccavano le pesanti requisitorie de Il Mattino, la difesa del presentatore visse il primo grado del processo, non più alla Camorra ma (almeno mediaticamente) a Tortora, in totale accerchiamento. Ci sarebbe voluto l’Appello perché gli sforzi degli avvocati Raffaele Della Valle, Alberto Dall’Ora e Antonio Coppola sortissero, finalmente, effetto con l’assoluzione del loro assistito, poi confermata dalla Cassazione.

Ma questa è un’altra storia. Com’è un’altra storia la dura battaglia politica intrapresa dal liberale Enzo Tortora nelle file del Partito radicale.

Ora, a 31 anni dalla conclusione d’o processone, cosa è cambiato? Poco o nulla, secondo Della Valle: nessuno dei problemi sorti dal maxiprocesso alla Camorra è stato risolto dal legislatore. Certo, quel processo a qualcosa servì, perché minò la credibilità del sin troppo usurato Codice di procedura penale dell’epoca, che fu sostituito negli anni ’90 dall’attuale sistema tendenzialmente accusatorio, anch’esso non privo di crepe, che purtroppo generano spesso distorsioni opposte a quelle lamentate all’epoca dai difensori del presentatore.

L’inchiesta napoletana fu, purtroppo, il parametro delle disfunzioni della giustizia e il tragico errore giudiziario che la macchiò fino in fondo sarebbe diventata, da lì a qualche anno la pezza d’accusa alla magistratura e, specularmente, l’argomento perennemente in bocca ai difensori, anche degli imputati più indifendibili.

In altre parole, come nota ancora Pezzuto, Tortora sarebbe diventato il santino degli imputati e la clava contro i pentiti, anche i più credibili, grazie ai giochi di prestigio dialettici in cui sin troppi penalisti risultano troppo bravi.

Come si è già detto, la prima edizione di Applausi e sputi risale al 2008, in occasione del ventesimo anniversario della morte del giornalista. Perciò sfuggono al racconto alcune cose: ad esempio, le scuse pubbliche alla famiglia Tortora del pm Marmo e l’arresto per omicidio di Gianni il Bello.

Ma fa niente: la memoria storica è comunque completa e questo volume potrebbe essere benissimo essere stato scritto ieri. Da leggere, si scusi il bisticcio, a futura memoria. Con la speranza che smetta di essere labile.

 Per saperne di più:

Il link di Bookrepublic ad Applausi e sputi

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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